«Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione»? Questa è la domanda cui saranno chiamati a rispondere gli italiani nel prossimo referendum costituzionale voluto dal duo Renzi-Boschi. Per quanto riguarda il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, non ci sono dubbi, il Cnel va abolito. Del resto, chi di noi non vorrebbe risparmiare circa 7,5 milioni di euro ogni anno per abolire un ente da molti ritenuto inutile e costoso (di questi soldi, circa 5,5 vengono spesi per pagare i 54 dipendenti dell'ente e i restanti 2 per mantenere Villa Lubin, la prestigiosa sede all'interno del parco di Villa Borghese a Roma)? Quello che però non viene detto nel referendum è che, anche abolendo il Cnel, restano i suoi figli: i Consigli regionali dell'economia e del lavoro. Si tratta di enti presenti negli statuti di otto regioni italiane pensati per esprimere pareri e promuovere iniziative legislative di interesse regionale. Il problema è che questi Consigli hanno un costo che grava sulle tasche dei contribuenti. Spesso si tratta di stanziamenti che vanno dai 200.000 ai 300.000 euro l'anno, anche che se va detto che è pressoché impossibile reperire dati specifici nei bilanci delle varie regioni. Ma quali di queste hanno un Crel? In Abruzzo l'articolo 73 dello statuto regionale prevede una «Conferenza regionale per la programmazione», istituita presso la presidenza della giunta in qualità di organo consultivo della regione in materia economico-sociale. La legge istitutiva del 1996 prevedeva una spesa di 200 milioni di lire. Con legge regionale 12 agosto 2005 in Veneto è stata istituita la Conferenza regionale sulle dinamiche economiche e del lavoro mentre la Liguria, con una legge del 2006, ha creato il suo consiglio costituito da una trentina di membri. Nello stesso anno è nato anche il Crel laziale, costituito da una sessantina di membri e per cui la regione, all'interno del bilancio preventivo 2012-2014 ha stanziato 250mila euro. Nel 2008 nasce invece il Consiglio regionale dell'economia e del lavoro per le Marche: alla sua costituzione erano previsti 26 membri con otto convocazioni annuali in media. Nel 2010 è il turno della Regione Piemonte con poco meno di una trentina di rappresentanti. In Sardegna la legge istitutiva del Crel prevedeva per l'operatività dei 27 membri uno stanziamento da mezzo milione, poi abbassato a 300 mila euro. Da giugno 2010, momento dell'insediamento, la regione ha speso 56.806 fino a fine dicembre, 146.480 per il 2011, 106.719 per il 2012 e 97.349 euro per il 2013 (dati più recenti non sono disponibili). Nel 2007, infine, è arrivato il Crel toscano con 33 membri, seguito nel 2009 da quello umbro (33 rappresentanti istituzionali oltre ai componenti dell'ufficio di presidenza e la conferenza dei presidenti del Consiglio regionale). Ma ci sono anche regioni che hanno detto no al loro «parlamento». La Basilicata, ad esempio, con una legge regionale del 2006, ha abolito il suo Crel (nato nel 1997) rendendo più leggere le tasche dei contribuenti lucani. Non ne hanno uno nemmeno la provincia di Bolzano (a statuto speciale), la Calabria (creato con una legge nel 2004, è stato abolito nel 2010), la Campania, il Friuli Venezia Giulia, la Puglia (che ha costituito con una legge la «Conferenza regionale permanente per la programmazione economica, territoriale e sociale» ma non l'ha mai istituita), la Sicilia (che l'ha creato nel 1988 ma l'ha abrogato nel 2001) e la Val d'Aosta, che l'ha creato nel 1994 e chiuso nel 2002 attribuendo alcune funzioni consultive al «Patto per lo sviluppo della Valle d'Aosta». Se dunque l'abolizione del Cnel implica un risparmio oggettivo, non è altrettanto chiaro quanto spendano i cittadini italiani per mantenere i loro Crel (alcune stime parlano di 20 milioni di euro l'anno). Ma visti i risultati, fosse anche un solo euro, sarebbe troppo.
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione»? Questa è la domanda cui saranno chiamati a rispondere gli italiani nel prossimo referendum costituzionale voluto dal duo Renzi-Boschi. Per quanto riguarda il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, non ci sono dubbi, il Cnel va abolito. Del resto, chi di noi non vorrebbe risparmiare circa 7,5 milioni di euro ogni anno per abolire un ente da molti ritenuto inutile e costoso (di questi soldi, circa 5,5 vengono spesi per pagare i 54 dipendenti dell'ente e i restanti 2 per mantenere Villa Lubin, la prestigiosa sede all'interno del parco di Villa Borghese a Roma)? Quello che però non viene detto nel referendum è che, anche abolendo il Cnel, restano i suoi figli: i Consigli regionali dell'economia e del lavoro. Si tratta di enti presenti negli statuti di otto regioni italiane pensati per esprimere pareri e promuovere iniziative legislative di interesse regionale. Il problema è che questi Consigli hanno un costo che grava sulle tasche dei contribuenti. Spesso si tratta di stanziamenti che vanno dai 200.000 ai 300.000 euro l'anno, anche che se va detto che è pressoché impossibile reperire dati specifici nei bilanci delle varie regioni. Ma quali di queste hanno un Crel? In Abruzzo l'articolo 73 dello statuto regionale prevede una «Conferenza regionale per la programmazione», istituita presso la presidenza della giunta in qualità di organo consultivo della regione in materia economico-sociale. La legge istitutiva del 1996 prevedeva una spesa di 200 milioni di lire. Con legge regionale 12 agosto 2005 in Veneto è stata istituita la Conferenza regionale sulle dinamiche economiche e del lavoro mentre la Liguria, con una legge del 2006, ha creato il suo consiglio costituito da una trentina di membri. Nello stesso anno è nato anche il Crel laziale, costituito da una sessantina di membri e per cui la regione, all'interno del bilancio preventivo 2012-2014 ha stanziato 250mila euro. Nel 2008 nasce invece il Consiglio regionale dell'economia e del lavoro per le Marche: alla sua costituzione erano previsti 26 membri con otto convocazioni annuali in media. Nel 2010 è il turno della Regione Piemonte con poco meno di una trentina di rappresentanti. In Sardegna la legge istitutiva del Crel prevedeva per l'operatività dei 27 membri uno stanziamento da mezzo milione, poi abbassato a 300 mila euro. Da giugno 2010, momento dell'insediamento, la regione ha speso 56.806 fino a fine dicembre, 146.480 per il 2011, 106.719 per il 2012 e 97.349 euro per il 2013 (dati più recenti non sono disponibili). Nel 2007, infine, è arrivato il Crel toscano con 33 membri, seguito nel 2009 da quello umbro (33 rappresentanti istituzionali oltre ai componenti dell'ufficio di presidenza e la conferenza dei presidenti del Consiglio regionale). Ma ci sono anche regioni che hanno detto no al loro «parlamento». La Basilicata, ad esempio, con una legge regionale del 2006, ha abolito il suo Crel (nato nel 1997) rendendo più leggere le tasche dei contribuenti lucani. Non ne hanno uno nemmeno la provincia di Bolzano (a statuto speciale), la Calabria (creato con una legge nel 2004, è stato abolito nel 2010), la Campania, il Friuli Venezia Giulia, la Puglia (che ha costituito con una legge la «Conferenza regionale permanente per la programmazione economica, territoriale e sociale» ma non l'ha mai istituita), la Sicilia (che l'ha creato nel 1988 ma l'ha abrogato nel 2001) e la Val d'Aosta, che l'ha creato nel 1994 e chiuso nel 2002 attribuendo alcune funzioni consultive al «Patto per lo sviluppo della Valle d'Aosta». Se dunque l'abolizione del Cnel implica un risparmio oggettivo, non è altrettanto chiaro quanto spendano i cittadini italiani per mantenere i loro Crel (alcune stime parlano di 20 milioni di euro l'anno). Ma visti i risultati, fosse anche un solo euro, sarebbe troppo.
Massimo Doris (Imagoeconomica)
Secondo la sinistra, Tajani sarebbe contrario alla tassa sulle banche perché Fininvest detiene il 30% del capitale della società. Ma Doris attacca: «Le critiche? Ridicole». Intanto l’utile netto cresce dell’8% nei primi nove mesi, si va verso un 2025 da record.
Nessun cortocircuito tra Forza Italia e Banca Mediolanum a proposito della tassa sugli extraprofitti. Massimo Doris, amministratore delegato del gruppo, coglie l’occasione dei conti al 30 settembre per fare chiarezza. «Le critiche sono ridicole», dice, parlando più ai mercati che alla politica. Seguendo l’esempio del padre Ennio si tiene lontano dal teatrino romano. Spiega: «L’anno scorso abbiamo pagato circa 740 milioni di dividendi complessivi, e Fininvest ha portato a casa quasi 240 milioni. Forza Italia terrebbe in piedi la polemica solo per evitare che la famiglia Berlusconi incassi qualche milione in meno? Ho qualche dubbio».
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.
In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.
Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.






