2020-06-01
I magistrati sono un partito
e lo ammettono loro stessi
Le conversazioni sembrano quelle di un comitato centrale dove non prevalgono le logiche della legge, del merito, della competenza e dell'esperienza, ma gli interessi e il tornaconto di chi siede ai vertici.In questi giorni molti lettori mi scrivono. Sono italiani arrabbiati per come il governo sta affrontando la crisi economica provocata dal coronavirus, ma anche indignati per ciò che sta emergendo dall'inchiesta di Perugia in cui è coinvolto l'ex capo dell'Anm, Luca Palamara. Non mi stupisce che in tanti siano disgustati per «il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare eventi» (la sintesi tra virgolette di quanto è successo non è mia, ma del capo dello Stato). A sorprendermi sono le lettere e i messaggi che mi inviano gli stessi giudici, i quali mi manifestano rabbia e nausea per gli intrighi di cui si sono resi protagonisti i loro stessi colleghi. Certe toghe da anni si riempiono la bocca con l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, ma oggi si scopre che partecipavano a «un miserabile mercimonio con ciniche pratiche correntizie», un «indegno tradimento del patrimonio di coraggio e fiducia» lasciato da Falcone e Borsellino (qui la sintesi di ciò che è accaduto è di David Ermini, uno che è stato eletto vicepresidente del Csm grazie a un patto tra le correnti). Sì, sono tanti i magistrati che in questi giorni mi scrivono e anche se non li conosco credo che siano la punta di un iceberg. Già, io penso che siano centinaia, anzi migliaia, le toghe che sono sconcertate quanto noi nel leggere che cosa si dicono i capi corrente dell'Anm. Per la prima volta, grazie a un'inchiesta giudiziaria, ma se permettete grazie soprattutto alla rottura della congiura del silenzio di cui va dato merito ai cronisti della Verità, si stanno scoprendo cose che nessuno, neppure la maggioranza di magistrati che fanno con scrupolo il loro mestiere, poteva immaginare. Mentre tanti pm si applicavano su inchieste difficili anche a prezzo di un rischio personale, mentre altre toghe lavoravano senza sosta per non affogare in una giustizia civile che ogni giorno minaccia di trasformarsi in ingiustizia perché il cittadino non riesce a far valere i propri diritti, i rappresentanti sindacali della categoria si davano da fare per ottenere vantaggi personali, avanzamenti di carriera, stoppare i «nemici» e costruire un loro personale potere. La loro preoccupazione non era l'amministrazione della giustizia, ma come amministrare un tornaconto per sé e per i propri amici organizzando, se del caso, anche iniziative politiche, come quella ad esempio sollecitata lo scorso anno dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, contro Matteo Salvini, reo di aver stoppato lo sbarco dei migranti e per questo finito nel mirino delle Procure.Ma se già il vaso di nequizie era colmo, dal pozzo senza fondo dell'inchiesta di Perugia spuntano altre intercettazioni da cui si capisce che la preoccupazione dei vertici dell'Anm e dei capi delle correnti sindacali non era come far funzionare meglio i tribunali, come evitare che i processi si prescrivessero, come garantire che gli innocenti ottenessero giustizia e i colpevoli una condanna. No, le preoccupazioni principali riguardavano Berlusconi e Salvini. Nelle conversazioni, le toghe si arrabbiavano quando qualcuno provava a dire che nei confronti del Cavaliere era stata adottata ingiustamente la retroattività di una legge. E anche se quel qualcuno era un pm che aveva rappresentato l'accusa in uno dei processi proprio contro il leader di Fi andava emarginato. Ma il cruccio dei giudici più recentemente era Salvini, che a prescindere dal merito delle accuse contro di lui, andava contrastato e chi aveva dubbi veniva tacciato di «deviazionismo» salviniano e berlusconiano, proprio come si faceva ai tempi del vecchio Pci. Ecco, a leggere le frasi che si scambiavano i dirigenti dell'Anm, sembra di stare in un comitato centrale di partito, dove le logiche non rispondono alla legge, ma alla politica e le scelte non sono dettate dal merito, dalla competenza, dall'esperienza, bensì dalla convenienza.Altro che riformare il sistema con cui si elegge il Csm. Qui un gruppo di magistrati si è fatto forza politica e come tale si muove, tenendo conto non della legge ma del consenso che può derivare o meno da una decisione. In quelle discussioni via chat non c'è nulla che abbia a che fare con la giustizia, ma tutto che si riconduce alla politica. I leader delle correnti si muovono come leader politici, intervenendo dietro sollecitazione di un vicepresidente che si sta candidando con il Pd a governare una Regione, tappando la bocca a chi si permette di non criticare sempre e comunque un esponente di centrodestra. Sì, sono molti i magistrati che si indignano nel leggere queste frasi. Ma se le toghe che fanno con imparzialità il loro lavoro vogliono porre fine a questo sistema, ora devono aprire bocca e farsi sentire. I giudici che fanno politica sono certamente una minoranza. Ma lo fanno in nome di chi lavora in silenzio. Come ai tempi della maggioranza silenziosa, serve una presa di posizione che spazzi via anni e anni di rappresentazione della magistratura. I giudici non sono quelli che si scambiano favori. I giudici sono quelli che rifiutano le correnti, le appartenenze e anche le scorciatoie per fare carriera. Se un italiano cercasse di agevolare una nomina o un incarico in un posto pubblico, gli potrebbe capitare di finire indagato per traffico di influenza, abuso d'ufficio, falso, turbativa d'asta e altro. Perché per un magistrato dev'essere diverso?