
Per il tycoon il vero «parassita» è chi ha accumulato un surplus esorbitante con gli Usa, grazie agli squilibri creati in Europa a nostro danno. Ecco perché sui dazi l’Italia deve negoziare separatamente.Si può dire, senza passare per servo di Trump, che il presidente americano quando dice che gli europei sono «parassiti» non ha tutti i torti? Oppure va a finire come nei mesi successivi all’invasione russa, quando qualsiasi perplessità sulle decisioni europee a sostegno dell’Ucraina veniva etichettata come un favore a Putin? Se può servire a non essereclassificato per uno schiavo al servizio di Donald Trump dirò che il video su Gaza, con lui e Netanyahu sulla spiaggia, faceva schifo: un insulto ai morti palestinesi e israeliani, la banalizzazione di una guerra che invece richiederebbe molta serietà. Però sulla questione dei rapporti fra Usa e Ue, l’inquilino della Casa Bianca ha molte ragioni.Innanzitutto, chiariamo una cosa. Se il nuovo presidente americano dice che gli europei sono parassiti, chi c’era prima di lui li ha chiamati scrocconi, ma nessuno all’epoca pare essersi scandalizzato troppo. Ovviamente, Barack Obama non è Trump: lui, essendo democratico, nero e politicamente corretto ha potuto dire tutto senza che a Bruxelles, ma neanche a sinistra, facessero un plissé. E però il fatto che a distanza di anni entrambi i commander in chief abbiano detto la stessa cosa dovrebbe far riflettere. Perché la Casa Bianca pensa che gli europei campino alle spalle degli americani? Forse, da storici alleati, gli Usa sono diventati nemici? La risposta è semplice: gli Stati Uniti ce l’hanno principalmente con la Germania. Un po’ anche con la Francia e la Gran Bretagna, che ai tempi di Gheddafi li trascinarono in guerra, convincendoli a partecipare alle operazioni militari per cacciare il rais, ma soprattutto il loro obiettivo è Berlino. A irritare l’America è il surplus commerciale tedesco, un problema che va avanti da oltre vent’anni, cioè da quando più o meno esiste l’euro. La Germania ha tenuto bassa la propria domanda interna e grazie alla moneta unica ha fatto crescere le proprie esportazioni, con saldi tutti a suo favore. In altre parole, mentre l’America pagava il conto della difesa europea con la Nato, i tedeschi si facevano gli affari loro, a scapito degli stessi Stati Uniti. Nel 2015 venne calcolato che l’avanzo commerciale di Berlino nei confronti degli Usa nei 13 anni precedenti avesse superato l’incredibile cifra di mille miliardi di dollari. E nei dieci anni successivi non è di certo andata peggio. In sostanza, la Germania, sfruttando la debolezza dell’euro, i salari bassi e riducendo gli investimenti, si è arricchita come nessun altro Paese al mondo, salvo la Cina. E ora Trump presenta il conto. A dire il vero gli americani non si sono svegliati adesso. Da parecchio tempo pensano a come riequilibrare la bilancia commerciale con un Paese ufficialmente alleato (anche se faceva affari con nemici come Cina e Russia). In un rapporto del dipartimento del Tesoro che risale al 2017 si attaccava senza troppi giri di parole il dumping valutario della Germania, mettendo nel mirino la politica economica tedesca e le furbizie che le avevano consentito di diventare una potenza con forti relazioni commerciali con gli avversari degli Stati Uniti. Grazie all’euro, considerato una specie di marco sottovalutato del 10 o del 20 per cento (ma sopravvalutato per tutti gli altri Paesi europei, Italia compresa, così da limitarne la concorrenza), la locomotiva tedesca ha corso a rotta di collo per vent’anni. E che il problema fosse proprio la politica di Berlino in America lo si sa da tempo, al punto che già durante la sua prima presidenza Trump sull’allora Twitter scrisse: «The Germans are bad, very bad». Che cos’è cambiato in tutti questi anni? Niente. Fino a prima che Putin invadesse l’Ucraina, i tedeschi hanno continuato imperterriti, impoverendo il resto d’Europa e arricchendosi. Ora però, come si diceva, Trump non solo vuol far pagare agli europei il conto della Nato, ma intende riequilibrare la bilancia commerciale che pende a favore di Berlino. E qui viene il problema: di fronte alle intenzioni dell’America, l’Europa a trazione tedesca dice che la Ue deve restare unita. Cioè: quando c’era da guadagnare la Germania faceva da sé, ora che c’è tutto da perdere l’Unione dovrebbe reagire senza divisioni. È evidente anche a un bambino – nonostante quello che dice Mattarella – che noi avremmo tutto l’interesse a trattare direttamente con gli Stati Uniti la questione dei dazi. Condividere la sorte con gli altri Paesi europei sarebbe un suicidio. Ma per poter agire nell’interesse nazionale servirebbero dei partiti e delle istituzioni che non fossero succubi di ciò che si decide a Bruxelles o a Berlino.
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Parla Gaetano Trivelli, uno dei leader del team Recap, il gruppo che dà la caccia ai trafficanti che cercano di fuggire dalla legge.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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