2019-04-07
Il Bambino è la ferita letale del mondo gender
Per il pensiero dominante, che imprigiona i gay in una categoria sociologica, il sentimento è un tabù. La poetessa lesbica Marina Cvetaeva prese sul serio l'amore individuando nella maternità negata il dolore più grande. Una profondità scomparsa dalla galassia Lgbt.Sappiamo ancora parlare d'amore? È abbastanza sconvolgente ogni volta che ci si imbatte in descrizioni o scritti passati sui sentimenti e i rapporti amorosi, notare la maggiore profondità rispetto a quelli di oggi, peraltro abbastanza rari. Ora si parla molto di sesso, di diritti, di «genere», ma pochissimo d'amore. Curiosamente poi il discorso diventa ancora più povero quando riguarda gruppi sociali che ufficialmente sono sulla bocca di tutti, e in cima alle preoccupazioni dell'intero mondo progressista: le donne e gli omosessuali. In questi casi l'aspetto affettivo ed emotivo scompare proprio del tutto dietro alle categorie sociologiche dell'eguaglianza, dei diritti, delle opportunità, delle quote, delle rappresentanze. E le donne, loro, chi sono, come e chi amano? Che dire poi delle donne che si amano, le lesbiche che oggi con la loro lettera «L» iniziano l'acronimo della potente Lgbt: che sentimenti hanno, cosa provano, come ne parlano? Con la scusa di non offenderle o discriminarle, nessuno se ne occupa, iscrivendole d'autorità nell'agenda di questo o quel gruppo politico e girando alla larga dal sentimento. Che è poi il vero tabù del nostro tempo vociante di scienze, tecniche e diritti; tutte categorie iperrazionali e molto lontane dal cuore e da uno sguardo che non sia fisso allo schermo del computer o smartphone. È uscito in questi giorni un libricino azzurro che proprio di tutto ciò parla: Sulle Amazzoni, della straordinaria poetessa russa Marina Cvetaeva e della scrittrice americana Natalie Clifford Barney, a cura di Valeria Viganò (Iacobelli editore). Da queste pagine si misura tutta la distanza che separa il rozzo e affettivamente scarico dibattito di oggi, solennemente sponsorizzato da tutti i potenti della terra, Nazioni Unite comprese, dalle profonde e autentiche riflessioni umane di queste anticonformiste figure intellettuali di un secolo fa. La Cvetaeva, di un'importante famiglia della cultura moscovita, era fuggita dalla rivoluzione comunista con tre figli piccoli, e aveva raggiunto la comunità degli esuli russi a Parigi. Qui era stata introdotta da un'amica nel salotto della scrittrice americana Natalie Clifford Barney, che aveva iniziato nell'artistico Quartiere latino degli incontri letterari frequentati dallo scrittore Rodin, i poeti Rainer Maria Rilke, Ezra Pound, Thomas Stearns Eliot, Gertude Stein, e gran parte degli altri artisti e creatori dell'epoca. L'elegante e ricca Natalie Clifford Barney, lesbica già allora ammirata e senza complessi, fece dono alla poetessa russa del suo libro Pensieri di un'Amazzone (le mitiche figure di donne nomadi a cavallo che affascinavano a quel tempo un immaginario in cerca di maggiore libertà), in cui esponeva i suoi pensieri sul femminile e sull'amore tra donne. Marina (che amava donne e uomini) ricambiò affidandole le sue poesie e manoscritti inediti, sperando che Natalie li presentasse a qualche suo amico editore, come il potente Gallimard. Era piena di speranze, sia per il fascino e il prestigio di cui godeva la bella americana, sia perché lei non aveva più un soldo, ma scarpe sfondate e tre bimbi da mantenere. Non si sa se Clifford Barney lesse mai i manoscritti di Marina; comunque li perse. Cvetaeva, sensibile, ne rimase comprensibilmente ferita. E dopo un po' di tempo scrisse per lei, in un francese perfetto, la Lettera all'Amazzone, uno dei documenti più profondi sulla psicologia femminile e sull'omosessualità tra donne. Una dimostrazione, anche, di un aspetto poco presentato nei discorsi sulle donne (per non parlare del manierismo attuale), ma ben noto a chi le ama e lavora con loro: la straordinaria e franca violenza di cui sono capaci nei loro rapporti, e la profondità delle ferite che si infliggono. Marina lo dichiara subito: «Ascoltatemi, non c'è bisogno che mi rispondiate. Dovete solo ascoltarmi. È una ferita dritta al cuore quella che vi procuro, al cuore della vostra causa, del vostro credo, del vostro corpo, del vostro cuore». Dove mirava la pugnalata della poetessa? A una lacuna, un «buco nero», presente in tutta la «teoria delle Amazzoni» (comunque molto più solida dell'inconsistente «teoria del genere» che entusiasma i progetti finanziari dei miliardari di oggi), pur se scritta già cent'anni fa, e naturalmente molto meglio. «Questa lacuna, omissione, questo buco nero, è il Bambino». Marina Cvetaeva svelava così con la propria intuizione poetica il centro problematico, la ferita nascosta dell'omosessualità femminile (e in modo più superficiale e diverso anche di quella maschile). Marina sa già che alla sua rivelazione Natalie obietterebbe sprezzante che: «gli amanti non hanno figli», affermando il privilegio della passione su quello della riproduzione. E fa notare: «certo, però muoiono. Tutti: Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta» e tutti gli altri, che elenca. Amanti che «non hanno tempo per l'avvenire che il bambino rappresenta, non hanno figli perché non hanno futuro, hanno soltanto il presente, che è il loro amore, e la morte sempre immanente». Amanti che sono loro stessi bambini, e, ricorda Cvetaeva con una sintesi ironica che di cui la psicoanalisi non sarà mai capace: «i bambini non hanno bambini». Impossibile trovare nulla di così fulmineamente autentico e profondo in tutta la noiosa e fumosa letteratura sulle identità di genere, furiosamente finanziata da tutte le istituzioni culturali occidentali. Certo, i poteri economici del mondo moderno hanno poi intuito che il Bambino era l'oggetto del desiderio nascosto di tutte le infelicità correnti, le scorciatoie onnipotenti, le sperimentazioni sessuali e i rispettivi vuoti, e hanno naturalmente trovato le soluzioni: la generazione artificiale, il commercio di sperma, ovuli, uteri, e bambini. Ma non sono soddisfacenti. C'è un veto che non le consente. È vero, notava già allora la Cvetaeva, che né Dio, né la Chiesa, né lo Stato sono seriamente interessati a intervenire sui «nostri sbandamenti sessuali». È però: «la natura che dice no. Non per amor nostro, ma per difendersi, per amore di sé stessa, per odio di tutto ciò che non sia natura». È per questo programma naturale, e perché il bambino desiderato viene dal corpo dell'altro, che è da lì, dal rapporto con l'altro sesso, che lo aspettiamo. Non tutti, certo. Anche Marina Cvetaeva sa che esiste «la ragazza depravata, per istinto o per moda: la creatura del piacere», pronta a qualsiasi sperimentazione. Ma si tratta, scrive a Natalie (che su questo è probabilmente d'accordo) di un «caso banale, sempre trascurabile» rispetto alla storia vera, quella di Saffo, Gesù Cristo, Maria di Nazareth, e tutto quanto ne è seguìto e seguirà. Per Natalie Clifford Barney, invece, il bambino è solo «l'inizio della vecchiaia» della coppia, omo o eterosessuale: per questo non ne vuole sapere. E tuttavia, per entrambe, come per la maggior parte di coloro che oggi, cent'anni dopo, si affrontano sui temi della vita e della famiglia, dietro relazioni serie o cartelli trash in un romanesco che farebbe impallidire di rabbia Pier Paolo Pasolini, il Bambino è ancora la grande questione. Ed è anche l'unico che può aiutarci a risolverla.
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