2020-02-27
Non si affossa la più grande nostra azienda per appagare gli appetiti di uno Zingales
L'economista, che vuole la presidenza, attacca l'ad Descalzi perché a processo per corruzione. La tangente fantasma però è stata smentita dai testimoni dell'accusa e non è stata trovata neanche da inglesi e americani. E il cambio danneggia il cane a sei zampe.Da giorni è in atto una battaglia senza esclusione di colpi attorno al cane a sei zampe. L'Eni è la più grande azienda nazionale, con 33.000 dipendenti diretti in Italia (oltre 70.000 considerando l'indotto), un fatturato di circa 77 miliardi e un utile di 4,6. Ovvio dunque che faccia a gola a molti, i quali sul gigante che fu di Enrico Mattei monterebbero volentieri. Tra coloro che aspirano alla comoda sistemazione c'è Luigi Zingales, economista trasferitosi alla Università di Chicago ed ex consigliere di amministrazione indipendente dell'Eni in anni passati. Noto per aver fondato, insieme con Oscar Giannino, un partito che si chiamava Fermare il declino, oggi l'illustre docente si accontenterebbe di fermare la riconferma di Claudio Descalzi alla guida dell'Eni, con la probabile intenzione non di prenderne il posto, come qualcuno ha ipotizzato, ma di conquistare la presidenza dell'ente. Per questo da giorni è in atto una campagna che mira a evitare che l'amministratore delegato resti sulla sua poltrona, auspicando un ricambio generale dei vertici.Contro il numero uno del gruppo pesano non tanto i risultati, che sono eccellenti, ma un processo per corruzione internazionale che lo vede coinvolto a Milano. La vicenda riguarda un giacimento petrolifero in Nigeria di cui l'Eni ottenne nel '98 la concessione. Secondo i pm, pur di vederselo assegnato, il gruppo pagò una maxi tangente da 1 miliardo all'allora ministro del petrolio nigeriano; di qui le accuse ai manager del cane a sei zampe, Descalzi compreso. La faccenda di questa mazzetta a dire il vero è piuttosto controversa, perché nonostante i magistrati la inseguano da anni, la sua esistenza è tutt'altro che certa. O meglio: il pagamento esiste, ma non c'è alcuna prova che si tratti di un versamento illegale, visto che è stato fatto al governo nigeriano per la concessione del giacimento e non a un privato. E a dirlo non è l'Eni, ma gli investigatori inglesi e americani, che su questa storia hanno voluto vederci chiaro. Sia gli uni che gli altri sono arrivati alla medesima conclusione, ovvero non sono riusciti a trovare nulla che costituisse un reato. Tuttavia, nonostante i mastini di Sua Maestà e quelli a stelle e strisce abbiano mollato l'osso, venendolo pure a spiegare ai giudici italiani, la Procura di Milano ha tirato diritto, insistendo nella convinzione che qualcuno abbia oliato gli ingranaggi del maxi affare. Così nei mesi scorsi sono sfilati in tribunale diversi testimoni a supporto dell'accusa, con effetti in qualche caso esilaranti. Il primo teste, che avrebbe dovuto testimoniare di aver visto caricare i milioni su un piccolo jet, si è presentato dicendo di non saperne nulla. E mentre un perito aeronautico dimostrava che la montagna di dollari, a bordo di un velivolo del genere, sarebbe pesata tanto da non consentire all'aereo di prendere il volo, ecco spuntare un altro nigeriano in grado di svelare i segreti della gigantesca truffa. Siccome alla Corte cominciavano a girare gli zebedei per l'improvvisa comparsa di testimoni oculari i cui occhi non avevano visto niente, il nuovo asso nella manica della Procura alla fine è stato lasciato nel mazzo. Dopo qualche altro giorno ecco però comparire un terzo uomo pronto a giurare sull'esistenza della mazzetta. Questa volta i giudici - su pressione dei pm - hanno acconsentito ad ascoltare l'ennesimo uomo chiave. Il nigeriano a dire il vero si è fatto un po' attendere, rinunciando a presentarsi il giorno in cui era convocato, ma quando ha varcato la soglia dell'aula giudiziaria anche quest'ultimo - un generale in pensione - ha raccontato di essere all'oscuro dei soldi, negando perfino di conoscere le persone che, secondo l'accusa, avrebbe dovuto vedere. Insomma, il castello di accuse è franato e allora, per sorreggerlo, è ricicciata la storia di un avvocato che sarebbe stato imbeccato per depistare le indagini: un riciclo avvenuto pochi giorni prima che il legale finisse in gattabuia, a scontare i suoi giorni per una faccenda di sentenze pilotate.Insomma, una storia torbida, che però rischia di intorbidire i conti del più grande gruppo italiano. Zingales dice all'Espresso che Descalzi ed Emma Marcegaglia (la presidente alla quale ambirebbe di soffiare il posto) devono fare le valigie, perché lo Stato non può pensare solo al profitto, ma anche al bene degli africani. Dice così perché negli ultimi anni l'ente, oltre ad aumentare la produzione di barili, ha fatto lievitare gli utili, toccando nel 2018 i 10 miliardi, il 25 per cento in più del precedente esercizio. Tuttavia, per il docente che vuole fermare i vertici del gruppo, guadagnare e fare andare bene l'azienda non è sufficiente, bisogna essere anche immacolati e candidi come gigli e dunque un avviso di garanzia o un'imputazione, che finora non si è tradotta neppure in una condanna di primo grado ma non si esclude che possa tradursi in un proscioglimento, dovrebbe rendere innominabile chiunque, anche il manager di uno degli ultimi colossi rimasti all'Italia.Perché Zingales è giustizialista, tanto giustizialista che, se fosse stato per lui, l'Eni avrebbe dovuto pagare 1 miliardo agli Stati Uniti per uscire da un'inchiesta da cui invece alla fine è stata prosciolta. Sì, fosse per lui, che con Descalzi ha il dente avvelenato, il cane a sei zampe si dovrebbe mettere a cuccia, perdendo quote di mercato e lasciando campo libero a francesi, inglesi e americani eccetera. Come ha fatto Finmeccanica, i cui vertici vennero indagati e arrestati per corruzione internazionale, salvo poi essere assolti dall'accusa di corruzione internazionale. Forse Zingales, che è spalleggiato anche da un'interrogazione parlamentare di Leu e da articoli di giornale, vorrà anche fermare il declino, ma a noi basta che qualcuno fermi lui e il tentativo di scalata all'Eni. Di aziende ne abbiamo poche e quelle poche ci piacerebbe salvarle senza che finissero involontaria preda di stranieri e dei loro giochi.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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