Tredici calzaturifici al mese appendono le scarpe al chiodo

Il settore calzaturiero è protagonista della moda globale. Brand francesi, americani e inglesi producono i propri accessori in Italia. Eppure non riesce a rialzarsi dalla crisi. Dal 2012 a giugno 2016, secondo una ricerca svolta da Assocalzaturifici per La Verità, 712 aziende calzaturiere hanno chiuso, passando da un totale di 11.607 a 10.895.

Calcoli alla mano, significa che in soli quattro anni e mezzo ha chiuso i battenti il 6,13% del settore con una media di 158 aziende chiuse l'anno, tredici al mese. Una mattanza che ha avuto anche ripercussione sul piano occupazionale: dai 98.368 addetti del 2012 si è passati ai 95.821 di giugno 2016. In poche parole, 2547 operatori del settore hanno perso il lavoro. La regione più colpita da questa crisi è sicuramente quella delle Marche, area in cui, secondo Assocalzaturifici, nel 2015 si trovava il 32,3% delle aziende, circa un terzo di tutte quelle presenti sul territorio italiano.

Dal 2012 a giugno 2016 in questa regione sono finite a gambe all'aria 252 aziende calzaturiere (nel 2012 erano 3754 mentre a giugno erano 3502). La seconda regione più colpita è la Toscana, area in cui si trova (dati 2015) il 20,1% delle aziende del settore. In questo caso, si è passati dalle 2355 aziende del 2012 alle 2185 di giugno 2017 con 170 compagnie che hanno abbassato la serranda. E non va meglio in Veneto (119 aziende chiuse dal 2012), in Lombardia (-36), in Emilia Romagna (-31) e in Puglia (-43). Nel resto d'Italia, dove il settore calzaturiero è meno presente, in quattro anni e mezzo hanno chiuso 61 realtà. L'unica nota positiva è che non tutte le società che hanno chiuso hanno smesso di operare nel settore. Alcuni imprenditori, concluso un progetto, sono ripartiti con una nuova avventura dando comunque una seconda chance ad alcuni che avevano perso il proprio impiego. Oppure c'è chi ha venduto l'attività a gruppi con maggiori capitali come nel caso di Lario 1898 e Lorenzo Banfi in Lombardia o della Bruno Magli di Bologna, tutte cedute a fondi di investimento. Ad ogni modo, la crisi nel settore è palpabile. Non a caso, Assocalzaturifici chiede un abbassamento delle tasse allo scopo di far ripartire un settore in cui è in corso «un inevitabile fenomeno di migrazione e di consolidamento dei player più grandi a scapito delle aziende più piccole» perché «il mantenimento della forza lavoro è un elemento assolutamente strategico per la sopravvivenza e lo sviluppo dei distretti».

Il problema, infatti, sembra essere proprio questo. «È la fascia media quella più colpita dalla crisi», spiega Giacomo Fioravanti, titolare della Fratelli Borgioli, piccola azienda di Vinci, in provincia di Firenze, che produce scarpe intorno alle 350-400 euro al paio. «Non è un problema di soldi», dice, «il denaro per le calzature firmate dalle grandi case di moda c'è ancora, così come c'è quello per le scarpe dai 50 ai 99 euro. La mia azienda, ad esempio, offre un prodotto di fascia alta paragonabile a quello di brand nazionali ed internazionali molto più conosciuti del mio, e ai quali fornisco io stesso le scarpe. Il problema è che oggi è molto difficile far emergere un prodotto di qualità se non appoggiato da notevoli investimenti. In Toscana, ad esempio, noi oggi abbiamo pochi clienti che ci distribuiscono quando prima ne avevamo molti di più», spiega. In poche parole il mercato si sta contraendo attorno a un ristretto numero di società che produce scarpe molto economiche (dai grandi numeri) oppure di alta gamma (e dal prezzo elevato). E le aziende medio-piccole più fortunate, un tempo in grado di avere un proprio marchio, oggi lavorano all'interno della filiera produttiva delle gradi griffe. Chi non è riuscito a entrare in questo meccanismo, con gli anni, è stato costretto a chiudere. «Noi non sentiamo la crisi», sottolinea Jean-Baptiste Barthes, direttore operation di Manifattura Berluti, società del gruppo Lvmh a Ferrara. «Cinque anni fa avevamo circa 80 dipendenti e oggi siamo in 220. Ma non si diventa un brand che opera nel lusso da un giorno con l'altro, servono investimenti per poter offrire prodotto, servizio e un certo stile. Noi ci appoggiamo anche ai grandi artigiani che lavorano in Toscana, nelle Marche e in Veneto. Il problema per noi è che trovare artigiani di qualità è sempre più difficile, per questo abbiamo creato un'accademia di formazione interna». E quello che preoccupa di più è che, almeno per ora, l'emorragia del settore non sembra destinata a finire. Secondo l'ultima nota congiunturale di Assocalzaturifici aggiornata a settembre 2016, le società italiane del settore con un trend negativo hanno superato la metà (57%), con un 20% del campione che ha limitato la perdita entro i tre punti percentuali mentre il 10% denuncia flessioni marcate superiori ai 10 punti percentuali. «La colpa è anche della svalutazione del rublo che ha tolto potere d'acquisto ai russi, clienti su cui molti calzaturifici italiani hanno sempre fatto affidamento», spiega Massimo Martinoli, presidente del calzaturificio Cesare Martinoli Caimar che produce scarpe da donna di lusso su licenza delle grandi firme. «Inoltre», dice, «lo sviluppo del canale internet ha colpito i grandi magazzini, soprattutto in negli Stati Uniti, tra i maggiori clienti di questo settore». Ma c'è anche chi non soffre: secondo i dati di Assocalzaturifici, il 26% delle aziende calzaturiere italiane ha dichiarato una sostanziale stabilità mentre un incoraggiante 17% ha perfino avuto un aumento dei livelli produttivi.

«Forza Italia non fa favori a Mediolanum»
Massimo Doris (Imagoeconomica)
Secondo la sinistra, Tajani sarebbe contrario alla tassa sulle banche perché Fininvest detiene il 30% del capitale della società. Ma Doris attacca: «Le critiche? Ridicole». Intanto l’utile netto cresce dell’8% nei primi nove mesi, si va verso un 2025 da record.


Nessun cortocircuito tra Forza Italia e Banca Mediolanum a proposito della tassa sugli extraprofitti. Massimo Doris, amministratore delegato del gruppo, coglie l’occasione dei conti al 30 settembre per fare chiarezza. «Le critiche sono ridicole», dice, parlando più ai mercati che alla politica. Seguendo l’esempio del padre Ennio si tiene lontano dal teatrino romano. Spiega: «L’anno scorso abbiamo pagato circa 740 milioni di dividendi complessivi, e Fininvest ha portato a casa quasi 240 milioni. Forza Italia terrebbe in piedi la polemica solo per evitare che la famiglia Berlusconi incassi qualche milione in meno? Ho qualche dubbio».

«Oggi nell’Ue non ci sono le condizioni per togliere l’unanimità in Consiglio»
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».


Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».

La sinistra si batte per dare gli appartamenti popolari agli stranieri senza lavoro
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.


In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.

Henry Winkler racconta le follie del passato in «Una storia pericolosa»
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.

Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.

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