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Ansa
Nel nuovo libro di Corrado Ocone le analisi del sociologo tedesco Ulrich Beck: l'emergenza (anche sanitaria) diventa strumento di governo.
Fra i concetti che Beck ha adoperato per caratterizzare e dare una cifra della nostra epoca, alla che lui stesso definisce della «globalizzazione», i più noti, e anche quelli a cui ha dedicato più spazio, sono «modernità riflessiva» e «società del rischio» (o «società planetaria del rischio»). […]. Beck dice, in maniera pregnante, che: «la società del rischio è una società catastrofica. In essa lo stato di emergenza rischia di diventare la norma».
Il rischio, in effetti, nella nostra epoca, non è un aspetto contingente, ma è un carattere strutturale o essenziale. Senza rischio una società globale semplicemente non si dà. Nella modernità avanzata, osserva Beck, risolti i problemi connessi alla povertà e alla penuria, ai conflitti distributivi delle ricchezze, se ne affiancano, acquistando sempre maggiore rilevanza, altri che concernono la produzione e distribuzione dei rischi.
In effetti, nel processo di modernizzazione si sprigionano da sempre forze distruttive, ma esse nella nostra epoca agiscono in modo diverso e in diverso ordine di grandezza rispetto al passato. I nostri sono rischi non personali ma globali, non circoscrivibili, non solo imponderabili ma tali che spesso si sottraggono alla percezione e «di fronte ai quali la capacità di immaginazione dell'uomo appare inadeguata.
Beck ci presenta una vera e propria fenomenologia del rischio e delle sue conseguenze individuali, sociali e politiche. Ecco i punti principali attraverso cui si dipana il suo discorso.
1. Il rischio vive come anticipazione del rischio. Il rischio può anche essere poco probabile o può anche non realizzarsi (in una catastrofe). Ancora: può essere scansato semplicemente perché è stato anticipato e si sono messe in atto opportune misure precauzionali. Fatto sta che oggi si vive in uno stato di stress, incertezza, insicurezza e ansia pressoché totali.
2. Il rischio va controllato e governato. Sia individualmente, sia socialmente.
3. Il rischio può essere sfruttato economicamente. Ad opera della stessa società dei rischi che li ha prodotti.
4. Il rischio ha un enorme potenziale politico. Esso diventa strumento di controllo e governo, come conseguenza della richiesta da parte della società e dell'opinione pubblica di sicurezza e quindi protezione e gestione del rischio. Esso impone una riorganizzazione di poteri e competenze.
5. Il rischio si apre a «processi sociali di definizione». Si tratta di processi anche e soprattutto di «costruzione» (mediatici, politici, ecc.). In effetti, esprimendosi «in termini di sapere (scientifico o antiscientifico che sia)», cioè basandosi su «interpretazioni causali», i rischi «nel sapere possono essere cambiati, ridotti o ingranditi, drammatizzati o minimizzati e sono in questo senso particolarmente aperti a processi sociali di definizione. In tal modo i mass media e le professionalità deputate alla definizione dei rischi assumono una posizione chiave in termini sociali e politici»
Anche se non nasconde il fatto che il rischio, diventando strumento di legittimazione del potere, possa essere da questo utilizzato per perpetrarsi creando insicurezza (parla di «incertezze fabbricate»), Beck resta un inguaribile ottimista. Il governo del rischio futuro è per lui foriero di possibilità e opportunità per l'umanità, che a suo dire può darsi solo in un mondo aperto e globale e in cui gli individui siano consapevoli di questa interconnessione. È l'ideologia globalista, che Beck stesso, insieme a tanti altri, contribuì a elaborare e diffondere negli anni Novanta. Comunque sia, resta l'acutezza con la quale il sociologo tedesco colse il fatto, la connessione strutturale fra globalizzazione e rischio, arrivando persino a includere fra i rischi della società globale quello batteriologico o legato alla comparsa di un virus.
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(Emanuele Cremaschi/Getty Images)
Il sociologo tedesco Ulrich Beck aveva capito che la globalizzazione si fonda sul rischio generalizzato. E che l'emergenza legittima i governi, i quali hanno interesse a tenerla viva.
Mai tragedia come quella dell'ultima pandemia fu tanto prevista ed è tanto arrivata imprevista. Non suoni un paradosso. Che la globalizzazione, intesa come radicalizzazione e dispiegamento radicale e planetario del Moderno, avesse in sé l'emergenza, e quindi l'insicurezza generalizzata, come cifra di fondo, lo aveva intuito già negli anni Novanta il sociologo tedesco Ulrich Beck. Il quale può essere considerato uno dei massimi, se non il massimo, fra i teorici della globalizzazione. Ne è stato anche, per molti versi, un cantore, un apologeta, ovviamente non in modo banale. E ciò gli ha impedito forse di scorgere fino in fondo le tensioni e le torsioni a cui sarebbe andata incontro l'idea di libertà, che del Moderno stesso può essere considerato il fondamento ultimo ( e dopo tutto infondato). In qualche modo egli, con le sue opere, è andato oltre le riflessioni di Francis Fukuyama, riempiendole di senso e sostanza concreta.
Fra i concetti che Beck ha adoperato per caratterizzare e dare una cifra della nostra epoca i più noti, e anche quelli a cui ha dedicato più spazio, sono senza dubbio «modernità riflessiva» e «società del rischio» (o «società planetaria del rischio»). Mentre col primo, egli si è inserito nel vasto e vario dibattito che ha coinvolto il pensiero filosofico, e non solo, soprattutto negli anni a cavallo fra i due millenni, sull'essenza e il senso del cosiddetto «post moderno», soprattutto in rapporto alla modernità; col secondo, egli ha colto un aspetto che oggi, ad anni di distanza, e col senno del poi, ci sembra particolarmente pregnante.
Il rischio, in effetti, nella nostra epoca, non è un aspetto contingente ma è un carattere strutturale o essenziale. Senza rischio una società globale semplicemente non si dà. Nella modernità avanzata, osserva Beck, risolti i problemi connessi alla povertà e alla penuria, ai conflitti distributivi delle ricchezze se ne affiancano, acquistando sempre maggiore rilevanza, altri che concernono la produzione e distribuzione dei rischi.
In effetti, nel processo di modernizzazione si sprigionano da sempre forze distruttive, ma esse nella nostra epoca agiscono in modo diverso e in diverso ordine di grandezza rispetto al passato. I nostri sono rischi non personali ma globali, non circoscrivibili, non solo imponderabili ma tali che spesso si sottraggono alla percezione e «di fronte ai quali la capacità di immaginazione dell'uomo appare inadeguata.
Beck ci presenta una vera e propria fenomenologia del rischio e delle sue conseguenze individuali, sociali e politiche. Anche se non nasconde il fatto che il rischio, diventando strumento di legittimazione del potere, possa essere da questo utilizzato per perpetrarsi creando insicurezza (parla di «incertezze fabbricate»), Beck resta un inguaribile ottimista. Il governo del rischio futuro è per lui foriero di possibilità e opportunità per l'umanità, che a suo dire può darsi solo in un mondo aperto e globale e in cui gli individui siano consapevoli di questa interconnessione. È l'ideologia globalista, che Beck stesso, insieme a tanti altri, contribuì a elaborare e diffondere negli anni Novanta. Comunque sia, resta l'acutezza con la quale il sociologo tedesco colse il fatto, la connessione strutturale fra globalizzazione e rischio, arrivando persino a includere fra i rischi della società globale quello batteriologico o legato alla comparsa di un virus. Ma davvero il rischio può essere governato prima che si trasformi in catastrofe? Davvero il fatto che esso si dia come rischio globale è positivo perché crea una «comunità di destino» (così Beck si esprime) fra tutti gli uomini, tutti uguali non perché figli di Dio ma perché accomunati dallo stesso rischio? Davvero il fatto che siano saltate le vecchie forme del controllo istituzionale del rischio libera energie? Davvero è possibile per l'uomo ritrovare la libertà nel rischio?
Ma la domanda fondamentale da porsi, a cui forse occorre dare una risposta articolata, che tenga presenti e in tensione le due alternative, è questa: l'emergenza è una condizione strutturale della società attuale globalizzata, che quindi va governata; o chi governa ha necessità a creare e mantenere l'emergenza, anche in modo fittizio, per tenere in piedi il proprio potere?
A questo punto, credo sia opportuno incrociare le riflessioni di Beck con quelle, alle sue precedenti, e sicuramente di diverso spessore teoretico o speculativo, di Michel Foucault e Carl Schmitt […]. Che la democrazia sia in crisi, e che il sistema di potere usi leggi e decreti di emergenza per raggiungere i suoi scopi, è una tesi su cui convergono in molti autori, sia critici «da sinistra» sia «da destra» della società attuale. Zagrebelsky pensa soprattutto ai primi, come si evince dal riferimento che fa al «capitalismo selvaggio» e al «disagio sociale», ma l'avanzare dei movimenti anticasta è stata un fenomeno predominante, in questi ultimi anni, anche «a destra». Come è noto quello della crisi della democrazia, ma meglio sarebbe dire della democrazia liberale classica (costituzionale, rappresentativa), è un tema che ha generato, negli ultimi anni, una vasta e copiosa letteratura scientifica (spesso di maniera e a volte persino banale). Questa crisi comporta, in nome della governabilità e della rapidità, efficienza e efficacia delle azioni politiche, una messa in discussione delle forme e del potere delle istituzioni dello Stato di diritto. Essa comporta anche un ridimensionamento del ruolo del Parlamento (che è la più classica istituzione borghese e di controllo). In Italia, ad esempio, si è assistito progressivamente a un ricorso sempre più massiccio da parte dell'esecutivo ai decreti legge, i quali fra l'altro sono stati gonfiati con emendamenti di ogni tipo. Con l'emergenza si è fatto un ulteriore passo avanti, con l'introduzione e uso dei cosiddetti dpcm.
Ora, l'idea è che, per usare strumenti di questo tipo, anche in tempi «ordinari» si debba prorogare quanto più possibile l'emergenza, oppure «crearla» proprio, significa che le «emergenze» sono per lo più fittizie e che un classico esempio di fictio iuris è anche la risposta che si dà ad esse. Anche se, d'altro canto, stando al paradigma beckiano, l'emergenza è permanente, un dato strutturale delle nostre società globali. Frasi come «approfittare del Covid non per tornare allo status quo ante ma per fare le riforme strutturali di cui abbiamo bisogno» sono significative da questo punto di vista. Oltre a una eccessiva dose di costruttivismo sociale, una frase del genere contiene di fatto una volontà di controllo del potere non indifferente. L'emergenza viene vista come opportunità, o «felice» coincidenza, per imporre un controllo diverso (una nuova razionalità politica) e anche per riscrivere sotto nuove coordinate la società.
Per Agamben, e molti altri, l'idea di riorganizzazione della società che si vuol fare emergere è oggi su base digitale e «sostenibile», a forti tinte impolitiche e aconflittuali. In quest'ottica, il «distanziamento sociale» si appresta a divenire il nuovo modello di (non) politica.
«È legittimo chiedersi se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto, dell'amicizia, dell'amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia».
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Ansa
L'ultimo numero di Sfide, il periodico della Fondazione Craxi che come sottotitolo ha «Non c'è futuro senza memoria», dedica la sua sezione monografica ai Balcani occidentali. Tra gli altri temi trattati molto interessante è l'articolo che spiega come la classe dirigente italiana sia prigioniera della sindrome europea. Un'Europa il cui vuoto politico non sarà certo riempito dal Green new deal. Pubblichiamo un estratto dall'articolo di Corrado Ocone, filosofo della politica, intitolato «Ecologia, una nuova religione per l'Europa senz'anima».
Il 16 luglio 2019 il Parlamento di Strasburgo ha eletto Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea [...]. Nel discorso di insediamento, la nuova presidente ha presentato un programma molto ambizioso, [...] individuando un architrave ben preciso, la questione ambientale. [...]
A me sembra che sia in atto, da parte di una consistente parte delle élite che governano l'Europa, il tentativo di dare un «supplemento d'anima» […] al progetto di unificazione. […]
Un vero spartiacque per l'Europa fu sicuramente il 1989. […] Fu a questo punto che, non in modo del tutto casuale o inconsapevole, le «élite globaliste» cominciarono a concepire il disegno di dare una grossa sterzata non solo al progetto europeo ma in generale alla governance mondiale. […] Paradossalmente, la caduta del Muro di Berlino e la successiva riunificazione tedesca (3 ottobre 1990) crearono le condizioni per la rinascita della politica in Europa. Forse, le élite intuirono questo pericolo e cercarono proprio perciò di giocare di anticipo innestando quel processo culturale, oltre e prima che geopolitico, che fu chiamato «globalizzazione» […]. Da una parte, si accelerò l'introduzione della moneta unica, dall'altra si elaborò un progetto di Costituzione creando una Commissione presieduta da Valery Giscard d'Estaing. [...] Si rinunciò a scrivere nel preambolo che le radici dell'Europa erano «cristiane» e ci si precluse, in questo modo, di tener conto dell'unico elemento storicamente unificatore di popoli e nazioni così diversi. […] La Costituzione che ne venne fuori risultò esangue, prolissa, iperbolica: non era certo fatta per appassionare, né per creare consenso. Era «senza anima». […]
Ma il problema che ora ci interessa è un altro, e concerne la crisi economica e finanziaria che prende avvio negli Stati Uniti e colpisce i mercati finanziari di tutto il mondo a partire dal 2008. […] Oggi, dopo tanti anni, gli effetti della crisi, che ha generato povertà soprattutto fra le classi medie, sono stati solo parzialmente riassorbiti, e in modo diseguale nei diversi Paesi europei. […] È in questo clima sociale che hanno preso corpo e spinta propulsiva quei movimenti e partiti politici che sono stati variamente definiti come «populisti» e «sovranisti». […] Lungi dall'essere antipolitici, essi segnalavano con la loro presenza, spesso «barbara» e «incivile», la necessità di ritornare a fare politica e di dare una visione o un'anima all'Unione europea. Ed è qui che si colloca, come tentativo in atto, quello di individuare nella questione ambientale, assunta nei suoi termini più controversi e persino «catastrofisti», il cemento spirituale che manca all'Europa. […]
È sicuramente un fatto che la consapevolezza su questi temi sia molto aumentata, [ma] tale consapevolezza è più spontanea (come può esserlo un movimento di consumatori che emerge dal basso) o più indotta (come può esserlo una persuasione occulta o una manipolazione messa in moto da centrali culturali, politiche, economiche)? E, se è vera questa seconda ipotesi, chi è o chi sono gli autori di questa «manipolazione»? […] È in quest'ottica, a mio avviso, che va perciò inserito il progetto ambientalista assunto da ultimo dalle élite, cioè in sostanza dalle vecchie classi dirigenti che in questo modo vogliono preservare il potere rinnovandosi. […] Credo che molto del favore con cui la «svolta ambientalisa» è stata accolta presso la comunità economica (gli industriali) e finanziaria (i creatori e possessori di fondi di investimento etico e sostenibile) sia dovuto a questo motivo. […] Una religione con i suoi miti (cioè idee non «scientificamente» dimostrate), i suoi riti, i suoi missionari come Greta Thunberg .[…]
In conclusione, […] il progetto europeo, passato a un certo punto da fondamenti ideologici in vario senso cristiani ad altri proceduralistico-razionalizzatori, cerca ora, in una terza fase, di assumere un'anima usando l'ambientalismo come strumento. Dove tutto questo processo porterà non è dato ovviamente saperlo. Il fatto che però l'operazione avvenga ancora una volta «a tavolino», e che il sentimento europeo non nasca dal basso, fa essere molto scettici sul futuro di una Unione che politicamente mostra sempre più visibili i segni del logoramento.
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