
La religione cattolica ne esalta il valore spirituale a partire da Gesù presente nell'ostia consacrata. Ecco perché ogni ricorrenza ha una sua pietanza.Il lockdown prima e la ripartenza poi sono stati caratterizzati da una presenza che come italiani, cioè buongustai, ci connota ben più di altri popoli: il cibo. Abbiamo cucinato quasi per brandire uno scudo vitale di qualunque ricetta tradizionale ci venisse in mente contro il terrorizzante pensiero del virus mortale (una specie di «mangio dunque vivo»), abbiamo sofferto nel vedere i ristoranti chiusi, tanto da sognare di vederli riaperti e ora che, finalmente, lo sono, siamo tornati a frequentarli con le prescrizioni necessarie: mascherine, distanze, divisori, menù usa e getta, file per accedere. Nessun problema, accettiamo tutto, se ci fosse richiesto, indosseremmo anche la tuta spaziale come Neil Armstrong nell'allunaggio perché il ristorante è un luogo emotivo dentro di noi, oltre che fisico fuori di noi. Torneremo poi anche alle solite guerrette e ai consueti tafferugli, vegani contro carnivori, cuochi possibilisti di carbonare con la pancetta contro cucinieri rigorosamente filologici col guanciale, schizzinosi contro mangioni e così via: la nuova normalità, alla fine, sarà la vecchia normalità, vedrete. Perché il cibo è molto più di un mero strumento nutritivo. il benessere integraleL'attaccamento morboso che ci lega ad esso lo dimostra: il cibo non riguarda solo il nostro corpo, ma anche la nostra anima. Non ha a che fare appena col benessere fisico, non è soltanto valori nutrizionali: mangiare - cosa, come, quanto, perché, dove - ha a che fare anche col benessere psichico, per chi non crede, e spirituale per chi crede. La stessa definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità descrive la salute come «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia». Le possibilità di lettura psichico-spirituale del cibo sono tante, ma la prima è certamente quella del fedele cattolico di fronte all'ostia, il suo «cibo di credente» che lo differenzia da chi, non credendo, non «mangia» l'ostia. Abbiamo posto mangiare tra virgolette perché mettere in bocca e deglutire l'ostia non è esattamente mangiare, ma è, piuttosto, assumere «il corpo di Cristo» che l'ostia consacrata è. Piccola cialda di pane azzimo di farina di frumento (ci sono anche le ostie con minimo contenuto di glutine per i fedeli celiaci), ostia deriva dal latino «hostia», che vuol dire sacrificio in onore di una divinità. Nella dottrina cattolica, l'ostia diventa altro, dall'impasto di acqua e farina che era, grazie alla celebrazione eucaristica, introdotta da Gesù nell'Ultima cena quando, spezzando il pane, disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E poi, benedicendo il calice colmo di vino: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati». Si chiama transustanziazione ed è il dogma della presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico che viene anche chiamato - ecco un lirico esempio della possibile dialettica tra cibo e spirito - «Pane del Cielo» e «Cena del Signore».«pane del cielo» Dopo le parole di consacrazione pronunciate dal sacerdote, la sostanza del pane e del vino passa ad essere quella del corpo e del sangue di Cristo. Quel Santissimo Sacramento non «simboleggia» la presenza di Cristo: lo è (questo sfuggiva a tutti gli opinionisti atei della Messa che hanno dato penoso e querulo spettacolo della propria ignoranza sostenendo che al fedele cattolico non serviva andare fisicamente a Messa e comunicarsi, cioè prendere la comunione). Quell'ostia è corpo e sangue di Cristo e perciò va adorata come si adora Dio. L'adorazione di Dio si chiama latrìa. Soltanto a Dio si deve adorazione, anche nella forma della Santissima Trinità (Dio Padre, Spirito Santo e figlio , appunto, ed ecco che giungiamo alla sacralità dell'ostia). I santi sono invece oggetto di invocazione, preghiere tramite le quali se ne chiede l'intercessione, e di venerazione anche detta dulìa (la Madonna è oggetto di iperdulìa e san Giuseppe di protodulìa). Anche le figure dei santi sono collegate al cibo, seppure in altro modo rispetto all'ostia. Non lo diremmo, perché immaginiamo i santi come figure assolutamente lontane da qualsiasi forma di attività corporea. Seppure il santo fosse stato disinteressato al cibo, come spiega il bel libro Santa pietanza. Tradizioni e ricette dei santi e delle loro feste, «ci sono gli ossimori: un santo anacoreta che scelse di privarsi del cibo, come sant'Antonio Abate, viene onorato sempre con preparazioni a base di maiale». La venerazione dei santi, infatti, passa per tanti usi, innanzitutto attraverso la nomina a patroni di città, stati, corporazioni. Per esempio, san Francesco Caracciolo che si festeggia il 13 ottobre è il patrono dei cuochi. Come spiega La cucina dei luoghi di San Francesco Caracciolo di Antonio Di Lello e Antonio Stanziani, «prima i cuochi di Villa Santa Maria, poi quelli abruzzesi e infine tutti i cuochi d'Italia hanno venerato il santo villese, rampollo della famiglia Caracciolo. La tradizione orale fa risalire la nascita dell'arte culinaria villese ai tempi in cui Ascanio, futuro san Francesco, si intratteneva con i suoi coetanei nelle cucine del castello di Villa Santa Maria, tanto da far nascere in suo padre, uomo magnanimo e generoso, il desiderio di promuovere la nascita di una vera e propria scuola di cucina, facendo alternare nei lavori di cucina tutti i domestici. I ragazzi che si distinguevano per estro e bravura erano raccomandati alle nobili famiglie di Napoli dove gli stessi Caracciolo risiedevano per gran parte dell'anno».il patrono degli animali Tra le forme di venerazione dei santi c'è poi la celebrazione del giorno dedicato alla loro festa usando anche il cibo come offerta. Parlando di come il cibo diventi un'integrazione della pratica religiosa attraverso il legame tra culto dei santi e specialità alimentari, Lydia Capasso e Giovanna Esposito nel libro Santa pietanza ci fanno notare come «nel legame tra santi e pietanze, proprio come nella poesia (si sa, gli italiani sono un popolo di santi e poeti, a volte entrambe le cose insieme) si fa ampio uso di figure retoriche: molto spesso i santi sono identificati dalla parte per il tutto, un'infilata di sineddoche come gli occhi di santa Lucia, le minne di sant'Agata e le mani di santa Febronia che diventano biscotti, dolcetti e pani, evocazioni del martirio delle sante». Questo legame tra cibo votivo e storia del santo c'è anche in sant'Antonio Abate. Egli fu abate ed eremita egiziano, è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati, visse per 20 anni in una fortezza romana abbandonata sul monte Pispir, tormentato dai demoni e mangiando solo il pane che gli veniva calato due volte l'anno. È anche il patrono degli animali domestici, infatti viene raffigurato con un maiale con una campanella al collo, cioè addomesticato, accanto. Tradizionalmente, il 17 gennaio, il giorno che il calendario dei santi dedica al santo abate, si benedicono anche le stalle, affidandole alla sua protezione. Celebrarlo con banchetti a base di maiale può quindi sembrare contraddittorio, ma è un ossimoro solo apparente, giacché l'accostamento tra il maiale e il santo nasce dalla sua stessa storia, cioè dalla consuetudine dei villaggi medievali tedeschi di allevare un maiale per paziente d'ospedale dove prestavano appunto servizio i monaci di sant'Antonio. Costoro curavano i malati anche con cibo e balsami per le piaghe ottenuti dai maiali (spesso si finiva in ospedale per malnutrizione da segale), quindi offrire al santo carne di maiale vuol dire ricordare gli ammalati curati dall'Ordine dei suoi ospedalieri antoniani e offrire loro simbolico aiuto. Il cibo santo è memoria storica, non meno delle «petites madeleines» che Marcel Proust celebra in Dalla parte di Swann, primo volume del rinomato Alla ricerca del tempo perduto, provando gioia nel mangiarle perché lo trasportano emotivamente nel suo passato: «All'improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…». Sintetizza bene Santa pietanza quando dice che «anche cucinare e mangiare possono diventare, sorprendentemente, manifestazioni di fede». protettore dei veganiLe minne di sant'Agata, semisfere con ciliegina in cima anche dette cassatelle o cassatine, ricordano decisamente il seno femminile, in chiave religioso-agiografica, però, non certo erotica. Oltre che patrona di Catania (si festeggia il 5 febbraio), la santa è protettrice di balie, nutrici e donne affette da patologie al seno: vissuta nel III secolo, alla martire vennero strappate le mammelle per volere del console romano Quinziano. Sopravvisse miracolosamente dopo l'apparizione di san Pietro che le medicò le ferite, poi morì sui carboni ardenti. Di santa Lucia, invece, vissuta nel IV secolo e martire cristiana durante la grande persecuzione attuata dall'imperatore Diocleziano, patrona dei ciechi, degli oculisti e degli elettricisti, fino al XV secolo non si registrano narrazioni dell'episodio che la vedrebbe strapparsi o aver cavati gli occhi durante le torture prima della sua uccisione e il suo collegamento con la vista (e con la luce nel senso di elettricità), rappresentato dall'emblema degli occhi su una coppa o sul piatto. Si spiegherebbe dunque con l'etimologia latina del nome, Lucia da «lux», cioè luce. Anche in questo caso, il 13 dicembre, giorno in cui la si festeggia, in Puglia si preparano gli occhi di santa Lucia, taralli dolci glassati, per celebrare quelli illuminanti della santa. Le storie che collegano i santi al cibo sono tantissime e sono tutte radicate nelle loro vite: san Nicola da Tolentino è il santo dei vegani perché da ammalato fu costretto a mangiare due quaglie, ma incidendole con una croce, le fece rinascere. sant'Onorato di Amiens, che fu vescovo di Amiens nel VI o VII secolo, è il patrono dei pasticceri e lo chef Chiboust, la cui pasticceria a Parigi si trovava proprio in Rue Saint-Honoré, gli dedicò l'omonimo - e squisito - dolce. Cibo e anima: più ci addentriamo nelle storie cattoliche, più scopriamo quanto sia profondo questo nesso. Scrisse santa Teresa D'Avila, nelle Fondazioni: «Se siete in cucina pensate che tra le pentole sta Dio e ci aiuta all'interno e all'esterno». E ciò è vero non soltanto nel senso indicato, ancora, da Santa pietanza: «Cos'hanno in comune ricette e preghiere? Per cominciare, la ripetizione ogni volta identica, una pratica che potremmo definire rituale». Perché messa così, le ricette potrebbero sembrarci rituali di adorazione del cibo in quanto tale e basta. Rapportare il cibo ai santi e in generale alla concezione cattolica può condurci a riflessioni profonde, come, per esempio, la sacrosanta necessità dell'alternanza tra misura e libertà. Il santo patrono d'Italia, quel Francesco d'Assisi che festeggiamo il 4 ottobre, è noto per la sua spartana essenzialità ed umiltà. Eppure molti aneddoti dimostrano come egli stesso intrattenesse una dialettica col cibo che non percorre sempre e soltanto la strada della privazione, anzi.«muoio di fame»In occasione del Natale 1220, che cadeva di venerdì, il frate Morico gli domandò se dovesse prevalere la festa o l'astinenza del venerdì. Tommaso da Celano, biografo del santo, scrive che egli rispose al quesito così: «Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino. Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino la carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all'esterno». Il biografo scrive, ancora: «Voleva che in questo giorno i poveri e i mendicanti fossero saziati dai ricchi e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito». Se potrò parlare all'Imperatore, diceva, «lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno la possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza». Dalla Leggenda perugina, manoscritto con testimonianze dei compagni di vita del santo conservato nella Biblioteca comunale di Perugia e pubblicata nelle Fonti francescane, apprendiamo la lezione dell'importanza dell'alternanza tra regola ed eccezione e poi quella della bellezza del mangiare insieme (il ristorante, appunto). Una notte, nel primo periodo della vita comunitaria di Francesco e dei suoi compagni a Rivotorto, «mentre tutti riposavano sui loro giacigli, un frate gridò all'improvviso: “Muoio! muoio!". [...] Accesa la lucerna, il santo interrogò: “Che hai, fratello? Di cosa muori?". E lui: “Muoio di fame". Il santo fece preparare la mensa e poiché il frate affamato non provasse imbarazzo a mangiare da solo, sia Francesco sia gli altri mangiarono con lui. Dopo la cena, Francesco disse: “Cari fratelli, raccomando che ognuno tenga conto della propria condizione fisica. Se uno di voi riesce a sostenersi con meno cibo di un altro, non voglio che chi abbisogna di un nutrimento più abbondante si sforzi di imitare l'altro su questo punto; ma, adeguandosi alla propria complessione, dia quanto è necessario al suo corpo. Come ci dobbiamo trattenere dal soverchio mangiare, nocivo al corpo e all'anima, così, e anche di più, dalla eccessiva astinenza, poiché il Signore preferisce la misericordia al sacrificio. [...] Voglio pertanto e ordino che ciascuno, nei limiti della nostra povertà, accordi al suo corpo quanto gli è necessario"». La Bibbia ci dice: «Non di solo pane vive l'uomo» (Dt 8,3; Mt 4,4). Intende farci riflettere sul fatto che non ci nutre soltanto il cibo, perché abbiamo un'anima oltre allo stomaco. Ma è bene ricordare che anche il cibo vero e proprio può essere nutrimento per lo spirito. Pensiamoci, cucinando in casa, entrando in un ristorante e, in generale, mangiando (mai troppo poco, ma nemmeno mai troppo, ci raccomandiamo!).
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Il ministro dell'Economia sulla legge di bilancio sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori. Tenendo conto degli altri fattori che incideranno sulla programmazione.
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Il terzo panel dell’evento de La Verità ha approfondito la frontiera dell’eolico offshore con l’intervista condotta dal direttore Maurizio Belpietro a Riccardo Toto, direttore generale di Renexia. L’azienda, nata nel 2012 e attiva in Italia e all’estero nel settore delle rinnovabili, del fotovoltaico, delle infrastrutture e della mobilità elettrica, ha illustrato le proprie strategie per contribuire alla transizione energetica italiana.
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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2025-09-15
Il Made in Italy alla prova della sostenibilità: agricoltura, industria e finanza unite nella transizione
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Dalla terra di Bonifiche Ferraresi con Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability), ai forni efficienti di Barilla con Nicola Perizzolo (project engineer), fino alla finanza responsabile di Generali con Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration): tre voci, un’unica direzione. Se ne è discusso a uno dei panel dell’evento de La Verità al Gallia di Milano.
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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Boldrini ed eurodeputati si inginocchiarono per George Floyd, un nero pluripregiudicato. Per Kirk, un giovane che ha difeso strenuamente i valori cristiani e occidentali, è stato negato il minuto di silenzio a Strasburgo. Ma il suo sangue darà forza a molti.