
Il polo della ricerca italiano grava in massima parte sulle casse dello Stato, mentre i frutti delle scoperte valgono solo 55 milioni. Inoltre su 8.400 dipendenti, più di 3.000 sono amministrativi o dirigenti. Come quello che vuol curare il razzismo con l'ossitocina.Già la struttura organizzativa del personale dovrebbe far riflettere. E non soltanto perché, sul vivace sito internet del Consiglio nazionale delle ricerche, da una parte si legge che l'ultimo dato disponibile è quello del 2015, con 8.164 dipendenti, e questo malgrado una scritta azzurrina insista caparbia a segnalare che «l'ultimo aggiornamento risale all'8 febbraio 2017», mentre su un'altra pagina si scopre che gli addetti sarebbero quasi 250 di più, cioè 8.400. Ma soprattutto perché, se prendiamo come corretto il dato di tre anni fa, nel 2015 il Cnr disponeva di 4.474 ricercatori e di 603 non meglio identificati «tecnologi»: questo però significa che tutti gli altri 3.087 addetti erano (e probabilmente sono ancora) dirigenti, funzionari e impiegati amministrativi. Tra i quali vi è Gilberto Corbellini, Direttore del dipartimento di Scienze umane e sociali che vorrebbe curare il presunto razzismo italico con l'ossitocina, come da lui scritto su Wired.it e denunciato dalla Verità ieri. Per carità, l'onore della bandiera può dirsi salvo, visto che più o meno sei addetti su dieci del Cnr hanno comunque attaccata al bavero una mostrina da «tecnico». Ma anche la Corte dei conti, nell'ultima Relazione di controllo sulla gestione finanziaria del Cnr pubblicata lo scorso 19 giugno, critica in più di un paragrafo il «sovradimensionamento del personale amministrativo rispetto alla mission dell'ente».E basta poi un salto in Germania per rendersi conto che un grande centro di ricerca non può mettere al lavoro nei suoi laboratori soltanto sei ricercatori su dieci dipendenti. Perché è vero che la Fondazione Fraunhofer di Monaco di Baviera, con 24.000 addetti in oltre 80 istituti di ricerca applicata, è uno degli migliori esempi europei del settore ed è un concorrente con il quale è duro fare paragoni, ma tra i dipendenti della Fraunhofer Stiftung i ricercatori (in massima parte ingegneri) sono almeno otto su dieci.Del resto, nell'ultima classifica stilata dall'Epo, lo European patent office che in gennaio ha elencato i 100 principali «presentatori di brevetti» del 2017, la Fraunhofer si è piazzata al quarantaquattresimo posto con 460 brevetti. Mentre in quella lista, indicativa della concretezza produttiva della ricerca, il Cnr purtroppo non fa nemmeno capolino: questo perché i suoi brevetti, sì e no, sono una cinquantina l'anno. Mentre la centesima e ultima azienda nella lista 2017 dell'Epo, che per la cronaca è una società tecnologica di Shanghai (la Semiconductor manifacturing international corporation), di brevetti ne ha registrati ben 203.Va detto che nel portafoglio del Cnr, al 31 dicembre dell'anno scorso, c'erano comunque ben 350 famiglie di brevetti. Non poche. Nel 2017, però, le entrate generate dal loro sfruttamento hanno prodotto appena 575.000 euro, là dove deposito, mantenimento e tutela dei brevetti ne sono costati 466.000. È una partita di giro praticamente insensata.Ma il confronto tra il Cnr (nato nel 1923, sotto il fascismo) e la Fraunhofer (fondata dopo la guerra, nel 1949) è impietoso da ogni punto di vista. Anche nei bilanci. Dall'ultimo Rendiconto generale dell'esercizio finanziario 2017 del Cnr, infatti, emerge che su un totale di circa 910 milioni di euro di entrate, gli incassi iscritti alla voce «Vendita di beni e servizi e proventi derivanti dalla gestione dei beni» valgono appena 55 milioni, quindi rappresentano il 6% del totale. In Italia, si sa, non è mai stato facile creare profitto per un ente statale o un'azienda pubblica. E questo, probabilmente, è ancor più vero se l'oggetto sociale di quell'ente o di quell'azienda deve essere la ricerca. Resta il fatto, però, che «la vendita di beni e servizi» dovrebbe essere l'attività propria di qualsiasi soggetto, economicamente inteso. Mentre il risultato, sconfortante, è che il Cnr grava sullo Stato per 855 milioni, il 94% del suo bilancio. La Corte dei conti stima che il ministero dell'Istruzione e dell'Università garantisca oltre il 72% delle risorse, che altre amministrazioni pubbliche contribuiscano per quasi il 13%, e che la stessa Unione europea finanzi il Cnr per una quota del 6-7%. Quasi metà di questo flusso di denaro pubblico, peraltro, serve solo per pagare i dipendenti dell'ente: sempre secondo il Rendiconto 2017, agli addetti del Cnr sono stati versati 497,5 milioni di euro nel 2016 e 504,2 milioni nel 2016. Al contrario, le entrate della Fondazione Fraunhofer raggiungono una cifra molto superiore a quelle del Cnr, e cioè 2,1 miliardi di euro, ma soltanto per il 30% provengono dallo Stato tedesco o dai diversi Länder, gli Stati-regione in cui si articola la Repubblica federale. Il resto, cioè il 70% dell'attivo, proviene invece da soggetti privati e da imprese. Sono privati e imprese, insomma, che versano alla Fondazione tedesca 1,4 miliardi su 2,1. E tra i committenti figurano perfino le università. È un modello che funziona grazie alla struttura dell'ente, flessibile e basata sull'autonomia degli istituti, liberi di costruire relazioni con imprese e ogni tipo di committenza. Regole sconosciute, in quella specie di ministero che è il Cnr.
Roberto Fico (Ansa)
Dopo il gozzo «scortato», l’ex presidente della Camera inciampa nel box divenuto casa.
Nella campagna elettorale campana c’è un personaggio che, senza volerlo, sembra vivere in una sorta di commedia politica degli equivoci. È Roberto Fico, l’ex presidente della Camera, candidato governatore. Storico volto «anticasta» che si muoveva in autobus mentre Montecitorio lo aspettava, dopo essere stato beccato con il gozzo ormeggiato a Nisida, oggi scaglia anatemi contro i condoni edilizi, accusando il centrodestra di voler «ingannare i cittadini». «Serve garantire il diritto alla casa, non fare condoni», ha scritto Fico sui social, accusando il centrodestra di «disperazione elettorale». Ma mentre tuona contro le sanatorie, il suo passato «amministrativo» ci racconta una storia molto meno lineare: una casa di famiglia (dove è comproprietario con la sorella Gabriella) è stata regolarizzata proprio grazie a una sanatoria chiusa nel 2017, un anno prima di diventare presidente della Camera.
Edmondo Cirielli e Antonio Tajani (Ansa)
L’emendamento alla manovra di Fdi mira a riattivare la regolarizzazione del 2003. Così si metterebbe mano a situazioni rimaste sospese soprattutto in Campania: all’epoca, il governatore dem Bassolino non recepì la legge. E migliaia di famiglie finirono beffate.
Nella giornata di venerdì, la manovra di bilancio 2026 è stata travolta da un’ondata di emendamenti, circa 5.700, con 1.600 presentati dalla stessa maggioranza. Tra le modifiche che hanno attirato maggiore attenzione spicca quella di Fratelli d’Italia per riaprire i termini del condono edilizio del 2003.
I senatori di Fdi Matteo Gelmetti e Domenico Matera hanno proposto di riattivare, non creare ex novo, la sanatoria introdotta durante il governo Berlusconi nel 2003. Obiettivo: sanare situazioni rimaste sospese, in particolare in Campania, dove la Regione, all’epoca guidata da Antonio Bassolino (centrosinistra), decise di non recepire la norma nazionale. Così migliaia di famiglie, pur avendo versato gli oneri, sono rimaste escluse. Fdi chiarisce che si tratta di «una misura di giustizia» per cittadini rimasti intrappolati da errori amministrativi, non di un nuovo condono. L’emendamento è tra i 400 «segnalati», quindi con buone probabilità di essere discusso in commissione Bilancio.
Friedrich Merz (Ansa)
Con l’ok di Ursula, il governo tedesco approva un massiccio intervento sul settore elettrico che prevede una tariffa industriale bloccata a 50 euro al Megawattora per tre anni, a partire dal prossimo gennaio. Antonio Gozzi (Federacciai): «Si spiazza la concorrenza».
Ci risiamo. La Germania decide di giocare da sola e sussidia la propria industria energivora, mettendo in difficoltà gli altri Paesi dell’Unione. Sempre pronta a invocare l’unità di intenti quando le fa comodo, ora Berlino fa da sé e fissa un prezzo politico dell’elettricità, distorcendo la concorrenza e mettendo in difficoltà i partner che non possono permettersi sussidi. Avvantaggiata sarà l’industria energivora tedesca (acciaio, chimica, vetro, automobile).
Il governo tedesco ha approvato giovedì sera un massiccio intervento sul mercato elettrico che prevede un prezzo industriale fissato a 50 euro a Megawattora per tre anni, a partire dal prossimo gennaio, accompagnato da un nuovo programma di centrali «a capacità controllabile», cioè centrali a gas mascherate da neutralità tecnologica, da realizzare entro il 2031. Il sistema convivrebbe con l’attuale attuale meccanismo di compensazione dei prezzi dell’energia, già in vigore, come ha confermato il ministro delle finanze Lars Klingbeil. La misura dovrebbe costare attorno ai 10 miliardi di euro, anche se il governo parla di 3-5 miliardi finanziati dal Fondo per il clima e la trasformazione. Vi sono già proteste da parte delle piccole e medie imprese tedesche, che non godranno del vantaggio.
A 80 anni dall’Olocausto, Gerusalemme ha un ruolo chiave nella modernizzazione della Bundeswehr. «Ne siamo orgogliosi», dicono i funzionari di Bibi al «Telegraph». Stanziati da Merz quasi 3 miliardi.
Se buona parte della modernizzazione della Bundeswehr, le forze armate federali, è ancorata all’industria tedesca, Israele sta svolgendo un ruolo chiave nella fornitura di tecnologia di difesa. «La Germania dipende enormemente dalla tecnologia israeliana, in particolare nei settori della tecnologia dei droni, della ricognizione e della difesa aerea», riferisce Roderich Kiesewetter, membro della Cdu come il cancelliere Friedrich Merz e capo della delegazione tedesca presso l’Assemblea parlamentare euromediterranea (Apem). Il parlamentare ha aggiunto che il suo Paese «beneficia inoltre notevolmente della cooperazione in materia di intelligence, che ha già impedito molti attacchi terroristici in Germania». Al Telegraph, alti funzionari della difesa israeliani hanno dichiarato di svolgere un ruolo chiave nella nuova politica di riarmo tedesca e di esserne «orgogliosi».





