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2018-05-01
Il Carroccio trascina il centrodestra: in Friuli stravince e spegne i 5 stelle
ANSA
Se la Lega cercava dal voto in Friuli Venezia Giulia una spinta ulteriore per contare di più a Roma, allora la missione può dirsi pienamente compiuta: il 34,9% conquistato dal Carroccio rappresenta il migliore biglietto di presentazione alla vigilia di una settimana forse decisiva per comprendere quali saranno le sorti della legislatura iniziata lo scorso marzo.
Il nuovo governatore è Massimiliano Fedriga, eletto con il 57,1% dei consensi e sostenuto dall'intero centrodestra. Al 26,8% il candidato del centrosinistra Sergio Bolzonello. Crolla il M5s, che proponeva Alessandro Fraleoni Morgera, dimezzando i voti delle ultime politiche e fermandosi 11,7: la lista incassa appena il 7,1% contro il 12 di Forza Italia.
Cresce ancora Fratelli d'Italia, attestata al 5,5 e va male il Pd, che non supera il 18,1 e comunque fa registrare un meno 10% rispetto alle precedenti regionali che incoronarono Debora Serracchiani. Per i dem si tratta di un'altra disfatta dopo la sconfitta registrata la scorsa settimana in Molise. Patto per l'Autonomia di Sergio Cecotti si assesta al 4,4%. «Complimenti a Fedriga», ha spiegato Sergio Bolzonello, candidato del centrosinistra, «ora starò all'opposizione con lo spirito di chi sa di lasciare una Regione in ottima salute e che tale dovrà rimanere nel prossimo quinquennio».
Il balzo in avanti più clamoroso, in ogni caso, resta quello della Lega. Nel 2013 il partito all'epoca guidato da Roberto Maroni si fermò all'8,2%. Cinque anni dopo la crescita è di oltre 26 punti percentuali. «Risultato impensabile, la Lega ha avuto la più alta percentuale della storia. Speriamo che serva anche a Roma», sono state le prime parole di Fedriga. Ora la sua priorità sarà varare una riforma degli enti locali, così da dare «finalmente ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere governati». Il nuovo presidente del Friuli Venezia Giulia, 37 anni, veronese di nascita e triestino di adozione, già deputato, può essere annoverato tra i fedelissimi di Salvini, dopo aver a lungo collaborato prima con Umberto Bossi e poi con Maroni. Vanta il record di essere stato il primo capogruppo di Montecitorio a conoscere la sospensione di 15 giorni dai lavori dell'Aula, per insubordinazione nei confronti dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini, nei giorni in cui si dibatteva la riforma dello ius soli.
Tornando al dato elettorale, tra le sorprese maggiori c'è sicuramente la disfatta del Movimento 5 stelle, che ha visto crollare del 50% i consensi ottenuti il 4 marzo: dal 24 all'11,7%, addirittura sotto rispetto al 13,7 conseguito in Friuli alle Regionali del 2013. Ancora peggio è andata alla lista pentastellata, calata al 7,1 e ben distante da Forza Italia e Pd. In buona sostanza coloro che in questa tornata non hanno scelto il M5s sono stati attratti dalla Lega. Un travaso di voti che ha consentito alla Lega di stravincere la competizione interna al centrodestra. A pesare sul deludente risultato della formazione guidata da Luigi Di Maio è stata probabilmente la delusione di una parte di elettorato, che ha bocciato le estenuanti trattative e i frequenti cambi di rotta per tentare di formare un nuovo governo.
Ieri il capo politico del Movimento ha lanciato un appello a Salvini a fare fronte comune e a chiedere al Quirinale di favorire rapido ritorno alle urne. Ma il segretario del Carroccio ha risposto con un tweet ironico al Pd e a Di Maio: «Dopo i molisani, anche donne e uomini del Friuli-Venezia-Giulia ringraziano il Pd per l'egregio lavoro svolto, e salutano Di Maio&Compagni» ha commentato Salvini. Il leader leghista ha postato anche la foto di un due di picche nella sabbia in riva al mare e ha lanciato l'hashtag #andiamoagovernare: «Io sono pronto!», ha concluso. Concetto ripreso anche da Silvio Berlusconi, secondo cui la vittoria in Friuli ridà slancio all'idea di un governo di centrodestra a Palazzo Chigi: «La vittoria del centrodestra, la crescita di Forza Italia, il crollo dei 5 stelle sono tre ottime notizie. Rispetto alla politiche siamo cresciuti di quasi due punti percentuali, senza considerare il 3,5 per cento della lista civica di area moderata a noi vicina che non era presente alle elezioni politiche. Questo conferma che Forza Italia, anche in una situazione per noi molto difficile come quella del Friuli Venezia Giulia, gode ottima salute, è in crescita, attira consenso». E a dar man forte agli alleati arrivano pure le parole di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia: «L'Italia non può restare ferma per la fame di poltrone di Di Maio. Ora il presidente Mattarella rispetti la volontà popolare e dia l'incarico di governo al centrodestra».
In questo clima la dem Serracchiani, indicata un po' da tutti le parti tra le maggiori responsabili del tracollo pd, trova pure il modo di vedere il bicchiere mezzo pieno, nonostante il non esaltante risultato del suo partito: «Eravamo coscienti del fatto che in Friuli Venezia Giulia il clima politico era particolarmente difficile per il Pd, che ora in regione è il secondo partito, e per il centrosinistra, che pure si colloca sopra la media nazionale. Leggevamo anche su alcuni giornali che dovevamo arrivare terzi dopo il M5s, e invece la lista dei grillini si è fermata al 7%». In tempi di magra, evidentemente, ci si accontenta di poco.
Antonio Ricchio
Di Maio all’angolo la dice giusta: il vero ballottaggio sono le urne
Una mossa disperata, per provare a stanare la Lega di Matteo Salvini. Un M5s per la prima volta nell'angolo gioca la carta delle elezioni subito perché, come scrive Beppe Grillo sul suo blog, Forza Italia e Pd sono «parassiti che cercano di rigenerarsi sfruttando l'onda generata dalla nostra energia, la stessa che li ha suonati come campane». E mentre Alessandro Di Battista è già in campagna elettorale e spara con la contraerea, Luigi Di Maio smette i panni del bravo ragazzo e randella mezzo arco costituzionale. Con un piccolo particolare, che sanno benissimo anche i vertici del Movimento: ormai è tardi per votare a giugno e in autunno c'è un ostacolo di marmo chiamato Legge di bilancio.
Dopo lo schiaffo subito domenica sera da Matteo Renzi, che ha chiuso la porta in faccia a M5s, i capi del Movimento, da Davide Casaleggio a Beppe Grillo, passando ovviamente per Di Maio e Di Battista, si sono chiusi a riccio per elaborare una nuova strategia. Sono stati consultati pochissimi deputati, tanto che ieri all'ora di pranzo, quando il candidato premier grillino ha iniziato la diretta Facebook, il 99% dei parlamentari non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe detto. I capi hanno deciso di iniziare una nuova fase, che potremmo chiamare del «Giggino, fai la faccia feroce». Dopo mesi di calma, sorrisi, rassicurazioni ai poteri forti, aperture di credito, senso dello Stato e continui elogi al Quirinale, ieri perfino il linguaggio è bruscamente cambiato. Tanto che a un certo punto, iniziando la sua tirata contro il Bulletto fiorentino, Di Maio si è espresso così: «Dopo il 4 marzo, con la mazzata presa, sembrava che iniziasse a capire i suoi errori». Sì proprio così, «mazzata», detto con pesante accento napoletano, tanto per far capire che con i minuetti, Deo gratias, abbiamo finito.
Il leader pentastellato ha deciso che «a questo punto non c'è altra soluzione: bisogna tornare al voto il prima possibile. Poi ovviamente deciderà il presidente Mattarella». E visto che sul tappeto c'è l'idea di reintrodurre i ballottaggi nella prossima legge elettorale, ecco il primo calcione sui denti della prossima campagna elettorale: «Tutti parlano di inserire un ballottaggio nel sistema elettorale, ma il ballottaggio sono le prossime elezioni e quindi io oggi dico a Salvini: andiamo insieme a chiedere di andare a votare e facciamo questo secondo turno a giugno. Facciamo scegliere i cittadini tra rivoluzione e restaurazione». Un calcione che contiene anche un'ultima àncora lanciata al mancato sposo leghista, anche se in questo momento chi è in mezzo alle onde sembra più che altro Di Maio.
Nel giro di pochi minuti, per dare il segno di una compattezza perfetta «nell'ora più buia», ecco il fondatore Grillo che nel suo blog posta un proclama con il significativo titolo: «Come prendere una batosta storica e continuare a fare le maestrine sfruttando l'energia di chi ti ha appena sconfitto». Una sfilza di scudisciate a Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, accusati di voler nascondere «il ribaltamento delle proporzioni nel centrodestra e la nanizzazione del Pd».
«Stiamo vivendo uno stallo soltanto apparente», prosegue il comico genovese, «ma è soltanto il lavorio dei vecchi partiti che tentano di rigenerarsi sfruttando l'onda provocata dalla nostra energia, la stessa che li ha suonati come campane. Questa è la logica evolutiva dei parassiti».
Il Cavaliere, al quale si rimprovera in privato di essere tornato «a usare le sue televisioni contro i nemici, come ai tempi della sentenza sul Lodo Mondadori», viene descritto da Grillo come un tizio che «ha una costruzione paranoide della realtà». Renzi è un «eroe tragico shakespeariano», che vede solo «complotti, tradimenti e malafede». E Salvini è un politico «accecato da paure». Paure misteriose, ma che per i vertici di M5s sarebbero più o meno quelle descritte da Gigi Moncalvo in un'intervista al Fatto quotidiano, ovvero legate a misteriosi (quanto smentiti) contratti tra Berlusconi e Umberto Bossi sulla proprietà del simbolo del Carroccio.
Non poteva, a questo punto, mancare la bottiglietta incendiaria del (finto) vacanziero Di Battista, che sempre su Facebook ha chiesto scusa, ma alla sua maniera: «Ho sbagliato a chiamare Salvini Dudù (il cane di Silvio, ndr), perché a differenza sua Dudù al guinzaglio non l'ho visto quasi mai. Ora Salvini dimostri coraggio e chieda le elezioni anticipate».
Eppure è davvero una mossa quasi della disperazione, questa di chiedere il voto anticipato. I capigruppo del Movimento, Danilo Toninelli e Giulia Grillo, sanno che per giugno non ci sono più i tempi tecnici e che in autunno non s'è mai votato. L'ostacolo è la legge di bilancio e una campagna elettorale con l'esercizio provvisorio sullo sfondo Sergio Mattarella non la consentirà mai. Insomma, siamo di fronte all'ultima chiamata per Salvini. Il quale però non sembra un barboncino.
Francesco Bonazzi
Mattarella chiude: no elezioni a giugno. E darà a Gentiloni un lavoretto estivo
Ieri pomeriggio, quando ha ascoltato le parole di Luigi Di Maio, che ha chiesto le elezioni a giugno dopo lo schiaffone ricevuto in diretta tv da Matteo Renzi, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, stava per perdere la sua proverbiale pazienza. Votare per le politiche il prossimo 24 giugno insieme alle amministrative, infatti, è praticamente impossibile: bisognerebbe sciogliere le Camere entro il 9 maggio, una scadenza talmente ravvicinata da essere improponibile. Mattarella con Di Maio ha (aveva?) ottimi rapporti, in particolare da quando il capo politico del M5s, prima delle elezioni, si è allineato alle posizioni del dipartimento di Stato americano e dell'Europa, abbandonando tentazioni filo putiniane e estremismi anti euro. Mattarella ha cercato in ogni modo di agevolare il percorso di Di Maio e del M5s in questi due mesi di trattative per tentare di formare un governo: ha concesso settimane e settimane ai pentastellati per discutere prima con il centrodestra e poi con il Pd. Non ha ancora neanche giocato la terza carta a sua disposizione, pure tecnicamente praticabile: esplorare la possibilità di un patto di governo tra centrodestra e Pd, che in caso di successo (Matteo Salvini è contrario, ma il Quirinale prende in considerazione solo le dichiarazioni ufficiali, e non quelle ai media) avrebbe relegato Di Maio al ruolo di semplice spettatore.
Ieri, con la «sparata» sulle elezioni a giugno, le quotazioni di Luigi Di Maio tra i consiglieri di Sergio Mattarella sono calate vertiginosamente. Quelle di Di Maio, ma non quelle del M5s, che Sergio Mattarella continua a considerare imprescindibile per un eventuale, anche se improbabilissimo, governo «di responsabilità». I collaboratori di Mattarella hanno anche dovuto ammettere che Matteo Renzi ha giocato bene le sue carte in tv, evocando quel governo di tutti «per le riforme costituzionali» che è dal primo giorno dopo le elezioni il pallino del capo dello Stato. Fu proprio la Verità ad anticipare l'idea del Colle, poi esplicitata da Dario Franceschini, ufficiale di collegamento tra il Pd e Mattarella, fautore dell'alleanza tra Pd e M5s, messo all'angolo dalla mossa dell'ex Rottamatore. Un'idea destinata a non concretizzarsi: ormai il clima tra centrodestra, M5s e Pd è incandescente. Mattarella, quindi, si prepara a sciogliere le Camere, ben sapendo che nessuno potrà rimproverargli di non aver tentato ogni strada per dare un governo all'Italia.
Non lo farà di certo entro il 9 maggio: si voterà molto probabilmente a ottobre, Mattarella spera con una nuova legge elettorale. Ma c'è un ma, grande quanto Palazzo Chigi. Matteo Salvini sta iniziando a convincersi che la strategia di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ovvero quella di chiedere un incarico per lo stesso Salvini o Giancarlo Giorgetti per poi cercare in Parlamento i voti necessari a sostenere un governo di centrodestra, non sia campata in aria. Occorrono 50 deputati e 30 senatori «responsabili», ovvero terrorizzati da un ritorno alle urne perché non certi della rielezione. Mattarella, però, vuole una «coalizione» di governo, non una marmellata parlamentare, e soprattutto non ha ricevuto da Matteo Salvini alcuna garanzia sulla collocazione dell'Italia nel quadro internazionale. Salvini, con il suo saldissimo rapporto con la Russia di Vladimir Putin e con il Front national di Marine Le Pen, non potrebbe garantire la continuità in politica estera che sta a cuore al capo dello Stato. Ecco perché, in queste ore, tra i consiglieri di Mattarella circola l'idea di non desistere dal tentativo di trovare un'intesa tra Pd, M5s e Leu, partendo però da un passo indietro di Luigi Di Maio, che sembra una ipotesi assai remota.
Dunque, la tabella di marcia di Sergio Mattarella non cambia: si attende la direzione del Pd di giovedì prossimo per verificare la effettiva chiusura del «forno» Pd-M5s, al di là delle posizioni dei singoli esponenti dei due partiti, a cominciare da quella di Di Maio, che a questo punto ha fretta di tornare alle urne per due motivi: mantenere la leadership del M5s e limitare la costante erosione dei consensi dei 5 stelle, che a furia di oscillare tra la Lega e il Pd stanno provocando una vera e propria rivolta nel loro elettorato. Tra i collaboratori di Mattarella, oltretutto, si rafforza la convinzione che il giovane leader del M5s si sia fatto «intortare» da Matteo Salvini, al quale anche ieri ha chiesto (invano) di unirsi a lui nel fare pressioni sul capo dello Stato per chiedere le elezioni immediate.
Calato il sipario su questa trattativa mai nata, Mattarella rivolgerà a tutti i partiti un appello alla «responsabilità», che potrebbe contenere un più o meno esplicito riferimento alla necessità di approvare rapidamente una nuova legge elettorale per evitare il ripetersi di quanto accaduto lo scorso 4 marzo. Poi, si andrà verso le elezioni in autunno. Il governo balneare, che dovrà traghettare il paese verso le urne, sarà quello in carica, guidato da Paolo Gentiloni.
Carlo Tarallo
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Max Fedriga trionfa in Regione con il 57%, la Lega nella coalizione: cresce di quasi 10 punti rispetto alle politiche Il Pd è inchiodato al suo 18%. La lista grillina perde più di due terzi dei voti, molti dei quali andati ai lumbard. Luigi Di Maio indossa i panni da scugnizzo e si aggrappa a Matteo Salvini: «Matteo Renzi non ha imparato dalla mazzata che ha preso, andiamo a nuove elezioni a giugno insieme».Niente scioglimento delle Camere senza nuova legge elettorale. Che potrebbe nascere sotto la guida dell'esecutivo in carica. Lo speciale contiene tre articoli. Se la Lega cercava dal voto in Friuli Venezia Giulia una spinta ulteriore per contare di più a Roma, allora la missione può dirsi pienamente compiuta: il 34,9% conquistato dal Carroccio rappresenta il migliore biglietto di presentazione alla vigilia di una settimana forse decisiva per comprendere quali saranno le sorti della legislatura iniziata lo scorso marzo. Il nuovo governatore è Massimiliano Fedriga, eletto con il 57,1% dei consensi e sostenuto dall'intero centrodestra. Al 26,8% il candidato del centrosinistra Sergio Bolzonello. Crolla il M5s, che proponeva Alessandro Fraleoni Morgera, dimezzando i voti delle ultime politiche e fermandosi 11,7: la lista incassa appena il 7,1% contro il 12 di Forza Italia. Cresce ancora Fratelli d'Italia, attestata al 5,5 e va male il Pd, che non supera il 18,1 e comunque fa registrare un meno 10% rispetto alle precedenti regionali che incoronarono Debora Serracchiani. Per i dem si tratta di un'altra disfatta dopo la sconfitta registrata la scorsa settimana in Molise. Patto per l'Autonomia di Sergio Cecotti si assesta al 4,4%. «Complimenti a Fedriga», ha spiegato Sergio Bolzonello, candidato del centrosinistra, «ora starò all'opposizione con lo spirito di chi sa di lasciare una Regione in ottima salute e che tale dovrà rimanere nel prossimo quinquennio». Il balzo in avanti più clamoroso, in ogni caso, resta quello della Lega. Nel 2013 il partito all'epoca guidato da Roberto Maroni si fermò all'8,2%. Cinque anni dopo la crescita è di oltre 26 punti percentuali. «Risultato impensabile, la Lega ha avuto la più alta percentuale della storia. Speriamo che serva anche a Roma», sono state le prime parole di Fedriga. Ora la sua priorità sarà varare una riforma degli enti locali, così da dare «finalmente ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere governati». Il nuovo presidente del Friuli Venezia Giulia, 37 anni, veronese di nascita e triestino di adozione, già deputato, può essere annoverato tra i fedelissimi di Salvini, dopo aver a lungo collaborato prima con Umberto Bossi e poi con Maroni. Vanta il record di essere stato il primo capogruppo di Montecitorio a conoscere la sospensione di 15 giorni dai lavori dell'Aula, per insubordinazione nei confronti dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini, nei giorni in cui si dibatteva la riforma dello ius soli. Tornando al dato elettorale, tra le sorprese maggiori c'è sicuramente la disfatta del Movimento 5 stelle, che ha visto crollare del 50% i consensi ottenuti il 4 marzo: dal 24 all'11,7%, addirittura sotto rispetto al 13,7 conseguito in Friuli alle Regionali del 2013. Ancora peggio è andata alla lista pentastellata, calata al 7,1 e ben distante da Forza Italia e Pd. In buona sostanza coloro che in questa tornata non hanno scelto il M5s sono stati attratti dalla Lega. Un travaso di voti che ha consentito alla Lega di stravincere la competizione interna al centrodestra. A pesare sul deludente risultato della formazione guidata da Luigi Di Maio è stata probabilmente la delusione di una parte di elettorato, che ha bocciato le estenuanti trattative e i frequenti cambi di rotta per tentare di formare un nuovo governo. Ieri il capo politico del Movimento ha lanciato un appello a Salvini a fare fronte comune e a chiedere al Quirinale di favorire rapido ritorno alle urne. Ma il segretario del Carroccio ha risposto con un tweet ironico al Pd e a Di Maio: «Dopo i molisani, anche donne e uomini del Friuli-Venezia-Giulia ringraziano il Pd per l'egregio lavoro svolto, e salutano Di Maio&Compagni» ha commentato Salvini. Il leader leghista ha postato anche la foto di un due di picche nella sabbia in riva al mare e ha lanciato l'hashtag #andiamoagovernare: «Io sono pronto!», ha concluso. Concetto ripreso anche da Silvio Berlusconi, secondo cui la vittoria in Friuli ridà slancio all'idea di un governo di centrodestra a Palazzo Chigi: «La vittoria del centrodestra, la crescita di Forza Italia, il crollo dei 5 stelle sono tre ottime notizie. Rispetto alla politiche siamo cresciuti di quasi due punti percentuali, senza considerare il 3,5 per cento della lista civica di area moderata a noi vicina che non era presente alle elezioni politiche. Questo conferma che Forza Italia, anche in una situazione per noi molto difficile come quella del Friuli Venezia Giulia, gode ottima salute, è in crescita, attira consenso». E a dar man forte agli alleati arrivano pure le parole di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia: «L'Italia non può restare ferma per la fame di poltrone di Di Maio. Ora il presidente Mattarella rispetti la volontà popolare e dia l'incarico di governo al centrodestra». In questo clima la dem Serracchiani, indicata un po' da tutti le parti tra le maggiori responsabili del tracollo pd, trova pure il modo di vedere il bicchiere mezzo pieno, nonostante il non esaltante risultato del suo partito: «Eravamo coscienti del fatto che in Friuli Venezia Giulia il clima politico era particolarmente difficile per il Pd, che ora in regione è il secondo partito, e per il centrosinistra, che pure si colloca sopra la media nazionale. Leggevamo anche su alcuni giornali che dovevamo arrivare terzi dopo il M5s, e invece la lista dei grillini si è fermata al 7%». In tempi di magra, evidentemente, ci si accontenta di poco. 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E mentre Alessandro Di Battista è già in campagna elettorale e spara con la contraerea, Luigi Di Maio smette i panni del bravo ragazzo e randella mezzo arco costituzionale. Con un piccolo particolare, che sanno benissimo anche i vertici del Movimento: ormai è tardi per votare a giugno e in autunno c'è un ostacolo di marmo chiamato Legge di bilancio. Dopo lo schiaffo subito domenica sera da Matteo Renzi, che ha chiuso la porta in faccia a M5s, i capi del Movimento, da Davide Casaleggio a Beppe Grillo, passando ovviamente per Di Maio e Di Battista, si sono chiusi a riccio per elaborare una nuova strategia. Sono stati consultati pochissimi deputati, tanto che ieri all'ora di pranzo, quando il candidato premier grillino ha iniziato la diretta Facebook, il 99% dei parlamentari non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe detto. I capi hanno deciso di iniziare una nuova fase, che potremmo chiamare del «Giggino, fai la faccia feroce». Dopo mesi di calma, sorrisi, rassicurazioni ai poteri forti, aperture di credito, senso dello Stato e continui elogi al Quirinale, ieri perfino il linguaggio è bruscamente cambiato. Tanto che a un certo punto, iniziando la sua tirata contro il Bulletto fiorentino, Di Maio si è espresso così: «Dopo il 4 marzo, con la mazzata presa, sembrava che iniziasse a capire i suoi errori». Sì proprio così, «mazzata», detto con pesante accento napoletano, tanto per far capire che con i minuetti, Deo gratias, abbiamo finito. Il leader pentastellato ha deciso che «a questo punto non c'è altra soluzione: bisogna tornare al voto il prima possibile. Poi ovviamente deciderà il presidente Mattarella». E visto che sul tappeto c'è l'idea di reintrodurre i ballottaggi nella prossima legge elettorale, ecco il primo calcione sui denti della prossima campagna elettorale: «Tutti parlano di inserire un ballottaggio nel sistema elettorale, ma il ballottaggio sono le prossime elezioni e quindi io oggi dico a Salvini: andiamo insieme a chiedere di andare a votare e facciamo questo secondo turno a giugno. Facciamo scegliere i cittadini tra rivoluzione e restaurazione». Un calcione che contiene anche un'ultima àncora lanciata al mancato sposo leghista, anche se in questo momento chi è in mezzo alle onde sembra più che altro Di Maio. Nel giro di pochi minuti, per dare il segno di una compattezza perfetta «nell'ora più buia», ecco il fondatore Grillo che nel suo blog posta un proclama con il significativo titolo: «Come prendere una batosta storica e continuare a fare le maestrine sfruttando l'energia di chi ti ha appena sconfitto». Una sfilza di scudisciate a Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, accusati di voler nascondere «il ribaltamento delle proporzioni nel centrodestra e la nanizzazione del Pd». «Stiamo vivendo uno stallo soltanto apparente», prosegue il comico genovese, «ma è soltanto il lavorio dei vecchi partiti che tentano di rigenerarsi sfruttando l'onda provocata dalla nostra energia, la stessa che li ha suonati come campane. Questa è la logica evolutiva dei parassiti». Il Cavaliere, al quale si rimprovera in privato di essere tornato «a usare le sue televisioni contro i nemici, come ai tempi della sentenza sul Lodo Mondadori», viene descritto da Grillo come un tizio che «ha una costruzione paranoide della realtà». Renzi è un «eroe tragico shakespeariano», che vede solo «complotti, tradimenti e malafede». E Salvini è un politico «accecato da paure». Paure misteriose, ma che per i vertici di M5s sarebbero più o meno quelle descritte da Gigi Moncalvo in un'intervista al Fatto quotidiano, ovvero legate a misteriosi (quanto smentiti) contratti tra Berlusconi e Umberto Bossi sulla proprietà del simbolo del Carroccio. Non poteva, a questo punto, mancare la bottiglietta incendiaria del (finto) vacanziero Di Battista, che sempre su Facebook ha chiesto scusa, ma alla sua maniera: «Ho sbagliato a chiamare Salvini Dudù (il cane di Silvio, ndr), perché a differenza sua Dudù al guinzaglio non l'ho visto quasi mai. Ora Salvini dimostri coraggio e chieda le elezioni anticipate». Eppure è davvero una mossa quasi della disperazione, questa di chiedere il voto anticipato. I capigruppo del Movimento, Danilo Toninelli e Giulia Grillo, sanno che per giugno non ci sono più i tempi tecnici e che in autunno non s'è mai votato. L'ostacolo è la legge di bilancio e una campagna elettorale con l'esercizio provvisorio sullo sfondo Sergio Mattarella non la consentirà mai. Insomma, siamo di fronte all'ultima chiamata per Salvini. Il quale però non sembra un barboncino. Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-carroccio-trascina-il-centrodestra-in-friuli-stravince-e-spegne-i-5-stelle-2564724164.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="mattarella-chiude-no-elezioni-a-giugno-e-dara-a-gentiloni-un-lavoretto-estivo" data-post-id="2564724164" data-published-at="1765478554" data-use-pagination="False"> Mattarella chiude: no elezioni a giugno. 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Mattarella ha cercato in ogni modo di agevolare il percorso di Di Maio e del M5s in questi due mesi di trattative per tentare di formare un governo: ha concesso settimane e settimane ai pentastellati per discutere prima con il centrodestra e poi con il Pd. Non ha ancora neanche giocato la terza carta a sua disposizione, pure tecnicamente praticabile: esplorare la possibilità di un patto di governo tra centrodestra e Pd, che in caso di successo (Matteo Salvini è contrario, ma il Quirinale prende in considerazione solo le dichiarazioni ufficiali, e non quelle ai media) avrebbe relegato Di Maio al ruolo di semplice spettatore. Ieri, con la «sparata» sulle elezioni a giugno, le quotazioni di Luigi Di Maio tra i consiglieri di Sergio Mattarella sono calate vertiginosamente. Quelle di Di Maio, ma non quelle del M5s, che Sergio Mattarella continua a considerare imprescindibile per un eventuale, anche se improbabilissimo, governo «di responsabilità». I collaboratori di Mattarella hanno anche dovuto ammettere che Matteo Renzi ha giocato bene le sue carte in tv, evocando quel governo di tutti «per le riforme costituzionali» che è dal primo giorno dopo le elezioni il pallino del capo dello Stato. Fu proprio la Verità ad anticipare l'idea del Colle, poi esplicitata da Dario Franceschini, ufficiale di collegamento tra il Pd e Mattarella, fautore dell'alleanza tra Pd e M5s, messo all'angolo dalla mossa dell'ex Rottamatore. Un'idea destinata a non concretizzarsi: ormai il clima tra centrodestra, M5s e Pd è incandescente. Mattarella, quindi, si prepara a sciogliere le Camere, ben sapendo che nessuno potrà rimproverargli di non aver tentato ogni strada per dare un governo all'Italia. Non lo farà di certo entro il 9 maggio: si voterà molto probabilmente a ottobre, Mattarella spera con una nuova legge elettorale. Ma c'è un ma, grande quanto Palazzo Chigi. Matteo Salvini sta iniziando a convincersi che la strategia di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ovvero quella di chiedere un incarico per lo stesso Salvini o Giancarlo Giorgetti per poi cercare in Parlamento i voti necessari a sostenere un governo di centrodestra, non sia campata in aria. Occorrono 50 deputati e 30 senatori «responsabili», ovvero terrorizzati da un ritorno alle urne perché non certi della rielezione. Mattarella, però, vuole una «coalizione» di governo, non una marmellata parlamentare, e soprattutto non ha ricevuto da Matteo Salvini alcuna garanzia sulla collocazione dell'Italia nel quadro internazionale. Salvini, con il suo saldissimo rapporto con la Russia di Vladimir Putin e con il Front national di Marine Le Pen, non potrebbe garantire la continuità in politica estera che sta a cuore al capo dello Stato. Ecco perché, in queste ore, tra i consiglieri di Mattarella circola l'idea di non desistere dal tentativo di trovare un'intesa tra Pd, M5s e Leu, partendo però da un passo indietro di Luigi Di Maio, che sembra una ipotesi assai remota. Dunque, la tabella di marcia di Sergio Mattarella non cambia: si attende la direzione del Pd di giovedì prossimo per verificare la effettiva chiusura del «forno» Pd-M5s, al di là delle posizioni dei singoli esponenti dei due partiti, a cominciare da quella di Di Maio, che a questo punto ha fretta di tornare alle urne per due motivi: mantenere la leadership del M5s e limitare la costante erosione dei consensi dei 5 stelle, che a furia di oscillare tra la Lega e il Pd stanno provocando una vera e propria rivolta nel loro elettorato. Tra i collaboratori di Mattarella, oltretutto, si rafforza la convinzione che il giovane leader del M5s si sia fatto «intortare» da Matteo Salvini, al quale anche ieri ha chiesto (invano) di unirsi a lui nel fare pressioni sul capo dello Stato per chiedere le elezioni immediate. Calato il sipario su questa trattativa mai nata, Mattarella rivolgerà a tutti i partiti un appello alla «responsabilità», che potrebbe contenere un più o meno esplicito riferimento alla necessità di approvare rapidamente una nuova legge elettorale per evitare il ripetersi di quanto accaduto lo scorso 4 marzo. Poi, si andrà verso le elezioni in autunno. Il governo balneare, che dovrà traghettare il paese verso le urne, sarà quello in carica, guidato da Paolo Gentiloni. Carlo Tarallo
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
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