2020-07-18
Il castrato che salvò Venezia dalla peste
La carne s'ciavona, com'era allora chiamata la Dalmazia, fu la protagonista nei 15 tragici mesi dell'epidemia del Seicento Tra i piatti che hanno fatto la storia della Serenissima, i garusoli. Dalla loro ghiandola si otteneva la porpora per tingere i tessuti.Poche realtà, come Venezia, sono un incrocio di storie diverse, curioso mix di tradizioni, contaminazioni fra terre foreste e il passa parola generazionale che le ha consegnate sino a noi. Due testimonianze a darne una sintesi. «Quella di Venezia è una cucina di resistenza», ricorda Maria Teresa De Marco, giornalista che a Venezia è nata, «stretta tra l'orizzonte infinito del mare e la terra alle sue spalle. Cucina ricca di spezie e di sapori lontani, ma estremamente parsimoniosa e piena di ingegno nello sfruttare tutte le risorse». Le fa eco da tempi non sospetti George Sand, una sorta di femminista ante litteram, cittadina del mondo che, due secoli fa, ebbe a testimoniare nelle sue Lettres d'une voyager: «I veneziani hanno nel loro carattere un immenso sottofondo di gioia: il loro peccato capitale è la gola, ma una gola ciarliera e vivace, che non ha nulla in comune colle digestioni grevi degli inglesi e dei tedeschi». Parola di parigina verace. Viaggiare lungo una ideale carta del menù tra le calli può portare ad autentiche soprese, a scoperte di piatti che, radicati per tradizione secolare, spesso hanno difficoltà a trovar posto lungo una sequenza di proposte che, troppo spesso, devono sopravvivere al mordi e fuggi distratto dei moderni avventori di passo. Le capelonghe, o cannolicchi, sono molluschi facilmente riconoscibili per la loro forma. Giocano un po' a nascondino sulla rena quando, in bassa marea, spuntano solo di qualche centimetro. Un tempo era un gioco di bimbi raccoglierli. Si metteva il dito sulla loro capoccia e questi si chiudevano per difesa e così venivano riportati alla luce. Una sorta di … pesca a dito. Qualcuno, per attizzarli meglio si salava il dito per renderlo più succulento all'innocente bivalve. Riservati alla pesca amatoriale anche i garusoli (o lumache di mare) dal guscio di elegante silhouette spiraliforne. Spadellati sono un tiratardi in allegria, in cui la sfida tra compagni di bisboccia è quella di estrarli con uso sapiente di spillo. Pochi sanno che erano in grande spolvero in tempi antichi. Dalla loro ghiandola si otteneva un secreto rosso violaceo, la porpora di Tiro, utile per tingere i tessuti pregiati. Le sarde in saor non hanno bisogno di presentazioni anche se ben le descrive Bepo Maffioli, storico gourmet del secolo breve «cibo di marinai e scorta di terraferma». Un tempo, nelle stive della flotta serenissima, erano la dieta principale dei marinai grazie al virtuoso gemellaggio con la cipolla che da un lato ne permetteva una lunga conservazione, in assenza di celle frigorifere, dall'altro, ricche di vitamina C, erano la miglior protezione contro lo scorbuto. Saor dalle mille virtù. Utilizzato anche nella versione più nobile, ossia con gli sfogeti (le piccole sogliole) tradizione delle cucine nobiliari, mentre nelle realtà popolari vi era il savor virtuoso, ossia il suo utilizzo con quanto avanzato dalla frittura della sera prima, ridava energia al piatto. Protagonista da consumare la notte del Redentore, ammirando dalla barca i fuochi d'artificio. Un contributo dalla cucina ebraica è arrivato dando il turbo con l'uvetta sultanina e poi i pinoli. Salendo di portata ai primi piatti ci aspettano conferme con qualche sorpresa. I bigoli in salsa, nella loro semplicità (abbinati a olio e salsa di acciughe), sono per tradizione il piatto «penitenziale» della vigilia di Pasqua, ma anche del mercoledì delle ceneri come di tutti i venerdì di antica tradizione virtuosa. Un tocco vintage oramai scomparso, se non avete tavole di amici fidati in qualche sestiere (i quartieri veneziani), lo trovate con il panbogio, pane vecchio bollito nell'olio, un piatto del riuso. Una coccola calda e saporita che si poteva arricchire a piacere con uova, brodo di carne, cannella. Altra pietra miliare il riso. Risi e bisi era il piatto offerto al Doge il 25 aprile, festa di San Marco. I bisi, cioè i piselli migliori, quelli provenienti da Lumignano, sui colli berici, dove le coltivazioni, per sfruttare ogni raggio di sole primaverile, sono organizzate su appositi terrazzamenti. «Ogni riso un biso», regola base della ricetta. Il risotto primavera è uno dei capisaldi della cucina dell'Harry's Bar, un mito senza tempo fondato da Giuseppe Cipriani. Ai tavoli in cui si sono alternati volti quali Orson Welles o Ernest Hemingway pochi sanno che questo risotto (un festival di verdure degli orti lagunari, in realtà disponibile tutto l'anno) è nato per riutilizzare in qualche modo il brodo che avanzava dai molti polli bolliti da Cipriani per realizzare i suoi ricercati tramezzini. Altro piatto sopravvissuto in qualche cucina familiare è il risotto con la castradina (ovvero carne di montone salata, seccata e affumicata) che introduce ad un'altra pietra miliare della cucina veneziana. Fino al Cinquecento Venezia era la regina indiscussa del Mediterraneo, i suoi commerci diffusi sui principali traffici continentali. Talmente aperta con il mondo esterno che scarsi erano i rapporti con l'entroterra. Dalle coste dalmate era consuetudine provenissero carichi di carne di montone che veniva utilizzata in svariati modi. Un classico stufato con i cui fondi si andavano ad assemblare diverse tipologie di risotti. Castradina s'ciavona che divenne protagonista nei quindici tragici mesi della pestilenza iniziata nel luglio 1630. Venezia contò circa centocinquantamila morti, il quaranta per cento della popolazione. Era isolata dal mondo. Solo i coraggiosi marinai dalmati (la Dalmazia allora era chiamata Sciavonia) attraversavano l'Adriatico attraccando sulla riva degli Schiavoni, scalo delle navi commerciali dell'epoca. La castradina salvò molti veneziani dalla fame e dalla carestia, posto che erano proibite le carni fresche per pericolo di contagio, tanto da diventare il piatto della festa della Madonna della salute, il 21 novembre, la chiesa eretta sulla punta della dogana da Baldassarre Longhena per celebrare la fine di una pandemia che aveva messo in ginocchio la città. Custode della tradizione l'apposita Confraternita, presieduta da Marino Alessandri. La preparazione è un omaggio ai sopravvissuti della peste che, per tre giorni e tre notti, pregarono in processione attorno a piazza San Marco per far cessare il morbo. La castradina quindi viene bollita per tre volte e in tre giorni per permettere alla carne salmistrata di purificarsi e diventare tenera. A conferma che i veneziani sanno sorridere anche delle disgrazie «cavarsela de castradina» significa divertirsi anche nelle situazioni più difficili. Un caso esemplare di meticciato gastronomico, come ben descritto da Gian Omar Bison: il castrato dalmata, le spezie orientali (cannella e chiodi di garofano), condimenti padani (burro e parmigiano). Il Carpaccio, invece, lo si trova sempre, tra l'altro reinterpretato nelle forme spesso più diverse. Il marchio di fabbrica reca ancora una volta la firma di Giuseppe Cipriani. Nel 1963 la nobildonna Amalia Nani Mocenigo era costretta a seguire una dieta molto rigorosa. Pronta la soluzione. Controfiletto di manzo tagliato a fette sottilissime, quasi un prosciutto. Una salsa universale (maionese, pomodoro, senape, worchester, panna), disposta con fantasia con «tecnica alla Kandisky», intingendo più volte il cucchiaio nella salsa decorando poi il piatto con ispirazioni diverse. In quell'anno Venezia viveva la mostra di un suo grande figlio d'arte, Vittore Carpaccio, la cui poetica si esprimeva con un bel rosso vivo. Et voilà nascere il Carpaccio gastronomico, classico senza tempo. Testimonial golosa della Festa del Redentore, la terza domenica di luglio, è invece l'anara col pien, l'anatra ripiena, uno dei pregiati volatili di laguna, rimpolpata con ogni ben di Dio: soppressa, aromi, formaggio, uova. Il tutto ben rivestito da golosa pancetta. Peccati di gola da gustare rigorosamente in barca, naturalmente.
Francesca Albanese (Ansa)
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