Il povero maggiore Eugenio Marmorale è uscito dalla commissione Covid intontito dalla guerra che l’opposizione ha provato a fargli pur di salvaguardare il buon nome dell’ex commissario straordinario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri e dell’allora premier Giuseppe Conte. L’ex comandante della terza sezione del Gruppo tutela del risparmio del Nucleo speciale di polizia valutaria, probabilmente, non poteva immaginare che i commissari dei 5 stelle, il notaio di Conte, Alfonso Colucci, e Ylenia Zambito, e il dem Francesco Boccia, lo avrebbero torchiato sino a quando non fossero riusciti a estorcergli una dichiarazione utile alla causa. Una vera e propria «torsione del pensiero», per dirla con Colucci, che di questa malapratica ha accusato tutti dentro all’Aula meno che se stesso. C’è chi ha ricordato all’ufficiale, con lo stesso tono di chi ti dà un consiglio che non si può rifiutare, che avrebbe potuto non accettare l’invito in commissione.
Che poteva attendere l’esito del processo che ha portato alla sbarra i famosi mediatori della maxi commessa da 800 milioni di mascherine cinesi risultate in gran parte difettose o, comunque, non conformi. Un affare da 1,2 miliardi di euro che ha garantito oltre 200 milioni di provvigioni, tra quelle incassate e promesse. Il corpo a corpo è iniziato con il classico mezzogiorno di fuoco. Infatti alle 12 passate da poco è partita la diretta tv e i commissari dell’opposizione hanno provato a far slittare la seduta dopo la fine del processo penale. La tesi era questa: il maggiore Marmorale con la sua deposizione rischia di intralciare il corso della giustizia ordinaria dal momento che il procedimento è ancora in fase di udienza preliminare e il gup ha chiesto un parere alla Corte costituzionale sul reato di traffico di influenze. Anche Grazia Volo, l’avvocato di uno dei principali indagati, l’ex responsabile unico degli approvvigionamenti Antonio Fabbroccini, ha voluto esprimere le sue perplessità sui «potenziali conflitti che possono scaturire dalle anticipazioni di temi processuali in sedi diverse dal giudice naturale».
Addirittura le opposizioni hanno scritto ai presidenti di Camera e Senato per denunciare che il lavoro della commissione «sta degenerando in uno strumento di bassa propaganda elettorale». La maggioranza ha replicato, con il capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che la commissione non va alla ricerca di reati penali, ma vuole capire che cosa sia successo nei terribili giorni dell’Italia chiusa per lockdown. «Noi non ci sostituiamo ai tribunali e i tribunali non devono sostituirsi alla commissione» è stata la dura presa di posizione. E quando l’opposizione ha chiesto di poter sentire la Volo in aula, Bignami ha domandato: «Perché chiedete di sentire l’avvocato?». E ha chiesto se i commissari, con il loro lavoro, fossero funzionali alla difesa di qualcuno. E quel qualcuno aveva nome e cognome. «Che cosa si vuole nascondere? Più ci chiedete di fermarci più andiamo avanti» ha scandito l’esponente di Fdi. Da quel momento Marmorale, per circa due ore, ha illustrato puntigliosamente una relazione di circa 30 pagine, suddivisa in quattro focus: i «rapporti interpersonali emersi e i ruoli dei principali soggetti indagati», in particolare tra i mediatori della commessa, capitanati dal giornalista Mario Benotti (defunto durante il processo) e dal consulente nel settore della Difesa Andrea Vincenzo Tommasi; «l’esame delle altre offerte pervenute alla Struttura commissariale e la comparazione con le commesse oggetto di indagine»; «la disanima delle certificazioni e l’esito degli esami di laboratorio»; «la ricostruzione delle provvigioni incassate in relazione alle commesse oggetto di indagini».
Nel primo capitolo l’ufficiale ha trattato un tema che deve avere fatto accapponare la pelle dei commissari dell’opposizione. I quali hanno strepitato e alzato barricate alla sola idea che in quell’aula potessero essere lette intercettazioni e chat che coinvolgevano il loro idolo Arcuri. «È gravissimo!» hanno urlato gli esponenti del centrosinistra. Costringendo l’incredulo Marmorale a chiedere più volte di interrompere le riprese video e di andare in audizione segreta, anche se il materiale trattato è già depositato in un processo ed è stato oggetto di numerosi articoli. Il maggiore ha citato due chat. La prima è quella intercorsa tra Benotti e Arcuri a partire dal 19 luglio 2017. Non deve stupire l’antica consuetudine tra i due, dal momento che lo stesso Arcuri, in un interrogatorio, ha ammesso di avere iniziato a frequentare il giornalista nel 2014, quando l’ex commissario era a capo di Invitalia, l’agenzia per lo sviluppo del governo, e Benotti era già ben introdotto nei palazzi del potere attraverso una filiera a forti tinte dem: «Le ragioni per le quali lo conosco hanno a che fare con la sua collocazione all’interno dello staff del ministro delle Infrastrutture Graziano Del Rio, il cui capo di gabinetto era il dottor Mauro Bonaretti. […] Venni a sapere che questo signore ha consuetudine con staff ministeriali molto antica, essendo stato parte dello staff del ministro dell’Agricoltura Paolo De Castro e del sottosegretario Sandro Gozi […]. Aggiungo che il signor Benotti mi fu presentato come il professor Benotti, una persona particolarmente vicina alla segreteria di Stato Vaticana». Questo signore è l’«ufficiale di collegamento» con Palazzo Chigi, ai tempi in cui era abitato da Conte, anche se poi i rapporti con la Cina sono stati gestiti da altre figure da B movie: un rivenditore di cannabis, un negoziante cinese e un banchiere fallito. I primi due hanno trovato i consorzi che hanno procurato le mascherine, il terzo si è occupato della logistica.
Ma torniamo a Benotti e Arcuri. «Dalla messaggistica in esame» scrive Marmorale, «resasi più frequente a partire dal mese di ottobre 2019, si intuisce che i due interlocutori si sarebbero incontrati spesso di persona, utilizzando, per fissare i loro appuntamenti, frasi confidenziali con riferimenti alla “preghiera” e definendosi, in tali conversazioni, Benotti come “monsignore” e Arcuri come “un parroco” o “destinatario”. Proprio in tali conversazioni, tra l’altro, vi sono riferimenti anche ad incontri avvenuti di persona tra i due e all’invio di proposte alla Struttura commissariale relative a dpi reperite da soggetti in contatto con il Benotti». Questo fitto scambio si interrompe improvvisamente il 7 maggio 2020, quando (è la versione di Benotti) Arcuri sarebbe stato avvertito che qualcuno aveva acceso un faro (forse i servizi segreti) su quell’affare miliardario. Nella sua relazione, il maggiore cita pure una seconda chat, denominata «New Alitalia», creata da Tommasi nel 2018, da cui «è emerso, tra l’altro, come Benotti comunicasse agli interlocutori la prossima nomina di Arcuri quale Commissario per l’emergenza, con pieni poteri su “emergenza e acquisti”».
Su questo punto i rappresentanti della maggioranza, in particolare la capogruppo di Fdi Alice Buonguerrieri, hanno insistito per sapere se le indagini abbiano registrato un contributo della cricca nella stesura del Dpcm di nomina di Arcuri. Marmorale ha, poi, virato sulle offerte di dpi pervenute al Commissario e in gran parte ignorate. Parliamo di oltre 500 proposte inviate da aziende italiane e, persino, dalle nostre ambasciate ad Abu Dhabi, in Brasile o in Corea del Sud. Qui è iniziata una guerra di posizione tra destra e sinistra. La prima ha cercato di far emergere come le mascherine cinesi, oltre che difettose, fossero più care di molte altre. Il fronte progressista ha schierato la contraerea con un solo obiettivo «cavare» dal finanziere una dichiarazione assolutoria nei confronti di Arcuri. Per diversi minuti gli esponenti del centrosinistra hanno cercato di far dire al militare che Mimmo non aveva dissipato denaro pubblico e che le altre offerte, in realtà, non erano più convenienti.
Boccia, con l’aria un po’ annoiata del professore in mezzo agli scolaretti, ha provato a rincitrullire i presenti con gli acronimi Cif e Fob, ovvero le offerte con o senza trasporto e assicurazione. Il tutto per sostenere che le mascherine che apparivano più economiche, in realtà avevano costi nascosti. Ma se questo poteva essere vero per i dpi effettivamente acquistati dalla Presidenza del Consiglio, non valeva per la totalità delle offerte. Anzi. Come hanno dimostrato chiaramente le tabelle allegate alla relazione.
Per quanto riguarda le certificazioni farlocche, la Buonguerrieri ha citato una chat di gruppo, in cui venivano inoltrate le comunicazioni di Fabbroccini, il braccio destro di Arcuri. Messaggi in cui il funzionario «suggeriva come rimediare alle falsità riscontrate nelle certificazioni», come se «facesse parte del gruppo» dei fortunati mediatori, ha osservato sempre la deputata di Fdi. O digitava frasi confidenziali come questa: «Se c’è una sola virgola fuori posto abbiamo scherzato». Di fronte a questi rilievi, Marmorale ammette le sue perplessità: «Quantomeno singolare il tenore di questi messaggi». Un’altra battaglia politica è esplosa di fronte all’incredibile valore delle provvigioni. Quelle complessivamente maturate avrebbero superato i 200 milioni di euro, mentre quelle di cui è stato accertato l’incasso in Italia e in Cina ammontano, invece, a 75 milioni. Ma anche in questo caso l’opposizione, con Colucci in prima linea, ha chiesto al finanziere di confermare che non c’è prova di una conoscenza da parte di Arcuri di queste commissioni milionarie. Il notaio grillino ha addirittura accusato l’ufficiale di usare a sproposito termini come «intermediazione», dal momento che a suo avviso i mariuoli non avevano intermediato proprio nulla con la struttura commissariale. Ma Marmorale ha confermato che quei soldi erano il premio per il traffico di influenze illecite, ovvero per l’accesso garantito da Benotti dentro a Palazzo Chigi. Ecco allora che Colucci & c. sono ripartiti all’assalto: il finanziere, stremato, ha dovuto ammettere che Arcuri era la «vittima» di quegli approcci.
Mancava solo la beatificazione di un uomo che ha fatto spendere allo Stato 1,2 miliardi per mascherine difettose. Non è finita. Pd e 5 stelle hanno tentato persino di avvalorare la balzana tesi (che Marmorale, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto sposare) secondo cui i 200 milioni di provvigioni pattuite non avrebbero inciso sul costo dei dpi. Ma è chiaro anche a un bambino che, se i margini di guadagno erano tali da poter garantire quel tipo di «fee», il prezzo era gonfiato. Ma questo, dem ed ex grillini, non accettano che si dica, anche se l’imprenditore cinese che gestiva i contatti con Pechino si muoveva per accaparrarsi le commesse già prima della nomina di Arcuri e nelle comunicazioni sequestrate si vantava di decidere lui il prezzo delle mascherine. Alla fine dell’audizione il presidente della commissione Marco Lisei riassume la giornata: «Oggi sono state portate riscontri e prove oggettive su alcuni fatti: ci sono persone che hanno lucrato milioni e milioni per vendere all’Italia mascherine che poi sono state in gran parte sequestrate perché inidonee o dannose; erano pervenute offerte che la Gdf ha riscontrato più convenienti; tra alcuni attori c’erano rapporti nati dalla politica. Questi sono fatti oggettivi, poi ognuno deciderà in autonomia se ci fosse o meno buona fede nell’affidare quelle commesse, a prescindere dall’esito dei procedimenti penali». Quindi tira le orecchie alle opposizioni per il trattamento riservato al maggiore Marmorale: «Francamente non posso accettare, motivo per il quale sono intervenuto, che si manchi di rispetto alle forze dell’ordine».







