2021-11-02
I pm scrittori aggiustano la storia in libreria
Antonio Ingroia e Nino Di Matteo (Ansa)
L'ultimo capitolo della saga dei magistrati con un romanzo nel cassetto lo firma Nino Di Matteo. Nella sua fatica letteraria riscrive la sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Come da anni fanno i suoi colleghi, dalla Ilda Boccassini a Piercamillo Davigo, nei loro discutibili amarcord.Altro che Assalto alla giustizia, come da volume del 2011 dell'ex procuratore Gian Carlo Caselli. Qui piuttosto si assiste all'assalto alle librerie da parte dei giustizieri togati, che cambiato mestiere o avuto accesso al vitalizio, aprono i cassetti dei ricordi o sputano sentenze come fossero ancora in un'aula di tribunale.Un tempo i magistrati dovevano limitarsi a essere la bouche de la loi, la bocca della legge, parlando per acta, cioè attraverso gli atti giudiziari. Oggi «la bocca» è diventata quella dei magistrati stessi e «la legge» quella del mercato editoriale, perché si esprimono con i libri. Firmati da sé medesimi, con autoreferenziale egocentrismo, o a quattro mani con un «complice», di solito un giornalista «addetto ai lavori». O ai livori. Una vera e propria corrente letteraria (come l'ha definita un trattarello, Il tocco e la penna. Ovvero dei giudici-scrittori, che già nel 2005 aveva radiografato il fenomeno), che non incentiva la divulgazione scientifica di temi attinenti al diritto. No: promuove, ripulendola o migliorandola, l'immagine degli stessi autori. Un'epidemia pari solo a quella della produzione dei virologi, che dopo aver invaso la tv stanno dilagando sugli scaffali, reali o virtuali, con le loro opere. Ultimo capitolo: il nuovo libro intervista del consigliere del Csm Antonino Di Matteo, reduce sul campo dalla sconfitta in appello dove è stata ribaltata la sentenza di condanna in primo grado degli imputati nel processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia, basata sul suo teorema accusatorio («Ma nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo», si assolve comunque lui). Titolo del pregevole manufatto: I nemici della giustizia, che - chi l'avrebbe mai detto - «sono tanti». Di Matteo ci tiene a dire la sua sulla riforma Cartabia, sulla separazione delle carriere tra giudici e pm (cui è contrario, mentre non spende una parola su quella, davvero mefitica, tra pm e giornalisti), sull'«ora più buia» nella storia della magistratura. Però. E come mai sarebbe tale? «Perché i mali diffusi come metastasi nel corpo della giustizia sono il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera, la gerarchizzazione degli uffici di Procura, il collateralismo con la politica». Maddai, sai la novità, verrebbe da replicare: tale vulnus era già stato evidenziato da Giovanni Falcone, e se trascorsi 30 anni i magistrati sono ancora qui a discettare delle stesse problematiche qualche domanda sulla loro categoria dovrebbe pure porsela. Finale stentoreo, con cui Di Matteo chiama a raccolta tutti gli indignados: «Dobbiamo indignarci e non nascondere la verità». Alè.Di Falcone si è tornati a parlare di recente, grazie al libro La stanza numero 30 di Ilda Boccassini soprattutto per la parte in cui Ilda la Rossa svela alcuni particolari sulla natura del suo rapporto con Falcone medesimo attinente a una sfera, per dir così, «extraprofessionale». Confessioni che le hanno attirato più censure che applausi, da Maria Falcone («Sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto, anche della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, e che - ne sono certa - avrebbero vissuto questa violazione del privato come un'offesa profonda») a Maurizio Costanzo, che Falcone lo ebbe ospite nel suo show («Ci sono cose che è meglio tenere per sé»), rispetto alle quali ha fatto parzialmente ammenda: «Ho giurato, quando sono andata all'obitorio, che non avrei mai consentito che qualcuno potesse distruggere l'immagine di Falcone. Se questo libro in qualcuno ha creato questo meccanismo allora vuol dire che ho fallito nell'impresa». In attività, passati ad altri incarichi, pensionati: i magistrati (o ex) possono resistere a tutto tranne che alla tentazione di raccontare - dispensando soluzioni per curare gli atavici mali della giustizia - ma soprattutto di raccontarsi. Con pentimenti e revisionismi (tardivi). Allora ecco Il sistema di Luca Palamara, cui pochi giorni fa in un confronto pubblico, quando ha sostenuto di aver avvertito l'esigenza di realizzare «un'operazione verità dal di dentro, per squarciare il velo di ipocrisia che regna nella corporazione», non ho potuto non sottoporre un mio dubbio: «Se non l'avessero “beccata", avrebbe comunque smesso di fare quello che le riusciva molto bene (trattare e mediare sulla lottizzazione di nomine e posti)?». Nel suo libro sono peraltro citati tanti colleghi che si sono esibiti nella scrittura. Il già capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone, che ha vergato il pamphlet Fare giustizia. Piercamillo Davigo, il cui nome compare sul frontespizio di almeno sette volumi, e perfino in calce alla prefazione di Favole alla sbarra. Processo ai buoni e cattivi dei cartoni animati, imputati: Peter Pan, Robin Hood, il Gatto e la Volpe, Crudelia Demon. Antonio Ingroia, che nel frattempo si è perso ne Il labirinto degli dei (dei che sarebbero gli stessi siciliani, nel ritratto che ne fa Il Gattopardo: «I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti»). Nicola Gratteri (ne ha firmati una ventina, sempre in tandem con Antonio Nicaso). Luciano Violante (almeno 25, secondo Wikipedia, tra cui Magistrati del 2009, sulla cui copertina brilla l'aforisma di Francis Bacon: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono»). Il citato Caselli, anch'egli con una ventina di titoli negli anni. Luigi De Magistris, che di pubblicazioni ne ha all'attivo solo tre, anche lui alle prese con un assalto, Assalto al pm, cioè sé medesimo. E naturalmente Antonio Di Pietro, Il guastafeste come da titolo di uno dei suoi 12 libri.Fermiamoci qui. Non senza evidenziare un dettaglio non marginale: i libri li scrivono sempre i magistrati che hanno rappresentato la pubblica accusa. Gli inquirenti, insomma, non i giudicanti. Perché? Come mai di norma ci ricordiamo nomi, pensieri, parole, azioni e omissioni dei pm, le loro inchieste - prima e dopo Mani pulite - ma sono latitanti le pubblicazioni dei giudici? Ovvio: perché nel nostro sistema bacato, in cui i processi si fanno prima sulla stampa, in tv o in Rete, e poi nelle aule di tribunale, sono i nomi dei titolari delle inchieste a essere citati a tormentone, incentivando il culto delle loro personalità e vanità. Sono loro, con i loro giornali e giornalisti di riferimento, a dar vita al circo mediatico giudiziario. Per poi magari prenderne le distanze, talvolta con l'occhio umido, nei loro sbianchettanti amarcord letterari.
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