2020-11-18
Il Covid dimostra che il pericolo sta diventando la base del potere
(Emanuele Cremaschi/Getty Images)
Il sociologo tedesco Ulrich Beck aveva capito che la globalizzazione si fonda sul rischio generalizzato. E che l'emergenza legittima i governi, i quali hanno interesse a tenerla viva.Mai tragedia come quella dell'ultima pandemia fu tanto prevista ed è tanto arrivata imprevista. Non suoni un paradosso. Che la globalizzazione, intesa come radicalizzazione e dispiegamento radicale e planetario del Moderno, avesse in sé l'emergenza, e quindi l'insicurezza generalizzata, come cifra di fondo, lo aveva intuito già negli anni Novanta il sociologo tedesco Ulrich Beck. Il quale può essere considerato uno dei massimi, se non il massimo, fra i teorici della globalizzazione. Ne è stato anche, per molti versi, un cantore, un apologeta, ovviamente non in modo banale. E ciò gli ha impedito forse di scorgere fino in fondo le tensioni e le torsioni a cui sarebbe andata incontro l'idea di libertà, che del Moderno stesso può essere considerato il fondamento ultimo ( e dopo tutto infondato). In qualche modo egli, con le sue opere, è andato oltre le riflessioni di Francis Fukuyama, riempiendole di senso e sostanza concreta. Fra i concetti che Beck ha adoperato per caratterizzare e dare una cifra della nostra epoca i più noti, e anche quelli a cui ha dedicato più spazio, sono senza dubbio «modernità riflessiva» e «società del rischio» (o «società planetaria del rischio»). Mentre col primo, egli si è inserito nel vasto e vario dibattito che ha coinvolto il pensiero filosofico, e non solo, soprattutto negli anni a cavallo fra i due millenni, sull'essenza e il senso del cosiddetto «post moderno», soprattutto in rapporto alla modernità; col secondo, egli ha colto un aspetto che oggi, ad anni di distanza, e col senno del poi, ci sembra particolarmente pregnante. Il rischio, in effetti, nella nostra epoca, non è un aspetto contingente ma è un carattere strutturale o essenziale. Senza rischio una società globale semplicemente non si dà. Nella modernità avanzata, osserva Beck, risolti i problemi connessi alla povertà e alla penuria, ai conflitti distributivi delle ricchezze se ne affiancano, acquistando sempre maggiore rilevanza, altri che concernono la produzione e distribuzione dei rischi. In effetti, nel processo di modernizzazione si sprigionano da sempre forze distruttive, ma esse nella nostra epoca agiscono in modo diverso e in diverso ordine di grandezza rispetto al passato. I nostri sono rischi non personali ma globali, non circoscrivibili, non solo imponderabili ma tali che spesso si sottraggono alla percezione e «di fronte ai quali la capacità di immaginazione dell'uomo appare inadeguata. Beck ci presenta una vera e propria fenomenologia del rischio e delle sue conseguenze individuali, sociali e politiche. Anche se non nasconde il fatto che il rischio, diventando strumento di legittimazione del potere, possa essere da questo utilizzato per perpetrarsi creando insicurezza (parla di «incertezze fabbricate»), Beck resta un inguaribile ottimista. Il governo del rischio futuro è per lui foriero di possibilità e opportunità per l'umanità, che a suo dire può darsi solo in un mondo aperto e globale e in cui gli individui siano consapevoli di questa interconnessione. È l'ideologia globalista, che Beck stesso, insieme a tanti altri, contribuì a elaborare e diffondere negli anni Novanta. Comunque sia, resta l'acutezza con la quale il sociologo tedesco colse il fatto, la connessione strutturale fra globalizzazione e rischio, arrivando persino a includere fra i rischi della società globale quello batteriologico o legato alla comparsa di un virus. Ma davvero il rischio può essere governato prima che si trasformi in catastrofe? Davvero il fatto che esso si dia come rischio globale è positivo perché crea una «comunità di destino» (così Beck si esprime) fra tutti gli uomini, tutti uguali non perché figli di Dio ma perché accomunati dallo stesso rischio? Davvero il fatto che siano saltate le vecchie forme del controllo istituzionale del rischio libera energie? Davvero è possibile per l'uomo ritrovare la libertà nel rischio?Ma la domanda fondamentale da porsi, a cui forse occorre dare una risposta articolata, che tenga presenti e in tensione le due alternative, è questa: l'emergenza è una condizione strutturale della società attuale globalizzata, che quindi va governata; o chi governa ha necessità a creare e mantenere l'emergenza, anche in modo fittizio, per tenere in piedi il proprio potere? A questo punto, credo sia opportuno incrociare le riflessioni di Beck con quelle, alle sue precedenti, e sicuramente di diverso spessore teoretico o speculativo, di Michel Foucault e Carl Schmitt […]. Che la democrazia sia in crisi, e che il sistema di potere usi leggi e decreti di emergenza per raggiungere i suoi scopi, è una tesi su cui convergono in molti autori, sia critici «da sinistra» sia «da destra» della società attuale. Zagrebelsky pensa soprattutto ai primi, come si evince dal riferimento che fa al «capitalismo selvaggio» e al «disagio sociale», ma l'avanzare dei movimenti anticasta è stata un fenomeno predominante, in questi ultimi anni, anche «a destra». Come è noto quello della crisi della democrazia, ma meglio sarebbe dire della democrazia liberale classica (costituzionale, rappresentativa), è un tema che ha generato, negli ultimi anni, una vasta e copiosa letteratura scientifica (spesso di maniera e a volte persino banale). Questa crisi comporta, in nome della governabilità e della rapidità, efficienza e efficacia delle azioni politiche, una messa in discussione delle forme e del potere delle istituzioni dello Stato di diritto. Essa comporta anche un ridimensionamento del ruolo del Parlamento (che è la più classica istituzione borghese e di controllo). In Italia, ad esempio, si è assistito progressivamente a un ricorso sempre più massiccio da parte dell'esecutivo ai decreti legge, i quali fra l'altro sono stati gonfiati con emendamenti di ogni tipo. Con l'emergenza si è fatto un ulteriore passo avanti, con l'introduzione e uso dei cosiddetti dpcm. Ora, l'idea è che, per usare strumenti di questo tipo, anche in tempi «ordinari» si debba prorogare quanto più possibile l'emergenza, oppure «crearla» proprio, significa che le «emergenze» sono per lo più fittizie e che un classico esempio di fictio iuris è anche la risposta che si dà ad esse. Anche se, d'altro canto, stando al paradigma beckiano, l'emergenza è permanente, un dato strutturale delle nostre società globali. Frasi come «approfittare del Covid non per tornare allo status quo ante ma per fare le riforme strutturali di cui abbiamo bisogno» sono significative da questo punto di vista. Oltre a una eccessiva dose di costruttivismo sociale, una frase del genere contiene di fatto una volontà di controllo del potere non indifferente. L'emergenza viene vista come opportunità, o «felice» coincidenza, per imporre un controllo diverso (una nuova razionalità politica) e anche per riscrivere sotto nuove coordinate la società.Per Agamben, e molti altri, l'idea di riorganizzazione della società che si vuol fare emergere è oggi su base digitale e «sostenibile», a forti tinte impolitiche e aconflittuali. In quest'ottica, il «distanziamento sociale» si appresta a divenire il nuovo modello di (non) politica.«È legittimo chiedersi se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto, dell'amicizia, dell'amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia».
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)