
Prima di lasciare l'istituto, il professore della Bocconi ha aumentato i compiti del capo della segreteria tecnica. Potrà decidere gli ordini del giorno e valutare persino le attività del dg. Tempi duri per i commissari.«L'Inps deve fare il suo lavoro e non fare politica. Questo è l'invito che abbiamo fatto ai commissari e a tutti». Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Stefano Buffagni, ieri rispondeva a chi gli chiedeva se auspicasse un cambio nella strategia dell'istituto di previdenza, dopo la nomina dei Commissari Pasquale Tridico e Francesco Verbaro. «In questo momento è fondamentale garantire la sostenibilità dell'ente e delle pensioni per tutti gli italiani, ma sopratutto gestire al meglio i versamenti dei giovani che sono un problema a cui bisogna dare risposte», ha concluso Buffagni a margine di un convegno. Quando l'uomo delle nomine dei 5 stelle parla di continuità, sembra farlo a ragione veduta. Nelle settimane precedenti alle scadenze di mandato, i contatti tra 5 stelle e Tito Boeri sono stati numerosi. Luigi Di Maio ha più volte difeso il bocconiano dagli attacchi di Matteo Salvini. L'asse Boeri-Di Maio è sicuramente servita a gestire il parto del reddito di cittadinanza. Alleanza che ha permesso a Boeri di portare avanti continuamente attacchi a quota 100, la norma di chiara impronta leghista. Tridico, al di là delle sue capacità, è in parte frutto di tale alleanza che comporta una serie di incarichi a cascata. Il primo pranzo del padre del reddito di cittadinanza in Inps è stato consumato giovedì. Al tavolo con Tridico c'era Luciano Busacca, dirigente di seconda fascia e segretario personale del presidente Inps.Con la riforma Boeri, targata 2017, ha fatto il salto di qualità: promosso a dirigente di prima fascia nella Segreteria unica tecnico normativa. L'altro ieri al tavolo con Tridico vantava di fatto una stelletta in più sul grado di generale. Boeri, prima di lasciare l'incarico, ha definito i perimetri delle competenze dell'ufficio guidato da Busacca. E praticamente ha scelto il dirigente come delfino, assegnandogli superpoteri. Superiori, nei fatti, a quelli del direttore generale. E di conseguenza di qualunque sub commissario. Dal documento si evince che il capo della direzione centrale della segreteria unica cura la convocazione dei dirigenti, elabora i documenti di analisi e di studio anche comparativo avvalendosi delle altre strutture centrali e territoriali e assicura le funzioni di osservatorio legislativo anche in merito alla produzione normativa a livello europeo e internazionale. Nel dettaglio, tra le prerogative dell'ufficio c'è il compito di «coordinare le attività connesse alle funzioni del presidente, curando in particolare la predisposizione dell'ordine del giorno». Un particolare non da poco. In pratica, il prescelto da Boeri potrà esercitare i poteri del numero uno e coordinare tutti i direttori centrali. Tradotto: le funzioni in taluni aspetti superano quelle del direttore generale. Per il solo fatto che dovrà fare da ufficiale di collegamento «con con gli organi di governo, con i ministeri competenti e con gli enti pubblici». Non solo spetterà sempre a Busacca svolgere funzioni di raccordo per la definizione delle scelte finalizzate al conseguimento dei risultati della gestione complessiva delle risorse di competenza del direttore generale». Se non dovessero esserci interventi bruschi, con tali deleghe anche Gabriella Di Michele dovrà accettare un inquadramento defilato. Al contrario ci sarebbe da spettarsi le faville dentro l'Inps, e non la continuità con la gestione precedente. Di problemi ce ne sono a iosa. A dirlo è stato il numero uno del consiglio di indirizzo e vigilanza dell'istituto a seguito di una lunare intervista di Boeri a Repubblica. «La cosa che più lascia perplessi», ha detto Guglielmo Loy, «è la dicotomia tra quello che si afferma sui media è quello che si approva come il “Modello di distribuzione dei servizi e delle attività produttive in funzione Utentecentrica". Ebbene, nelle premesse del documento (firmato dal presidente dell'Inps) con il quale si intende avviare la sperimentazione di un nuovo modello si afferma, con nettezza, che si è in presenza di un «peggioramento dei tempi di effettiva erogazione delle prestazioni» e di una «relazione con gli utenti dispersiva, a basso valore aggiunto e scollegata dalla produzione». E ancora «disorientamento degli utenti e uso incontrollato della multicanalità» e, se non bastasse, si riscontra una «dicotomia front office / back office oppure divario tra capacità produttiva e valore percepito dagli utenti». Boeri si era vantato invece di infiniti successi, contraddicendo le sue stesse delibere. Di fronte a una denuncia così netta, si chiedeva pochi giorni fa il numero uno del Civ, «quale dovrebbe essere la priorità per chi dirige un istituto che ha come mission l'erogazione di prestazioni a grande valore sociale?». Domanda retorica. I cittadini chiedono ai nuovi vertici di ripartire da tali errori per non ripeterli. Non certo per seguire le stesse impronte del professore della Bocconi.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».