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2021-08-02
Il buco nero delle Rsa. Botte, offese e abbandoni
Ansa
Zone franche, i cui contorni si sono fatti via via sempre più sfocati, confusi in quella babele di regole che 20 sistemi sanitari regionali differenti hanno prodotto in questi anni. Con lo Stato che cerca di ficcare il naso il meno possibile, soprattutto quando di mezzo ci sono i privati. La pandemia ha portato al pettine i tanti nodi che si sono accumulati nel sistema delle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), dove sono ospitati anziani per lo più non autosufficienti e disabili. Il personale non basta e spesso non è adeguatamente professionalizzato per via dei corsi di formazione che non ci sono. I controlli in molte strutture sono sporadici: una volta accordato l'accreditamento, la vigilanza su quello che succede all'interno diventa una sorta di miraggio.
In mezzo, ci sono i pazienti, i più fragili, che a volte finiscono per essere abbandonati a un rapido deterioramento fisico e cognitivo, causato dalla solitudine e dall'assenza di stimoli. Altre volte, invece, la debolezza è una condizione di cui abusare, senza scrupolo alcuno. È successo ancora, questa volta a Serradifalco, nelle provincia di Caltanissetta. Nelle comunità alloggio per anziani «Francesco Lio» e «Giovanni Iacono», gestite dalla Cooperativa sociale «Azzurra», l'unica preoccupazione era quella di riscuotere: gli anziani ospiti erano diventati una sorta di salvadanaio, da cui «ciucciare i soldi della pensione». Di fornire assistenza ai tanti pazienti con problemi anche psichici, gli operatori non si curavano minimamente. Non è un caso che l'operazione condotta dai Nas di Ragusa e dai carabinieri di Caltanissetta sia stata definita «Bad Caregiver»: i «cattivi assistenti», secondo quanto ricostruisce il Gip nell'ordinanza di custodia cautelare, l'unica cosa che riuscivano a garantire erano le ingiurie - «cesso, pezzo di merda, menomato» le offese più ricorrenti - cibo di pessima qualità e purtroppo la violenza.
Tanta violenza: gli anziani erano costretti a sopportare schiaffi, pugni, percosse con bastoni, sedie e altri oggetti. Un operatore è finito in carcere, due agli arresti domiciliari. Per altri due indagati è stata disposta l'interdizione dalla professione per un anno. «Vi uccido, vi sparo, vi ammazzo», diceva uno di loro, Vincenzo Biundo, a un ospite della struttura.
La sequenza dei maltrattamenti che avrebbe perpetrato ai pazienti è impressionante: più di 300 episodi dal 5 febbraio al 12 aprile scorsi, secondo gli inquirenti. Tanti nel giro di pochi minuti appena.
indagini in tutta italia
Chi avrebbe dovuto vigilare sul rispetto delle condizioni minime da garantire sembra aver chiuso più di un occhio negli ultimi anni: nonostante la presenza di pazienti invalidi, non autosufficienti e con varie patologie psichiatriche, nessuno, negli uffici dell'assessorato agli Enti locali della Regione Sicilia, si sarebbe accorto che la struttura era registrata come comunità per anziani, anziché come struttura per disabili psichici. Dopo il 2013, anno cui inizia la sua attività, la Cooperativa sociale «Azzurra» non avrebbe mai inoltrato le comunicazioni di permanenza dei requisiti.
Secondo gli inquirenti, gli operatori delle struttura hanno potuto continuare ad assistere gli anziani in piena libertà e a somministrare loro medicinali anche se sprovvisti di qualsiasi titolo. Sulle mancanze delle Rsa stanno indagando molte altre Procure in tutta Italia, per accendere una luce su quanto accaduto nei momenti più complicati dell'emergenza. La scorsa settimana, la Procura di Vercelli ha chiuso le indagini per le 45 morti registrate nella casa di riposo di Piazza Mazzini tra marzo e aprile 2020. Tra i 5 indagati per i quali è stato chiesto il rinvio a giudizio, il direttore amministrativo Alberto Cottini, il direttore sanitario Sara Bouvet e Chiara Serpieri, all'epoca dei fatti direttore generale dell'Asl di Vercelli.
A mostrare i punti deboli di un sistema che non ha saputo reggere di fronte alla pandemia, non ci sono solo le inchieste. Ci sono anche i rapporti, altrettanto duri: quelli dei Nas dei carabinieri, che a maggio hanno constatato irregolarità nel 25% delle residenze sanitarie ispezionate (141 strutture fuori norma sulle 572 totali); quelli del ministero della Salute, che evidenziano una condizione di «malnutrizione per difetto» per circa il 70% degli anziani ospitati nelle strutture di lungodegenza e Rsa. «Tanti familiari segnalano una forte regressione dei propri cari», spiega alla Verità Elisa Pirro, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Sanità e igiene del Senato. «Parliamo di persone entrate con un certo grado di autonomia, che nell'ultimo anno e mezzo sono peggiorate con una velocità maggiore rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. Tenuto conto delle condizioni di rischio, le strutture devono garantire le visite dei parenti in piena sicurezza».
mancanza di socialità
Come raccontato in queste pagine, a incidere è soprattutto la mancanza di socialità a cui molti anziani sono stati obbligati, anche quando le linee guida ministeriali avrebbero richiesto l'esatto opposto. «Il modello che è stato portato avanti finora non funziona più, ha mostrato i suoi limiti», ragiona Piero Ragazzini, segretario generale dei Pensionati Cisl. «Il Pnrr è l'occasione per una modifica sostanziale del mondo delle residenze sanitarie: più domiciliarità, medicina territoriale e una revisione dei centri, soprattutto i più grandi, che in questi mesi hanno sofferto terribilmente».
Porte chiuse alle visite dei familiari «Non ci fanno vedere i nostri cari»
«Siamo stanchi, i miei genitori non hanno ucciso nessuno. Eppure, i loro diritti sono calpestati da mesi». «La reclusione dei nostri cari non è giustificata: abbiamo chiesto di poterli vedere, di poterli incontrare più spesso, ma ci è sempre stato negato». E ancora: «Non possiamo assistere i nostri familiari neanche per le visite mediche, anche se siamo vaccinati». Da qualche giorno, al ministero della Salute circola un rapporto, che la Verità ha avuto modo di visionare, nel quale sono contenute centinaia di testimonianze di questo tenore. Tutte lamentano uno scarso rispetto delle disposizioni ministeriali da parte dei direttori sanitari che gestiscono le residenze per anziani.
Con un'ordinanza firmata lo scorso 8 maggio dal ministro Speranza, le porte delle Rsa sono di nuovo aperte alle visite dei familiari. A quelle linee guida, finite nella legge di conversione del decreto riaperture di aprile, le Direzioni sanitarie dovrebbero conformarsi «immediatamente». Peccato che tante regioni non abbiano ancora provveduto a recepire le disposizioni governative, così molte strutture approfittano del vuoto normativo e continuano ad applicare misure restrittive, nonostante la quasi totalità degli ospiti e dei familiari siano ormai dotati di copertura vaccinale e green pass. Secondo i numeri raccolti dal Comitato Orsan-Open Rsa Now, contenuti in un esposto pronto per essere presentato alla Procura di Monza, sarebbero almeno 278 le strutture inadempienti sparse in tutta Italia. Di queste, 137 si trovano in Lombardia, dove il numero delle residenze per anziani, per lo più private, è molto alto e dove le associazioni hanno cominciato a raccogliere le tante segnalazioni che arrivano ogni giorno dai familiari, stanchi di incontrare i propri cari appena qualche minuto a settimana.
trenta minuti massimo
«Non ci sono strumenti per obbligare le strutture private ad adeguarsi e non c'è stata finora verifica da parte della Regione Lombardia sull'adempimento degli accordi», spiega Serena Bontempelli, segretaria generale Uil Pensionati Lombardia. Nell'elenco di chi non rispetterebbe a pieno le norme ministeriali ci sono anche 42 strutture in Veneto e 24 in Piemonte. In una lettera firmata lo scorso 26 luglio, il capo di Gabinetto della Giunta piemontese, Gian Luca Vignale, conferma che dagli uffici regionali sono partiti i solleciti alle commissioni di vigilanza per verificare il rispetto dell'ordinanza ministeriale.
Nel corso dell'ultimo question time in Senato, Speranza ha assicurato che sul rispetto delle linee guida garantirà Agenas, l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. «È un primo passo avanti, anche se non ancora sufficiente», commenta il presidente di Orsan, Dario Francolino. «Da un anno e mezzo c'è un enorme problema organizzativo all'interno delle strutture: i direttori sanitari si trincerano dietro la possibilità di fare come meglio credono. Non siamo più disposti a restare in una posizione di debolezza, i familiari hanno il diritto di partecipare alle scelte che si prendono all'interno delle residenze. Non solo per le rette che paghiamo, ma perché lì dentro c'è la vita dei nostri cari, che non è delegabile». I 20 minuti di visita settimanale, 30 quando va bene, non bastano più. Se non è possibile tornare ai livelli pre pandemia, i membri del Comitato chiedono quantomeno una maggiore apertura. Nelle loro chat si rincorrono messaggi al limite della disperazione: «Anche se in possesso di green pass, le visite sono permesse solo rimanendo all'esterno dell'edificio, senza alcuna possibilità di contatto con l'ospite», si legge nella descrizione di quanto accade in una residenza lombarda.
una vicenda come tante
Con gli ingressi vietati nei fine settimana, per molti incontrare i propri cari è diventata un'impresa. Claudia, che nella vita fa l'insegnante in una scuola in Sardegna, non vede suo padre da quasi un anno. L'ultimo incontro è stato lo scorso ottobre. Il nome della donna è di fantasia, come quello di tante persone che decidono di raccontare temendo ripercussioni, ma la storia è tristemente reale: «Mio papà si trova in una struttura a Torino, che, come tante, ha contingentato le visite. Possiamo prenotare solo ogni dieci giorni e l'ingresso ci è permesso per 20 minuti appena. Viaggiare e pernottare quando hai a disposizione un tempo così limitato risulta davvero complicato. Fino allo scorso anno avrei potuto soggiornare anche una settimana, consapevole che avrei potuto abbracciare mio padre tutti i giorni, se avessi voluto. Ora non è più così: con parecchi chilometri di distanza e un mare di mezzo, vederlo è diventato impossibile».
Non vanno abolite, ma trasformate in case
Presidente nazionale Auser
La pandemia ha aperto un dibattito su come organizzare e riorganizzare i servizi domiciliari rivolti agli anziani e sul ruolo che devono o possono svolgere le Rsa.
Secondo il rapporto Istat Gli anziani e la loro domanda sociale e sanitaria, «su una popolazione di circa 6,9 milioni di over 75, sono stati identificati oltre 2,7 milioni di individui che presentano gravi difficoltà motorie, comorbilità, compromissioni dell'autonomia nelle attività quotidiane di cura della persona e nelle attività strumentali della vita quotidiana». Malgrado i limiti evidenti che hanno mostrato in questi mesi, sono convinto che le Rsa non vadano abolite: forniscono un servizio importante, a cavallo tra ospedali, medicina territoriale e assistenza domiciliare, e si prendono cura anche di quelle persone che non potrebbero essere assistite a domicilio. Riconfigurare il modello delle Rsa significa intervenire innanzitutto sulla qualità della vita che vi si conduce all'interno e quindi sull'organizzazione del servizio. Da questo punto di vista, il primo obiettivo da perseguire è evitare che le Rsa siano considerate come dei mini ospedali in cui si riproduce la routine tipica della vita in corsia. Considerando che lo scenario prevalente vede le Rsa coinvolte nell'ospitalità di anziani dimessi dall'ospedale nella fase post acuta, il modello è quello di considerare le Rsa come una sorta di «casa» di transizione, in cui l'anziano recupera la sua autonomia per essere riabilitato alla vita «normale».
Tutto questo, evidentemente, senza far venire meno la componente sanitaria: le Rsa accolgono sempre più soggetti con gravi patologie in atto, che potrebbero causare, se trascurate, una riacutizzazione nei corpi degli anziani ospiti. Sarebbe sbagliato considerare queste strutture dei luoghi di mera «custodia» o di degenza per anziani non autosufficienti. Devono invece essere luoghi di «cura»: ciò si ottiene garantendo percorsi riabilitativi e interventi sulle diverse esigenze sanitarie. Nelle Rsa il concetto di «cura» deve avere un significato ampio: prendersi cura degli ospiti vuol dire assicurare loro un insieme di attenzioni il cui obiettivo non è solo la guarigione o la riabilitazione, ma soprattutto la garanzia delle migliori condizioni di vita possibili, nonostante le gravi limitazioni funzionali. Assumere questi criteri significa garantire ai ricoverati una vita di relazione la più ricca possibile. E offrire «vita di relazione» implica fantasia organizzativa: presenza di animazione, palestra, attività motorie, ingresso di associazioni e volontari, promozione del rapporto con i familiari. Chi è costantemente allettato non deve essere a priori escluso dalle offerte per potenziare le relazioni. Così come i non pochi pazienti con gravi forme di demenza: per loro devono essere definite modalità che consentano di «accettare» e gestire alcuni comportamenti, come alzarsi di notte, muoversi nella struttura e mangiare nelle ore più diverse. Anche questa è una forma di cura.
Infine, le Rsa potrebbero operare anche a sostegno delle cure domiciliari: la persona che è assistita in casa potrebbe fruire del bagno assistito, della mensa, dei momenti di animazione; oppure, le strutture potrebbero essere progettate come «Centro servizi», capaci di offrire assistenza al domicilio, soprattutto dove i servizi del territorio sono fragili.
Continua a leggereRiduci
Con il Covid è emerso il dramma delle residenze per anziani. Irregolarità, malnutrizione, abusi. E un sospetto: a chi tocca controllarle davvero?Nonostante un'ordinanza del ministero della Salute, 278 strutture consentono solo incontri sporadici e veloci «Non ci permettono di assisterli nemmeno se siamo vaccinati. I direttori sanitari fanno quello che vogliono»I limiti evidenziati dalla pandemia ci spingono a ripensare il modello: non mini-ospedali, ma luoghi di curaLo speciale contiene tre articoliZone franche, i cui contorni si sono fatti via via sempre più sfocati, confusi in quella babele di regole che 20 sistemi sanitari regionali differenti hanno prodotto in questi anni. Con lo Stato che cerca di ficcare il naso il meno possibile, soprattutto quando di mezzo ci sono i privati. La pandemia ha portato al pettine i tanti nodi che si sono accumulati nel sistema delle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), dove sono ospitati anziani per lo più non autosufficienti e disabili. Il personale non basta e spesso non è adeguatamente professionalizzato per via dei corsi di formazione che non ci sono. I controlli in molte strutture sono sporadici: una volta accordato l'accreditamento, la vigilanza su quello che succede all'interno diventa una sorta di miraggio. In mezzo, ci sono i pazienti, i più fragili, che a volte finiscono per essere abbandonati a un rapido deterioramento fisico e cognitivo, causato dalla solitudine e dall'assenza di stimoli. Altre volte, invece, la debolezza è una condizione di cui abusare, senza scrupolo alcuno. È successo ancora, questa volta a Serradifalco, nelle provincia di Caltanissetta. Nelle comunità alloggio per anziani «Francesco Lio» e «Giovanni Iacono», gestite dalla Cooperativa sociale «Azzurra», l'unica preoccupazione era quella di riscuotere: gli anziani ospiti erano diventati una sorta di salvadanaio, da cui «ciucciare i soldi della pensione». Di fornire assistenza ai tanti pazienti con problemi anche psichici, gli operatori non si curavano minimamente. Non è un caso che l'operazione condotta dai Nas di Ragusa e dai carabinieri di Caltanissetta sia stata definita «Bad Caregiver»: i «cattivi assistenti», secondo quanto ricostruisce il Gip nell'ordinanza di custodia cautelare, l'unica cosa che riuscivano a garantire erano le ingiurie - «cesso, pezzo di merda, menomato» le offese più ricorrenti - cibo di pessima qualità e purtroppo la violenza. Tanta violenza: gli anziani erano costretti a sopportare schiaffi, pugni, percosse con bastoni, sedie e altri oggetti. Un operatore è finito in carcere, due agli arresti domiciliari. Per altri due indagati è stata disposta l'interdizione dalla professione per un anno. «Vi uccido, vi sparo, vi ammazzo», diceva uno di loro, Vincenzo Biundo, a un ospite della struttura. La sequenza dei maltrattamenti che avrebbe perpetrato ai pazienti è impressionante: più di 300 episodi dal 5 febbraio al 12 aprile scorsi, secondo gli inquirenti. Tanti nel giro di pochi minuti appena. indagini in tutta italiaChi avrebbe dovuto vigilare sul rispetto delle condizioni minime da garantire sembra aver chiuso più di un occhio negli ultimi anni: nonostante la presenza di pazienti invalidi, non autosufficienti e con varie patologie psichiatriche, nessuno, negli uffici dell'assessorato agli Enti locali della Regione Sicilia, si sarebbe accorto che la struttura era registrata come comunità per anziani, anziché come struttura per disabili psichici. Dopo il 2013, anno cui inizia la sua attività, la Cooperativa sociale «Azzurra» non avrebbe mai inoltrato le comunicazioni di permanenza dei requisiti.Secondo gli inquirenti, gli operatori delle struttura hanno potuto continuare ad assistere gli anziani in piena libertà e a somministrare loro medicinali anche se sprovvisti di qualsiasi titolo. Sulle mancanze delle Rsa stanno indagando molte altre Procure in tutta Italia, per accendere una luce su quanto accaduto nei momenti più complicati dell'emergenza. La scorsa settimana, la Procura di Vercelli ha chiuso le indagini per le 45 morti registrate nella casa di riposo di Piazza Mazzini tra marzo e aprile 2020. Tra i 5 indagati per i quali è stato chiesto il rinvio a giudizio, il direttore amministrativo Alberto Cottini, il direttore sanitario Sara Bouvet e Chiara Serpieri, all'epoca dei fatti direttore generale dell'Asl di Vercelli. A mostrare i punti deboli di un sistema che non ha saputo reggere di fronte alla pandemia, non ci sono solo le inchieste. Ci sono anche i rapporti, altrettanto duri: quelli dei Nas dei carabinieri, che a maggio hanno constatato irregolarità nel 25% delle residenze sanitarie ispezionate (141 strutture fuori norma sulle 572 totali); quelli del ministero della Salute, che evidenziano una condizione di «malnutrizione per difetto» per circa il 70% degli anziani ospitati nelle strutture di lungodegenza e Rsa. «Tanti familiari segnalano una forte regressione dei propri cari», spiega alla Verità Elisa Pirro, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Sanità e igiene del Senato. «Parliamo di persone entrate con un certo grado di autonomia, che nell'ultimo anno e mezzo sono peggiorate con una velocità maggiore rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. Tenuto conto delle condizioni di rischio, le strutture devono garantire le visite dei parenti in piena sicurezza». mancanza di socialitàCome raccontato in queste pagine, a incidere è soprattutto la mancanza di socialità a cui molti anziani sono stati obbligati, anche quando le linee guida ministeriali avrebbero richiesto l'esatto opposto. «Il modello che è stato portato avanti finora non funziona più, ha mostrato i suoi limiti», ragiona Piero Ragazzini, segretario generale dei Pensionati Cisl. «Il Pnrr è l'occasione per una modifica sostanziale del mondo delle residenze sanitarie: più domiciliarità, medicina territoriale e una revisione dei centri, soprattutto i più grandi, che in questi mesi hanno sofferto terribilmente». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-buco-nero-delle-rsa-botte-offese-e-abbandoni-2654330778.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="porte-chiuse-alle-visite-dei-familiari-non-ci-fanno-vedere-i-nostri-cari" data-post-id="2654330778" data-published-at="1627807559" data-use-pagination="False"> Porte chiuse alle visite dei familiari «Non ci fanno vedere i nostri cari» «Siamo stanchi, i miei genitori non hanno ucciso nessuno. Eppure, i loro diritti sono calpestati da mesi». «La reclusione dei nostri cari non è giustificata: abbiamo chiesto di poterli vedere, di poterli incontrare più spesso, ma ci è sempre stato negato». E ancora: «Non possiamo assistere i nostri familiari neanche per le visite mediche, anche se siamo vaccinati». Da qualche giorno, al ministero della Salute circola un rapporto, che la Verità ha avuto modo di visionare, nel quale sono contenute centinaia di testimonianze di questo tenore. Tutte lamentano uno scarso rispetto delle disposizioni ministeriali da parte dei direttori sanitari che gestiscono le residenze per anziani. Con un'ordinanza firmata lo scorso 8 maggio dal ministro Speranza, le porte delle Rsa sono di nuovo aperte alle visite dei familiari. A quelle linee guida, finite nella legge di conversione del decreto riaperture di aprile, le Direzioni sanitarie dovrebbero conformarsi «immediatamente». Peccato che tante regioni non abbiano ancora provveduto a recepire le disposizioni governative, così molte strutture approfittano del vuoto normativo e continuano ad applicare misure restrittive, nonostante la quasi totalità degli ospiti e dei familiari siano ormai dotati di copertura vaccinale e green pass. Secondo i numeri raccolti dal Comitato Orsan-Open Rsa Now, contenuti in un esposto pronto per essere presentato alla Procura di Monza, sarebbero almeno 278 le strutture inadempienti sparse in tutta Italia. Di queste, 137 si trovano in Lombardia, dove il numero delle residenze per anziani, per lo più private, è molto alto e dove le associazioni hanno cominciato a raccogliere le tante segnalazioni che arrivano ogni giorno dai familiari, stanchi di incontrare i propri cari appena qualche minuto a settimana. trenta minuti massimo «Non ci sono strumenti per obbligare le strutture private ad adeguarsi e non c'è stata finora verifica da parte della Regione Lombardia sull'adempimento degli accordi», spiega Serena Bontempelli, segretaria generale Uil Pensionati Lombardia. Nell'elenco di chi non rispetterebbe a pieno le norme ministeriali ci sono anche 42 strutture in Veneto e 24 in Piemonte. In una lettera firmata lo scorso 26 luglio, il capo di Gabinetto della Giunta piemontese, Gian Luca Vignale, conferma che dagli uffici regionali sono partiti i solleciti alle commissioni di vigilanza per verificare il rispetto dell'ordinanza ministeriale. Nel corso dell'ultimo question time in Senato, Speranza ha assicurato che sul rispetto delle linee guida garantirà Agenas, l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. «È un primo passo avanti, anche se non ancora sufficiente», commenta il presidente di Orsan, Dario Francolino. «Da un anno e mezzo c'è un enorme problema organizzativo all'interno delle strutture: i direttori sanitari si trincerano dietro la possibilità di fare come meglio credono. Non siamo più disposti a restare in una posizione di debolezza, i familiari hanno il diritto di partecipare alle scelte che si prendono all'interno delle residenze. Non solo per le rette che paghiamo, ma perché lì dentro c'è la vita dei nostri cari, che non è delegabile». I 20 minuti di visita settimanale, 30 quando va bene, non bastano più. Se non è possibile tornare ai livelli pre pandemia, i membri del Comitato chiedono quantomeno una maggiore apertura. Nelle loro chat si rincorrono messaggi al limite della disperazione: «Anche se in possesso di green pass, le visite sono permesse solo rimanendo all'esterno dell'edificio, senza alcuna possibilità di contatto con l'ospite», si legge nella descrizione di quanto accade in una residenza lombarda. una vicenda come tante Con gli ingressi vietati nei fine settimana, per molti incontrare i propri cari è diventata un'impresa. Claudia, che nella vita fa l'insegnante in una scuola in Sardegna, non vede suo padre da quasi un anno. L'ultimo incontro è stato lo scorso ottobre. Il nome della donna è di fantasia, come quello di tante persone che decidono di raccontare temendo ripercussioni, ma la storia è tristemente reale: «Mio papà si trova in una struttura a Torino, che, come tante, ha contingentato le visite. Possiamo prenotare solo ogni dieci giorni e l'ingresso ci è permesso per 20 minuti appena. Viaggiare e pernottare quando hai a disposizione un tempo così limitato risulta davvero complicato. Fino allo scorso anno avrei potuto soggiornare anche una settimana, consapevole che avrei potuto abbracciare mio padre tutti i giorni, se avessi voluto. Ora non è più così: con parecchi chilometri di distanza e un mare di mezzo, vederlo è diventato impossibile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-buco-nero-delle-rsa-botte-offese-e-abbandoni-2654330778.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="non-vanno-abolite-ma-trasformate-in-case" data-post-id="2654330778" data-published-at="1627807559" data-use-pagination="False"> Non vanno abolite, ma trasformate in case Presidente nazionale Auser La pandemia ha aperto un dibattito su come organizzare e riorganizzare i servizi domiciliari rivolti agli anziani e sul ruolo che devono o possono svolgere le Rsa. Secondo il rapporto Istat Gli anziani e la loro domanda sociale e sanitaria, «su una popolazione di circa 6,9 milioni di over 75, sono stati identificati oltre 2,7 milioni di individui che presentano gravi difficoltà motorie, comorbilità, compromissioni dell'autonomia nelle attività quotidiane di cura della persona e nelle attività strumentali della vita quotidiana». Malgrado i limiti evidenti che hanno mostrato in questi mesi, sono convinto che le Rsa non vadano abolite: forniscono un servizio importante, a cavallo tra ospedali, medicina territoriale e assistenza domiciliare, e si prendono cura anche di quelle persone che non potrebbero essere assistite a domicilio. Riconfigurare il modello delle Rsa significa intervenire innanzitutto sulla qualità della vita che vi si conduce all'interno e quindi sull'organizzazione del servizio. Da questo punto di vista, il primo obiettivo da perseguire è evitare che le Rsa siano considerate come dei mini ospedali in cui si riproduce la routine tipica della vita in corsia. Considerando che lo scenario prevalente vede le Rsa coinvolte nell'ospitalità di anziani dimessi dall'ospedale nella fase post acuta, il modello è quello di considerare le Rsa come una sorta di «casa» di transizione, in cui l'anziano recupera la sua autonomia per essere riabilitato alla vita «normale». Tutto questo, evidentemente, senza far venire meno la componente sanitaria: le Rsa accolgono sempre più soggetti con gravi patologie in atto, che potrebbero causare, se trascurate, una riacutizzazione nei corpi degli anziani ospiti. Sarebbe sbagliato considerare queste strutture dei luoghi di mera «custodia» o di degenza per anziani non autosufficienti. Devono invece essere luoghi di «cura»: ciò si ottiene garantendo percorsi riabilitativi e interventi sulle diverse esigenze sanitarie. Nelle Rsa il concetto di «cura» deve avere un significato ampio: prendersi cura degli ospiti vuol dire assicurare loro un insieme di attenzioni il cui obiettivo non è solo la guarigione o la riabilitazione, ma soprattutto la garanzia delle migliori condizioni di vita possibili, nonostante le gravi limitazioni funzionali. Assumere questi criteri significa garantire ai ricoverati una vita di relazione la più ricca possibile. E offrire «vita di relazione» implica fantasia organizzativa: presenza di animazione, palestra, attività motorie, ingresso di associazioni e volontari, promozione del rapporto con i familiari. Chi è costantemente allettato non deve essere a priori escluso dalle offerte per potenziare le relazioni. Così come i non pochi pazienti con gravi forme di demenza: per loro devono essere definite modalità che consentano di «accettare» e gestire alcuni comportamenti, come alzarsi di notte, muoversi nella struttura e mangiare nelle ore più diverse. Anche questa è una forma di cura. Infine, le Rsa potrebbero operare anche a sostegno delle cure domiciliari: la persona che è assistita in casa potrebbe fruire del bagno assistito, della mensa, dei momenti di animazione; oppure, le strutture potrebbero essere progettate come «Centro servizi», capaci di offrire assistenza al domicilio, soprattutto dove i servizi del territorio sono fragili.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggereRiduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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