2019-01-02
«Il braccio di ferro con l’Ue s’è risolto durante una cena»
Il premier Giuseppe Conte svela a Panorama i retroscena della trattativa: «A Bruxelles capii che stava per saltare, però abbiamo insistito. Le tasse? Devono essere abbassate».«Per la maturità i miei genitori mi concessero la prima vacanza della mia vita». E dove andò? «Il viaggio premio fu in Inghilterra. Un viaggio bellissimo, formativo, fatto con pochi soldi. Così totalizzante che quando tornai mi accorsi che a Giurisprudenza i corsi stavano per iniziare».Ed era un problema? «Direi di sì, perché dovetti correre a Roma e non avevo un letto dove dormire!»Si era iscritto alla Sapienza. «Esatto. I telefonini non esistevano. Grazie al tam tam, trovai all'ultimo momento una sistemazione con altri ragazzi di San Giovanni Rotondo che in paese dicevano: “Abbiamo preso casa a Roma"». Non era così?(Sorride). «L'appartamento in questione era alla Rustica». Sul raccordo anulare!«Ogni mattina uscivo alle 6, prendevo due o tre mezzi per arrivare all'Università in tempo per le 8: non esattamente la vita universitaria che avevo immaginato».Perché? «Ero sempre bloccato nel traffico, o per strada, o in ritardo cronico. Raggiungevo aule in cui c'erano 800 o 1.000 persone e restavo fuori perché non trovavo posto: per i primi due mesi non ci capii nulla. Alla fine riuscii a prendere una stanza in una casa vicino a piazzale Aldo Moro, e lì mi sono potuto concentrare e laurearmi nei tempi».Laurea con lode, fra l'altro, e lavoretti per arrotondare. «Escluso il cameriere ne ho fatti di ogni tipo. Ma in quegli anni bellissimi, e in questo modo, sono diventato quello che sono oggi». Intervisto Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Il calendario della giornata più importante del suo governo (quella dell'accordo con l'Europa) è frenetico. Mi ritrovo ad aspettarlo nella sua stanza, con due dei suoi principali collaboratori per la comunicazione, Rocco Casalino e Maria Chiara Ricciuti. Lui ha appena finito di spiegare la manovra al Senato. Fioccano le agenzie, gli aneddoti sulla trattativa, quando entra il presidente del Consiglio sembra molto soddisfatto, e addirittura mi dà la scossa porgendomi la mano. Prevenendo la domanda sorride: «Vede? Sono carico». Presidente Conte, da ore c'è guerra interpretativa, sui media, sull'accordo. «Vedo». Alcuni dei critici più agguerriti dicono: «Si sarebbe ottenuto di più senza trattativa». (Sorride). «È curioso: parlano tutti come se al tavolo ci fossero stati loro. Io questa negoziazione l'ho condotta in prima persona, a Bruxelles, e posso dirle due cose certe». Quali? «Se non avessimo affrontato la Commissione, e non l'avessimo convinta delle nostre ragioni, non avremmo potuto disporre delle risorse che abbiamo e non avremmo potuto spenderle come avevamo deciso di spenderle». Cioè mantenendo i due provvedimenti bandiera?«C'erano grandi perplessità in Europa su alcuni aspetti della manovra, con particolare riguardo a quota 100 e al reddito di cittadinanza».Si dice: le pensioni sono da attribuire prevalentemente alla Lega, il reddito al M5s, lei quale di queste misure sente più «sua»? «Le sento tutte come mie». Compresa la mini flat tax?«Sarà del 15% fino a 65.000 euro e del 25% fino a 100.000 euro. Lo considero un esperimento importantissimo». Perché? «La flat tax a cui voglio arrivare non è mini! Questa misura a regime deve diventare la più grande e importante opera di semplificazione del sistema fiscale italiano. Tuttavia cominciamo con un abbattimento del 10% che riguarda un milione di italiani».Lei è sensibile al tema?«Sono un cittadino che per anni ha pagato le tasse. La pressione fiscale è troppo elevata, dobbiamo rendere il fisco equo ed efficiente». Renzi ha detto che al balcone del suo ufficio, quello a cui si accede da questa stanza, da adesso ci si affaccia Juncker. (Ride). «Juncker fa benissimo il suo lavoro, fino ad aprile. Nel suo ufficio di Bruxelles». Avete sottovalutato il peso dello spread?«Io no di certo». Quante volte al giorno lo controllava?(Copre con la mano l'orbita oculare). «Seguo un principio di salute mentale: con una porzione del mio campo visivo non lo perdo mai di vista, ma faccio sì di non averlo mai davanti agli occhi». Quindi il negoziato non era chiuso? «La notizia era trapelata, e quando ho telefonato personalmente a Dombrovskis per sbloccare la situazione, l'accordo stava saltando». Lei quella sera ha alzato la voce e litigato, in inglese, con l'uomo simbolo degli eurorigoristi?«Ho parlato in inglese, di sicuro, ma non ho mai alzato la voce. Ho avuto un tono di voce deciso, questo sì».Con Juncker come parlava? «Talvolta in francese, spesso anche con lui in inglese, spesso perché c'erano altri». Quali sono stati i due momenti più critici della trattativa? «Il primo sicuramente quando siamo andati a cena a Bruxelles». Perché? «Perché ho chiamato Juncker per concordare l'appuntamento e, dietro un tono che formalmente era impeccabile, ho avvertito la certezza che c'era una decisione già presa, e che consideravano l'Italia già fuori». Cosa ha cambiato questo rapporto? «Quella serata. Pensi che partendo da questa sensazione, prima della cena, a cui partecipavano gli altri ministri e Moscovici, ho chiesto a Juncker di potergli parlare in privato per 20 minuti». Lo avete fatto. «Ci siamo chiusi in una stanza, solo noi due, e ho puntato sulla sua capacità di lettura politica, sulla sua esperienza. Oggi posso dire che quel giorno ci siamo capiti. Mentre uscivamo mi disse: “Farò quel che posso per aiutarti". Lo ha fatto». Quando legge che, anche nel momento più difficile della trattativa, l'indice di gradimento nei suoi confronti era al 65% si compiace?«Non ci crederà, ma questi numeri non mi interessano». Infatti non ci credo. «Le spiego. Forse perché di formazione non sono un politico, non mi voglio far influenzare dai sondaggi né in un senso né nell'altro. Se ti compiaci quando sei al 65% sarebbe ovvio deprimersi se perdi 10 punti. Questo non posso permettermelo». Suo figlio sapeva di questo negoziato? «Il meno possibile. Devo difendere l'innocenza dei suoi 11 anni». Nella sua biografia, uno dei nodi cruciali è stata l'esperienza a Villa Nazareth. «È vero». Una delle scuole cattoliche più importanti, il regno del cardinal Silvestrini. Entrare in rapporto con quel mondo è stato un bivio importante? «Di sicuro. Ma si tratta di una storia particolare, molto diversa da come è stata raccontata». Lei ha lavorato per tanti anni come collaboratore volontario in quella struttura. «Pensi che tutto iniziò perché mia madre leggeva Famiglia Cristiana con cura quasi maniacale, dalla prima all'ultima riga». E cosa trovò su quelle pagine? «Aveva letto di un collegio cattolico, dove si poteva accedere con un concorso che si sarebbe dovuto celebrare di lì a breve». La direttrice dell'istituto di fatto era la professoressa Groppelli, una suora laica paolina di straordinario talento e cultura. «Magra, intelligentissima e sempre in abiti civili. Fu proprio lei ad esaminarmi. La Groppelli usava dei modernissimi test psico-attitudinali per capire le qualità dei ragazzi». Lei superò quell'esame. «Sì. Ma la professoressa, dopo avermi dato la notizia, mi spiegò che in quella sessione qualcuno aveva più bisogno economico di me. E che la struttura aveva come missione prioritaria quella di assistere i più poveri». Antonio Placentino, un suo amico di infanzia, ha detto che lei giocava con il numero 10 e che a scuola aveva tutti 10. «Se stiamo ai numeri mi piaceva anche la maglia da centravanti, quella da falso nueve». Era un centrocampista con vocazione offensiva. «Mi piace segnare qualche gol, sono uno che vede la porta. E mi piace far giocare gli altri, che, come sa chi conosce il calcio, è la soddisfazione più grande in una squadra». Il bilancio definitivo che lei fa dopo questo braccio di ferro con l'Europa? «Non ci siamo sottomessi. E abbiamo posto le basi per crescere. Pensi che tutti i conti sono parametrati con lo spread a 270. Il che vuol dire che ogni punto che scende liberiamo risorse utili per il Paese».
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