
Gli arrestati nell'operazione anti terrorismo condotta fra Lombardia e Sardegna gestivano più società attive soprattutto nel campo dell'edilizia. Il presunto capo ha partecipato ai lavori del G8 alla Maddalena.I presunti terroristi in giacca e cravatta passavano le loro giornate tra i cantieri e la moschea. Con società e cooperative facevano affari e fatturavano: costruzioni, lavori di manutenzione, movimento terra, pavimenti, impianti elettrici, ma anche compravendita di auto. Poi, oltre a fare i broker con il sistema dell'hawala (un meccanismo finanziario in stile medievale basato sull'onore) e a occuparsi di traffico di migranti, si autotassavano e finanziavano la causa terroristica siriana. Una realtà che smentisce le teorie secondo le quali i jihadisti sono spinti solo da povertà e esclusione sociale.Stando alle indagini dello Scico della Guardia di finanza e della polizia di Stato, hanno raccolto circa 2 milioni di euro in denaro contante, principalmente da cittadini siriani che vivevano in Italia, Svezia e Ungheria, per trasferirlo ai connazionali in Austria, Germania, Olanda e Danimarca, ma anche in Turchia, Libano e direttamente in Siria. Nella galassia entro cui orbitavano i sostenitori economici dei foreign fighter, come La Verità è in grado di svelare, ci sono almeno 13 imprese iscritte alle Camere di commercio italiane e gestite dagli indagati dell'inchiesta delle Procure di Brescia e di Cagliari che l'altro giorno ha portato all'arresto di 12 persone (mentre una è ancora latitante). Tra questi c'era Anwar Daadoue, un siriano che, prima di trasferirsi in Svezia dove, passando per indigente, ha ottenuto anche dei sussidi statali e che è considerato il capo della cellula terrorista sarda, a Olbia era un pezzo grosso delle costruzioni. Ha lasciato l'Italia dopo l'incidente di percorso alla Maddalena, dove si scoprì che nei grandi lavori per il G8 una delle sue ditte, la Anwar costruzioni srl, faceva lavorare migranti sottopagati e irregolari. Nell'altra impresa del siriano, la Sim costruzioni srl (capitale sociale da 10.000 euro e volumi d'affari da 800.000), compare un altro personaggio finito nell'inchiesta che ha spezzato l'asse sardo-lombardo degli sponsor che dall'Italia mandavano soldi a Damasco: si chiama Lahouchine Ait Wahmane, è un marocchino ed è socio al 50% (l'altro 50% è di Anwar). Per gli investigatori è un uomo della «cellula sarda» ed è molto vicino ad Anwar. Tanto da coadiuvarlo anche negli affari. Interrogando il registro delle imprese si scopre che è anche l'amministratore di una cooperativa: la Smeralda coop di produzione e lavoro, nata nel 2015, con un paio di addetti alle dipendenze e sede sociale indicata in uno stabile di viale Aldo Moro a Olbia. Oltre a occuparsi di forniture e prestazioni edilizie, compra e vende fondi agricoli e terreni demaniali su cui poi costruire. La terza impresa di Anwar, la Dack costruzioni srl, nella quale Ait Wahmane ha il 25%, vede entrare nella compagine sociale anche un altro «compare» di jihad: Subhi Chdid (anche lui al 25%), sposato con un'italiana e, secondo l'accusa, «intermediario di Anwar, in attuazione delle sue disposizioni, con il sistema hawala effettuava con lui servizi finanziari di pagamento tra cui, in particolare, una prestazione consistente nella consegna a Beirut della somma di denaro contante di 108.000 euro». Si occupava di reclutare autisti italiani per la rotta balcanica dei migranti. Ma era anche l'intermediario, tramite la sua personale società con sede in via Zara a Ponte Lambro, provincia di Como, per l'acquisto dei pick up per i trafficanti di migranti. Nello stesso business, e stando ai dati della Camera di commercio, anche nella stessa sede di via Zara a Ponte Lambro, si era buttato Mulam Shadad, custode del denaro che veniva gestito tramite hawala e, per gli investigatori, uomo di Anwar. Ragione sociale: compravendita di veicoli leggeri.Da Bergamo invece, e più precisamente da Bottanuco, un altro degli indagati, il marocchino Hakim Ahmed, che nell'inchiesta è considerato il custode, cassiere del denaro e operatore intermediario hawala del gruppo lombardo, fino a qualche anno fa gestiva una ditta individuale di commercio all'ingrosso di abbigliamento e accessori. Ma la gran parte degli imprenditori del giro di Anwar aveva interessi nel suo indotto: le costruzioni. Lo stesso settore che, curiosamente, fece la fortuna anche della famiglia Bin Laden. E dalla più grande alla più piccola impresa, tutti gli uomini di Anwar hanno tentato di infilarsi nel redditizio affare del mattone. Mustafa Aboudahir, ad esempio, a Erba, sempre in provincia di Como, aveva messo su una società che reclutava muratori, prima di diventare, come sostengono gli investigatori, intermediario e procacciatore d'affari hawala. Proprio come Mouyad Ahmad Said e Abdulrahman Daher Abou, anche loro a Erba alle prese con la manovalanza da edilizia. Il primo fino alla chiusura della ditta nel 2013. Poi, stando alle accuse, è diventato assistente factotum di Anwar. Il secondo ha solo registrato l'impresa e non ha mai avviato l'attività. Nell'inchiesta è un broker di hawala. Il parchettista, esperto nei rivestimenti di pavimenti, era Youssef Chaddad (sede a Ponte Lambro e con un dipendente). Iscritto alla Camera di commercio come piccolo imprenditore, per la Procura era in realtà un operatore e cassiere di hawala. Come Abdulkarim Haj Osman da Sassari. Prima di finire nel network finanziario del terrorismo internazionale targato Anwar si occupava di attività non specializzate di lavori edili. Bassa mano d'opera, la manovalanza alla quale poi attingevano anche le ricche imprese di Anwar.
Ansa
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