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2018-04-28
Salvini rassicura Forza Italia ma il Carroccio in Friuli vuole fare il pienone
ANSA
La svolta di Matteo Salvini arriva a 48 ore dalle elezioni in Friuli Venezia Giulia, regione che domani il centrodestra, salvo clamorosi imprevisti, strapperà al Pd.
I sondaggi sono eloquenti: la Lega vola, trascinando la coalizione e il candidato alla presidenza, il leghista Massimiliano Fedriga, verso la vittoria. Sarebbe la seconda regione in sette giorni, dopo il Molise, che da un governo targato Pd passa al centrodestra. Salvini, impegnato nella giornata conclusiva della campagna elettorale per Fedriga, al quale è legatissimo, manda un preciso segnale a avversari e alleati: «Non possiamo», dice Salvini, «tenere il Paese sospeso per altre settimane o altri mesi. Per quanto mi riguarda, la via maestra è che bisogna cercare un accordo tra i primi e i secondi: se questo non è possibile si torni alle urne subito, entro l'estate. Non sta scritto né in cielo né in terra che si debba arrivare a ottobre. Anche perché, con l'aria che tira, io penso che una buona maggioranza qualcuno la porta a casa se si vota a giugno. Una nuova legge elettorale? Se si vuole», aggiunge Salvini, «la approviamo in 15 giorni, siamo totalmente disponibili. Chi prende un voto in più governa, lista o coalizione. Ma anche con la legge elettorale invariata il centrodestra vincerebbe. Tanto lo sanno tutti che Mateo Renzi e Luigi Di Maio non c'azzeccano l'uno con l'altro».
Salvini è scatenato. Ha letto alcuni retroscena che danno per imminente la rottura con Silvio Berlusconi, e risponde netto: «Non romperò con Berlusconi, lasciare Berlusconi», sottolinea Salvini, «non è l'unica strada per fare il governo: non cedo a veti, controveti e capricci. Il centrodestra ha vinto con un programma comune e siamo ben disponibili a dialogare con i secondi arrivati ma non coi terzi. Se Mattarella regala agli italiani una settimana di telenovela su Renzi e Di Maio non so cosa possono scrivere i giornali, e così riempiono le pagine con ipotesi non vere che ci riguardano. La mia parola vale più delle ambizioni di Di Maio. Io non riuscirei», attacca Salvini, «a fare quello che fa Di Maio, che un giorno parla con la Lega e il giorno dopo parla con il Pd. Io rispetto gli elettori. Spero che Di Maio faccia un bagno di umiltà e torni a sedersi al tavolo del centrodestra».
Per Salvini, dunque, il «forno» di un'ipotesi di alleanza di governo tra centrodestra e M5s è tutt'altro che spento: «Se dovessi scommettere un euro», spiega il leader della Lega, «scommetterei su un governo che rispetti il voto del 4 marzo quindi con centrodestra e 5 stelle. Se così non fosse: elezioni, anche prima di ottobre». Il messaggio a Di Maio è chiaro: basta veti e mettiamoci al lavoro. Quello a Berlusconi è altrettanto cristallino: niente inciuci col Pd e stop alle accuse ai 5 stelle. Sulla ipotesi di un accordo tra Pd e M5s, il leader del Carroccio è lapidario: «Le possibilità che nasca un governo Pd - M5s», dice Salvini, «sono pari a zero: è un accordo contro natura e soprattutto una presa in giro agli italiani. Fossi un elettore dei 5 stelle avrei o problemi o vergogna: però ognuno fa le proprie scelte».
Secca smentita anche sulle presunte minacce da parte di Berlusconi attraverso Mediaset, ipotizzate da Luigi Di Maio: «Non mi sento assolutamente minacciato», risponde Salvini, «dalle tv di Berlusconi. Ognuno è libero di scrivere o raccontare quello che vuole: non penso che in Italia ci siano rischi di questo tipo».
Matteo Salvini affida invece a Twitter il suo commento su quanto accaduto a Pavia, dove sono comparsi adesivi dove appare appeso a testa in giù insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, al presidente americano Donald Trump e al presidente turco Recep Tayyip Erdogan: «Salvini a testa in giù per le vie di Pavia. Idioti e vigliacchi», scrive Salvini, «non ci fate paura. Io vado avanti!».
E Berlusconi? Anche lui in Friuli Venezia Giulia, il presidente di Forza Italia mantiene alcune distanze rispetto all'alleato, in particolare sull'ipotesi di una riapertura del «forno» tra centrodestra e M5s: «Salvini», dice il cavaliere, a Trieste, «è assolutamente convinto di andare al governo con il centrodestra. È leale e mai spezzerà la nostra coalizione che non è artificiale ma è insieme da 20 anni. Salvini riapre il forno con il M5s? Tutte menzogne che mettono in giro i nemici del centrodestra. Io non ho posto veti», aggiunge Berlusconi, «ma con il M5s non c'è nessuna possibilità, visto che Di Maio dice che sono il male assoluto e non si vuole sedere a un tavolo, non vuole ministri e sottosegretari di Forza Italia, nemmeno uomini d'area. Con chi ragiona in questo modo non si possa fare nessun accordo di questo tipo. L'Europa», attacca Berlusconi, «si augura che ci sia un argine al M5s e al movimento populista italiano».
Berlusconi, rispetto a Salvini, è contrario al ritorno alle urne: «Sarebbe un male», spiega il Cav, «tornare al voto. Ci vuole un governo di minoranza a guida centrodestra, cosa che in altri paesi non ha suscitato nessuna sorpresa: è un governo di chi ha vinto le elezioni, che si presenta con un programma molto concreto, e che chiede al parlamento la maggioranza su questo progetto». L'idea di cercare in Parlamento i voti (50 deputati e 30 senatori) che mancano per varare un governo di centrodestra è da sempre il chiodo fisso di Giorgia Meloni, che ribadisce la sua linea: «Fratelli d'Italia», dice la Meloni, «chiede al presidente della Repubblica il rispetto della volontà popolare e un incarico pieno al centrodestra, a Salvini, per andare a cercare i voti in Parlamento».
Carlo Tarallo
E Di Maio non può ammetterlo però sotto sotto tifa la Lega
Il bello della democrazia diretta al tempo della Rete è che alle cinque di pomeriggio l'ultimo appello al voto sul Blog delle stelle di Alessandro Fraleoni Morgera, candidato grillino alla presidenza del Friuli Venezia Giulia, ha già 1,2 milioni di «like». Più o meno quanti sono gli abitanti dell'intera Regione del Nord Est, poppanti compresi. Poi però c'è la realtà non virtuale, che lunedì mattina potrebbe consegnare una vittoria strepitosa a Massimiliano Fedriga e alla Lega. E in questo caso, se l'umiliazione di Silvio Berlusconi e Forza Italia sarà evidente, Luigi Di Maio sarà il primo a gioire per la sconfitta del suo candidato. Perché si riaprirà la strada del negoziato con Matteo Salvini.
«Alla fine il Carroccio ha ottenuto quello che voleva: tirarla in lungo fino al voto friulano. E deve dire grazie alla lentezza e alle spaccature del Pd, che su di noi deciderà nell'assemblea di giovedì prossimo», ragionano ai vertici di M5s, dove dopo altre 24 ore di trattative informali con il Pd sono sempre più convinti che sarà fumata nera. «Loro sono spaccatissimi, al massimo parlano di appoggio esterno, ma così ci terrebbero per le…orecchie», racconta uno degli uomini più vicini a Di Maio. Lo stesso candidato premier grillino, ormai, ha pochi dubbi. «Noi stiamo fermi sui nostri punti, a cominciare da quel reddito di cittadinanza che secondo il Pd sfascerebbe i conti», dice Di Maio, «e il resto verrà da solo: si divideranno e scapperanno».
E allora è gioco facile, anche per il capogruppo al Senato, Danilo Toninelli, ripetere che «il candidato premier del Movimento è e resta Luigi Di Maio». È verissimo, non solo perché davvero Roberto Fico non sembra intenzionato a tagliare la strada all'ex rivale interno («Sa che Lega e Forza Italia vogliono solo usarlo per bruciare Luigi»), ma perché Pd e M5s sono così lontani che non esiste al momento la possibilità di trovare un nome «terzo», magari il classico magistrato avvelenato con Arcore, a cui affidare la guida di Palazzo Chigi.
E a proposito di Silvio Berlusconi, anche se l'ordine di scuderia di Davide Casaleggio e Di Maio è quello di abbassare i toni sul Cavaliere e non attaccare più la Lega (per non dare alibi a Salvini), nel Movimento sono divisi tra coloro che temono il potere mediatico del proprietario di Mediaset e quelli che invece lo ritengono un vecchio fantasma della sinistra. Per esempio, il fatto che da un paio di giorni si vociferi di un servizio delle Iene di Italia 1 dedicato a una colf di Fico, per i più anziani (quelli che negli anni scorsi hanno combattuto Forza Italia) sarebbe il ritorno nientemeno della «macchina del fango». Per i più giovani sarebbe invece una cosa «che non dobbiamo collegare assolutamente al Movimento, perché le Iene fanno così con tutti». Resta il fatto che il programma elettorale dei 5 stelle sul tema dell'informazione è chiarissimo. Oltre a promettere ai giornalisti e ai direttori che chi chiederà loro risarcimenti milionari, se perde la causa, dovrà versare esattamente quanto aveva chiesto a scopo intimidatorio, rovina la vita a tutti gli editori «impuri», ovvero che non hanno nei giornali e nelle tv il loro interesse unico. E allora, per giornali e tv ci sarebbe il tetto massimo al 10% per il singolo azionista di ogni singolo mezzo di comunicazione. E per la Rai, solo un canale mantenuto dal canone, con il resto venduto ai privati. È tutto nero su bianco nel programma ufficiale del Movimento e, come si vede dalla sostanza (miliardaria), vale di più di una singola battuta di Di Maio sul conflitto d'interessi.
Se Matteo Renzi è ritenuto da Di Maio il «fattore ingombrante» di un accordo con il Pd, lo stesso vale per Berlusconi sul fronte della Lega. Ma che cosa si aspettano, di preciso, in casa grillina, dal voto del Friuli Venezia Giulia? È presto detto. Con tanti saluti al generoso candidato di bandiera, si aspettano che Fedriga lasci Forza Italia a una cifra soltanto e che questo inneschi la fuga dei deputati forzisti verso il Carroccio. Poi, si attendono che Salvini alzi il telefono, ovviamente dopo che Fico e Mattarella avranno certificato il fallimento del governo M5s-Pd, e riapra le trattative con Di Maio. A quel punto, ragionano sempre i pentastellati, «accordo stringato in 7-8 punti» e via con il famoso governo dei «populisti».
Sono due ipotesi date, per prudenza dello stesso Di Maio, al 50% ciascuna. Davvero nessuno, oggi, si sbilancia su come farà il Movimento ad andare al governo. Ma la novità di giornata è che anche nel caso di un accordo con la Lega, tra i 5 stelle si è fatta strada la convinzione che si tratterà di un appoggio esterno. Una condizione che consentirebbe a Salvini di ultimare l'Opa sul centrodestra, senza essere accusato di tradimenti plateali da Berlusconi. E poi c'è sempre il fatto che Di Maio, di Salvini, si fida umanamente. E insomma è convinto che da alleato «esterno» non giocherebbe al massacro di Palazzo Chigi.
Francesco Bonazzi
La Roba del Cav è tornata centrale
L'orizzonte è più immobile di una foresta pietrificata. Ti svegli una mattina di fine aprile 2018 e ti sembra di essere tornato agli albori della Seconda repubblica (1994), quando la neonata Forza Italia sbaragliava la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. «Quasi quasi riprendiamo in mano il conflitto di interessi» (Luigi Di Maio). Ti svegli la stessa mattina e ti sembra di essere tornato al tempo in cui una squadra di calcio faceva vincere le elezioni. «Quasi quasi mi ricompro il Milan» (Silvio Berlusconi).
Questi stucchevoli 50 giorni di balletti istituzionali alla ricerca di una maggioranza ci costringono a ripassare la storia. Una storia di amicizie e omissioni, la storia di una classe politica in cui tutti si davano del tu e tutti pranzavano gratis alla buvette. Una lunga stagione in cui giganteggiava, esattamente come adesso, la figura di Berlusconi. Centrale da dentro il Parlamento esattamente come è tornato ad essere centrale da fuori. Allora tre volte premier o altrettante leader dell'opposizione; adesso alleato, agitatore, tessitore, consigliere, nonno della Repubblica che, mentre platealmente conta i punti del programma accanto a Matteo Salvini, pensa a come salvare il suo centro democratico in difficoltà e pure la sua Roba.
Siamo di nuovo nei pressi di Giovanni Verga perché c'è qualcosa di letterario e grottesco in quest'alba della Terza Repubblica che tanto somiglia - nei tic, nei difetti, nelle furberie da sacrestia - alle prime due. Già allora tutta la sinistra girotondina capitanata da Nanni Moretti aveva molti sogni e una certezza: regolare i conti con il conflitto d'interessi di Berlusconi. Tv, giornali, l'impero multimediale minacciato come spauracchio: tutti hanno provato a dire qualcosa di dirompente, da Walter Veltroni a Romano Prodi, da Francesco Rutelli ai pasdaran rossi di passaggio. Ma nessuno ha saputo andare oltre l'invettiva di principio. E quando Massimo D'Alema ha finalmente passeggiato nei corridoi di Mediaset celebrando la positività e l'efficienza di un'eccellenza internazionale, la guerriglia si è spenta nel sottobosco della «politica dei rapporti». L'allora Lider Massimo detto anche Spezzaferro incassò quel feroce «di' qualcosa di sinistra, ma soprattutto fallo» e salendo sul Baltic con le scarpe da un milione (di lire) in mano decise di fregarsene.
Oggi l'eterno ritorno del sempre uguale porta Di Maio a riprovarci. Il tema è come l'antifascismo: coagula nei giorni dispari le anime disperse, fa garrire le bandiere ammosciate e diventa la luce in fondo al tunnel che attira grillini e Pidioti (così venivano definiti dai pentastellati i radical chic renziani) alla processione comune. «Il contratto con il Pd è fattibile solo se verrà inserito anche un capitolo su questo continuo conflitto d'interessi che c'è in Italia», ha buttato lì il leader 5 stelle con l'effetto di una bomba in platea. «Penso ad esempio al fatto che Berlusconi, usando le sue tv, continua a mandare velate minacce a Salvini». Il numero uno del Carroccio ha risposto chiaro: «Non mi sento minimamente minacciato».
Però il contesto è tornato a somigliare a quello di un tempo non lontano (2008), in cui Gianfranco Fini si sentiva sotto assedio addirittura da parte di Striscia la Notizia, che faceva incursioni nella sua vita privata con spericolati «spetteguless» su Elisabetta Tulliani in dolce attesa. Alla fine furono tutti bacchettati da Fedele Confalonieri in persona («La derisione che si trasforma in dileggio non è accettabile»).
La Roba che aiuta, la Roba in pericolo. C'è sempre qualcosa di epico e di border line nelle mosse di Berlusconi, che dal Friuli stupisce e spiega secondo un canone classico che perfino noi sappiamo a memoria: «Non c'è possibilità commerciale che l'azienda possa prendere partito per qualcuno perché eliminerebbe dalla sua audience altri. E poi mi lamento che Mediaset sia sempre con tutti e un po' meno con noi per non essere tv partigiana».
C'è tutto in Wikipedia. È tutto lì, dentro un antico copione che in fondo a Berlusconi piace perché lo rimette al centro della galassia. E poiché un ricordo tira l'altro, ecco che arriva il rimpianto elettorale, quel 14% inaspettato e non ancora metabolizzato. Il mondo che cambia? Una nuova generazione alle porte? La sommessa richiesta di dedicarsi ai colori pastello di un tramonto? No, per Berlusconi la sconfitta è tutta dentro un abbandono percepito come un tradimento: la vendita del Milan. Non c'è più il calcio a moltiplicare i consensi. Non ci sono più Rivaldo, Ronaldinho e Balotelli (comprati come ultimo botto elettorale) a far colpo sul tifoso e sulle urne. Per il Cavaliere senza tribuna d'onore il riassunto è elementare: «Il motivo per il quale una parte di elettori non ci ha votato è perché il sottoscritto ha venduto il Milan. In molti mi fermano e mi chiedono perché ho ceduto a chissà chi la squadra e mi rimproverano per le condizioni in cui versa. Se va avanti così non nego che prima o poi il Milan me lo ricompro».
Qui non si tratta di soppesare una boutade, l'analisi è logica e sociologica. All'uomo già entrato nei libri di storia (come sottolinea la figlia Marina) mancavano due capisaldi per tornare a quasi 82 anni al centro di tutto: il conflitto di interessi e il Milan, il fantasma della paura e quello del trionfo. Non potendo rivivere un passato a 1.000 all'ora bastano i flash a rievocarlo, quasi a renderlo eterno. Berlusconi è lì, sempre un passo davanti a Di Maio e Salvini, sempre oltre gli eccessi onirici di Paolo Sorrentino. Con la sua Roba nel cuore e una coppa dalle grandi orecchie tenuta a cappello sulla testa.
Giorgio Gandola
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Domani il centrodestra, a trazione lumbard, può stravincere. Matteo Salvini sereno: «Con Silvio Berlusconi non rompo». Sul governo: «Intesa con il M5s o voto subito». Il leader pentastellato Luigi Di Maio punta a una forte affermazione «padana» sull'alleato azzurro. Così da rimettere in moto le trattative per l'esecutivo, una volta fallita l'intesa con il Pd. Le minacce grilline a Mediaset e la nostalgia per il Milan appena venduto riempiono l'agenda politica. Come 20 anni fa, tutto ruota attorno alle «dimensioni» di Arcore.Lo speciale contiene tre articoli. La svolta di Matteo Salvini arriva a 48 ore dalle elezioni in Friuli Venezia Giulia, regione che domani il centrodestra, salvo clamorosi imprevisti, strapperà al Pd. I sondaggi sono eloquenti: la Lega vola, trascinando la coalizione e il candidato alla presidenza, il leghista Massimiliano Fedriga, verso la vittoria. Sarebbe la seconda regione in sette giorni, dopo il Molise, che da un governo targato Pd passa al centrodestra. Salvini, impegnato nella giornata conclusiva della campagna elettorale per Fedriga, al quale è legatissimo, manda un preciso segnale a avversari e alleati: «Non possiamo», dice Salvini, «tenere il Paese sospeso per altre settimane o altri mesi. Per quanto mi riguarda, la via maestra è che bisogna cercare un accordo tra i primi e i secondi: se questo non è possibile si torni alle urne subito, entro l'estate. Non sta scritto né in cielo né in terra che si debba arrivare a ottobre. Anche perché, con l'aria che tira, io penso che una buona maggioranza qualcuno la porta a casa se si vota a giugno. Una nuova legge elettorale? Se si vuole», aggiunge Salvini, «la approviamo in 15 giorni, siamo totalmente disponibili. Chi prende un voto in più governa, lista o coalizione. Ma anche con la legge elettorale invariata il centrodestra vincerebbe. Tanto lo sanno tutti che Mateo Renzi e Luigi Di Maio non c'azzeccano l'uno con l'altro». Salvini è scatenato. Ha letto alcuni retroscena che danno per imminente la rottura con Silvio Berlusconi, e risponde netto: «Non romperò con Berlusconi, lasciare Berlusconi», sottolinea Salvini, «non è l'unica strada per fare il governo: non cedo a veti, controveti e capricci. Il centrodestra ha vinto con un programma comune e siamo ben disponibili a dialogare con i secondi arrivati ma non coi terzi. Se Mattarella regala agli italiani una settimana di telenovela su Renzi e Di Maio non so cosa possono scrivere i giornali, e così riempiono le pagine con ipotesi non vere che ci riguardano. La mia parola vale più delle ambizioni di Di Maio. Io non riuscirei», attacca Salvini, «a fare quello che fa Di Maio, che un giorno parla con la Lega e il giorno dopo parla con il Pd. Io rispetto gli elettori. Spero che Di Maio faccia un bagno di umiltà e torni a sedersi al tavolo del centrodestra». Per Salvini, dunque, il «forno» di un'ipotesi di alleanza di governo tra centrodestra e M5s è tutt'altro che spento: «Se dovessi scommettere un euro», spiega il leader della Lega, «scommetterei su un governo che rispetti il voto del 4 marzo quindi con centrodestra e 5 stelle. Se così non fosse: elezioni, anche prima di ottobre». Il messaggio a Di Maio è chiaro: basta veti e mettiamoci al lavoro. Quello a Berlusconi è altrettanto cristallino: niente inciuci col Pd e stop alle accuse ai 5 stelle. Sulla ipotesi di un accordo tra Pd e M5s, il leader del Carroccio è lapidario: «Le possibilità che nasca un governo Pd - M5s», dice Salvini, «sono pari a zero: è un accordo contro natura e soprattutto una presa in giro agli italiani. Fossi un elettore dei 5 stelle avrei o problemi o vergogna: però ognuno fa le proprie scelte». Secca smentita anche sulle presunte minacce da parte di Berlusconi attraverso Mediaset, ipotizzate da Luigi Di Maio: «Non mi sento assolutamente minacciato», risponde Salvini, «dalle tv di Berlusconi. Ognuno è libero di scrivere o raccontare quello che vuole: non penso che in Italia ci siano rischi di questo tipo». Matteo Salvini affida invece a Twitter il suo commento su quanto accaduto a Pavia, dove sono comparsi adesivi dove appare appeso a testa in giù insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, al presidente americano Donald Trump e al presidente turco Recep Tayyip Erdogan: «Salvini a testa in giù per le vie di Pavia. Idioti e vigliacchi», scrive Salvini, «non ci fate paura. Io vado avanti!». E Berlusconi? Anche lui in Friuli Venezia Giulia, il presidente di Forza Italia mantiene alcune distanze rispetto all'alleato, in particolare sull'ipotesi di una riapertura del «forno» tra centrodestra e M5s: «Salvini», dice il cavaliere, a Trieste, «è assolutamente convinto di andare al governo con il centrodestra. È leale e mai spezzerà la nostra coalizione che non è artificiale ma è insieme da 20 anni. Salvini riapre il forno con il M5s? Tutte menzogne che mettono in giro i nemici del centrodestra. Io non ho posto veti», aggiunge Berlusconi, «ma con il M5s non c'è nessuna possibilità, visto che Di Maio dice che sono il male assoluto e non si vuole sedere a un tavolo, non vuole ministri e sottosegretari di Forza Italia, nemmeno uomini d'area. Con chi ragiona in questo modo non si possa fare nessun accordo di questo tipo. L'Europa», attacca Berlusconi, «si augura che ci sia un argine al M5s e al movimento populista italiano». Berlusconi, rispetto a Salvini, è contrario al ritorno alle urne: «Sarebbe un male», spiega il Cav, «tornare al voto. Ci vuole un governo di minoranza a guida centrodestra, cosa che in altri paesi non ha suscitato nessuna sorpresa: è un governo di chi ha vinto le elezioni, che si presenta con un programma molto concreto, e che chiede al parlamento la maggioranza su questo progetto». L'idea di cercare in Parlamento i voti (50 deputati e 30 senatori) che mancano per varare un governo di centrodestra è da sempre il chiodo fisso di Giorgia Meloni, che ribadisce la sua linea: «Fratelli d'Italia», dice la Meloni, «chiede al presidente della Repubblica il rispetto della volontà popolare e un incarico pieno al centrodestra, a Salvini, per andare a cercare i voti in Parlamento». 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E in questo caso, se l'umiliazione di Silvio Berlusconi e Forza Italia sarà evidente, Luigi Di Maio sarà il primo a gioire per la sconfitta del suo candidato. Perché si riaprirà la strada del negoziato con Matteo Salvini. «Alla fine il Carroccio ha ottenuto quello che voleva: tirarla in lungo fino al voto friulano. E deve dire grazie alla lentezza e alle spaccature del Pd, che su di noi deciderà nell'assemblea di giovedì prossimo», ragionano ai vertici di M5s, dove dopo altre 24 ore di trattative informali con il Pd sono sempre più convinti che sarà fumata nera. «Loro sono spaccatissimi, al massimo parlano di appoggio esterno, ma così ci terrebbero per le…orecchie», racconta uno degli uomini più vicini a Di Maio. Lo stesso candidato premier grillino, ormai, ha pochi dubbi. «Noi stiamo fermi sui nostri punti, a cominciare da quel reddito di cittadinanza che secondo il Pd sfascerebbe i conti», dice Di Maio, «e il resto verrà da solo: si divideranno e scapperanno». E allora è gioco facile, anche per il capogruppo al Senato, Danilo Toninelli, ripetere che «il candidato premier del Movimento è e resta Luigi Di Maio». È verissimo, non solo perché davvero Roberto Fico non sembra intenzionato a tagliare la strada all'ex rivale interno («Sa che Lega e Forza Italia vogliono solo usarlo per bruciare Luigi»), ma perché Pd e M5s sono così lontani che non esiste al momento la possibilità di trovare un nome «terzo», magari il classico magistrato avvelenato con Arcore, a cui affidare la guida di Palazzo Chigi. E a proposito di Silvio Berlusconi, anche se l'ordine di scuderia di Davide Casaleggio e Di Maio è quello di abbassare i toni sul Cavaliere e non attaccare più la Lega (per non dare alibi a Salvini), nel Movimento sono divisi tra coloro che temono il potere mediatico del proprietario di Mediaset e quelli che invece lo ritengono un vecchio fantasma della sinistra. Per esempio, il fatto che da un paio di giorni si vociferi di un servizio delle Iene di Italia 1 dedicato a una colf di Fico, per i più anziani (quelli che negli anni scorsi hanno combattuto Forza Italia) sarebbe il ritorno nientemeno della «macchina del fango». Per i più giovani sarebbe invece una cosa «che non dobbiamo collegare assolutamente al Movimento, perché le Iene fanno così con tutti». Resta il fatto che il programma elettorale dei 5 stelle sul tema dell'informazione è chiarissimo. Oltre a promettere ai giornalisti e ai direttori che chi chiederà loro risarcimenti milionari, se perde la causa, dovrà versare esattamente quanto aveva chiesto a scopo intimidatorio, rovina la vita a tutti gli editori «impuri», ovvero che non hanno nei giornali e nelle tv il loro interesse unico. E allora, per giornali e tv ci sarebbe il tetto massimo al 10% per il singolo azionista di ogni singolo mezzo di comunicazione. E per la Rai, solo un canale mantenuto dal canone, con il resto venduto ai privati. È tutto nero su bianco nel programma ufficiale del Movimento e, come si vede dalla sostanza (miliardaria), vale di più di una singola battuta di Di Maio sul conflitto d'interessi. Se Matteo Renzi è ritenuto da Di Maio il «fattore ingombrante» di un accordo con il Pd, lo stesso vale per Berlusconi sul fronte della Lega. Ma che cosa si aspettano, di preciso, in casa grillina, dal voto del Friuli Venezia Giulia? È presto detto. Con tanti saluti al generoso candidato di bandiera, si aspettano che Fedriga lasci Forza Italia a una cifra soltanto e che questo inneschi la fuga dei deputati forzisti verso il Carroccio. Poi, si attendono che Salvini alzi il telefono, ovviamente dopo che Fico e Mattarella avranno certificato il fallimento del governo M5s-Pd, e riapra le trattative con Di Maio. A quel punto, ragionano sempre i pentastellati, «accordo stringato in 7-8 punti» e via con il famoso governo dei «populisti». Sono due ipotesi date, per prudenza dello stesso Di Maio, al 50% ciascuna. Davvero nessuno, oggi, si sbilancia su come farà il Movimento ad andare al governo. Ma la novità di giornata è che anche nel caso di un accordo con la Lega, tra i 5 stelle si è fatta strada la convinzione che si tratterà di un appoggio esterno. Una condizione che consentirebbe a Salvini di ultimare l'Opa sul centrodestra, senza essere accusato di tradimenti plateali da Berlusconi. E poi c'è sempre il fatto che Di Maio, di Salvini, si fida umanamente. 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Ti svegli la stessa mattina e ti sembra di essere tornato al tempo in cui una squadra di calcio faceva vincere le elezioni. «Quasi quasi mi ricompro il Milan» (Silvio Berlusconi). Questi stucchevoli 50 giorni di balletti istituzionali alla ricerca di una maggioranza ci costringono a ripassare la storia. Una storia di amicizie e omissioni, la storia di una classe politica in cui tutti si davano del tu e tutti pranzavano gratis alla buvette. Una lunga stagione in cui giganteggiava, esattamente come adesso, la figura di Berlusconi. Centrale da dentro il Parlamento esattamente come è tornato ad essere centrale da fuori. Allora tre volte premier o altrettante leader dell'opposizione; adesso alleato, agitatore, tessitore, consigliere, nonno della Repubblica che, mentre platealmente conta i punti del programma accanto a Matteo Salvini, pensa a come salvare il suo centro democratico in difficoltà e pure la sua Roba. Siamo di nuovo nei pressi di Giovanni Verga perché c'è qualcosa di letterario e grottesco in quest'alba della Terza Repubblica che tanto somiglia - nei tic, nei difetti, nelle furberie da sacrestia - alle prime due. Già allora tutta la sinistra girotondina capitanata da Nanni Moretti aveva molti sogni e una certezza: regolare i conti con il conflitto d'interessi di Berlusconi. Tv, giornali, l'impero multimediale minacciato come spauracchio: tutti hanno provato a dire qualcosa di dirompente, da Walter Veltroni a Romano Prodi, da Francesco Rutelli ai pasdaran rossi di passaggio. Ma nessuno ha saputo andare oltre l'invettiva di principio. E quando Massimo D'Alema ha finalmente passeggiato nei corridoi di Mediaset celebrando la positività e l'efficienza di un'eccellenza internazionale, la guerriglia si è spenta nel sottobosco della «politica dei rapporti». L'allora Lider Massimo detto anche Spezzaferro incassò quel feroce «di' qualcosa di sinistra, ma soprattutto fallo» e salendo sul Baltic con le scarpe da un milione (di lire) in mano decise di fregarsene. Oggi l'eterno ritorno del sempre uguale porta Di Maio a riprovarci. Il tema è come l'antifascismo: coagula nei giorni dispari le anime disperse, fa garrire le bandiere ammosciate e diventa la luce in fondo al tunnel che attira grillini e Pidioti (così venivano definiti dai pentastellati i radical chic renziani) alla processione comune. «Il contratto con il Pd è fattibile solo se verrà inserito anche un capitolo su questo continuo conflitto d'interessi che c'è in Italia», ha buttato lì il leader 5 stelle con l'effetto di una bomba in platea. «Penso ad esempio al fatto che Berlusconi, usando le sue tv, continua a mandare velate minacce a Salvini». Il numero uno del Carroccio ha risposto chiaro: «Non mi sento minimamente minacciato». Però il contesto è tornato a somigliare a quello di un tempo non lontano (2008), in cui Gianfranco Fini si sentiva sotto assedio addirittura da parte di Striscia la Notizia, che faceva incursioni nella sua vita privata con spericolati «spetteguless» su Elisabetta Tulliani in dolce attesa. Alla fine furono tutti bacchettati da Fedele Confalonieri in persona («La derisione che si trasforma in dileggio non è accettabile»). La Roba che aiuta, la Roba in pericolo. C'è sempre qualcosa di epico e di border line nelle mosse di Berlusconi, che dal Friuli stupisce e spiega secondo un canone classico che perfino noi sappiamo a memoria: «Non c'è possibilità commerciale che l'azienda possa prendere partito per qualcuno perché eliminerebbe dalla sua audience altri. E poi mi lamento che Mediaset sia sempre con tutti e un po' meno con noi per non essere tv partigiana». C'è tutto in Wikipedia. È tutto lì, dentro un antico copione che in fondo a Berlusconi piace perché lo rimette al centro della galassia. E poiché un ricordo tira l'altro, ecco che arriva il rimpianto elettorale, quel 14% inaspettato e non ancora metabolizzato. Il mondo che cambia? Una nuova generazione alle porte? La sommessa richiesta di dedicarsi ai colori pastello di un tramonto? No, per Berlusconi la sconfitta è tutta dentro un abbandono percepito come un tradimento: la vendita del Milan. Non c'è più il calcio a moltiplicare i consensi. Non ci sono più Rivaldo, Ronaldinho e Balotelli (comprati come ultimo botto elettorale) a far colpo sul tifoso e sulle urne. Per il Cavaliere senza tribuna d'onore il riassunto è elementare: «Il motivo per il quale una parte di elettori non ci ha votato è perché il sottoscritto ha venduto il Milan. In molti mi fermano e mi chiedono perché ho ceduto a chissà chi la squadra e mi rimproverano per le condizioni in cui versa. Se va avanti così non nego che prima o poi il Milan me lo ricompro». Qui non si tratta di soppesare una boutade, l'analisi è logica e sociologica. All'uomo già entrato nei libri di storia (come sottolinea la figlia Marina) mancavano due capisaldi per tornare a quasi 82 anni al centro di tutto: il conflitto di interessi e il Milan, il fantasma della paura e quello del trionfo. Non potendo rivivere un passato a 1.000 all'ora bastano i flash a rievocarlo, quasi a renderlo eterno. Berlusconi è lì, sempre un passo davanti a Di Maio e Salvini, sempre oltre gli eccessi onirici di Paolo Sorrentino. Con la sua Roba nel cuore e una coppa dalle grandi orecchie tenuta a cappello sulla testa.Giorgio Gandola
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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