2021-08-10
I fondi all’estero al centro della lotta sull’eredità Agnelli
Margherita Agnelli. Sullo sfondo il padre Gianni (Getty Images)
Inchiesta a puntate della «Verità» per ricostruire la battaglia iniziata con le accuse di Margherita contro la madre Marella.Com'era prevedibile, la morte di Marella Agnelli ha aperto una nuova grande «guerra di successione» tra Margherita Agnelli e suo figlio John per mettere le mani sull'enorme patrimonio della scomparsa, in gran parte all'estero dato che si trattava di quello lasciatole in eredità dal marito Gianni e di cui la defunta era entrata in possesso nel 2004 dopo aver «sistemato» la cose con sua figlia. Alla morte della madre, il ragionamento della figlia era stato molto semplice. Partendo dal fatto che Marella nel corso della propria vita non aveva mai avuto beni e redditi propri, men che meno derivanti dallo scarso patrimonio della famiglia Caracciolo, e nemmeno rendite personali se non quelle «elargite» dal marito e «controllate» dai «custodi» Gabetti e Grande Stevens, come era possibile che la defunta avesse lasciato un patrimonio immenso in gran parte custodito in paradisi fiscali? Era stata lei (e come aveva fatto?) ad accumulare nel corso del tempo una simile fortuna e a vederla moltiplicare dopo la morte del marito, oppure si trattava di una serie di donazioni fatte dal defunto prima della propria morte e avute dalla moglie fuori dal testamento e quindi in grandissima parte «sottratte» all'altra erede, cioè la propria figlia? Per caso queste eventuali «donazioni» erano state perfezionate nel periodo prossimo alla morte dell'Avvocato, e quindi al di fuori dei limiti temporali previsti dalla legge (sei mesi prima della scomparsa) e anche in misura superiore al consentito (cioè ben oltre la quota «disponibile») e revocabili su richiesta degli eredi? Margherita sapeva o credeva di conoscere i tempi e le circostanze in cui sua madre era entrata in possesso di quella ingente quantità di beni. Non si trattava di donazioni o trasferimenti di denaro né di cambi di intestazioni di titoli o quote azionari. No, sarebbe stato tutto molto più semplice. Gli investigatori di Margherita avevano raccolto una serie di elementi che li avevano portati a una conclusione sconcertante. Per trasferire l'intero patrimonio di Gianni Agnelli, o di gran parte di esso, ci sarebbe stato stato bisogno solo di una paginetta di poche righe in fondo alla quale c'era una ormai irriconoscibile firma dell'Avvocato. Anzi di uno spezzone del suo nome e cognome. Com'era già avvenuto pochi mesi prima, settembre 2002, per la donazione dei quadri di Gianni alla Pinacoteca, alla viglia dell'inaugurazione della stessa. Gli investigatori avevano avanzato, non si sa con quale grado di attendibilità, l'ipotesi che pochi giorni prima della morte di Gianni, nel tardo pomeriggio di una domenica di gennaio del 2003 (e quindi presumibilmente il 13 o il 20 gennaio, dato che Agnelli è morto venerdì 24), cinque auto fossero salite a Villa Frescot a breve distanza temporale l'una dall'altra per l'operazione chiave per la destinazione definitiva del patrimonio Agnelli al di fuori del testamento. Sulle rispettive vetture sarebbero arrivati due dipendenti di uno studio notarile, che dovevano fungere da testimoni, e lo stesso notaio. Dentro la villa ad attenderli ci sarebbero stati donna Marella, affiancata da Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Il notaio aveva già predisposto una «procura generale» di poche righe che conferiva a Marella un potere assoluto sui beni del moribondo, almeno quelli in Italia. Al di là delle forme e delle condizioni fisiche di Gianni Agnelli (era in grado di intendere e di volere?), gli investigatori di Margherita sostenevano di aver raccolto una testimonianza che racchiudeva un particolare molto rilevante: uno dei due testimoni che avrebbero dovuto presenziare all'atto e alla firma affermava che essi non erano stati nemmeno fatti entrare nella camera di Gianni Agnelli. Erano stati fatti attendere in una sala adiacente dato che là erano entrate solo quattro persone. Anche le due infermiere erano state fatte uscire. I due testimoni, in sostanza, non avrebbero potuto, come previsto dalla legge, presenziare alla lettura dell'atto né assistere al momento più importante, e cioè la firma da parte di Gianni Agnelli. All'uscita dalla camera - secondo la testimonianza -si sarebbero limitati a «ubbidire» apponendo la loro firma. Chissà se questa versione è vera o meno. Questo è quanto Hurner ha raccontato a Margherita non si sa allegando quali prove e soprattutto quale testimonianza. Un dato appare certo: basta andare alla prefettura di Torino e consultare il fascicolo della Fondazione Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. Si potrà notare come la firma di Gianni Agnelli in calce alla donazione dei suoi quadri nel settembre 2002 sia molto diversa dall'originale. L'ingente patrimonio di cui disponeva la madre negli ultimi anni, secondo la figlia, rappresentava la «cassa nera» entrata nella disponibilità della madre alla morte di Gianni Agnelli nel gennaio 2003 o nei mesi di poco precedenti la morte. Nel corso del tempo Marella, oltre ai proventi dell'accordo di Ginevra, aveva potuto contare su alcuni asset «liberati» dalla morte del marito e di cui poteva disporre personalmente: ad esempio, il ricavato della vendita all'asta dell'appartamento di New York e di alcuni arredi di quel prezioso duplex al 770 di Park Avenue, altre rendite immobiliari legate all'alienazione di alcune proprietà a Parigi, ma ufficialmente niente di più. D'altro canto, invece, Marella nei suoi ultimi 16 anni aveva dovuto sostenere ingenti spese di mantenimento per le proprietà in Italia, in particolare per Villar Perosa, per la villa di Saint Moritz, per il riad di Marrakesh in Marocco, per l'ex convento di Alzipratu in Corsica. Senza parlare dei costi per il personale di servizio e per l'assistenza sanitaria. E infine per l'acquisto della sua nuova residenza svizzera a Samaden. Ne deriva che - secondo la figlia - fino alla propria morte, Marella aveva potuto contare su una enorme quantità di beni racchiusi in conti esteri e beneficiare di colossali rendite derivanti da un patrimonio mai emerso. Ciò significa, secondo Margherita, che, senza informarla, sua madre si era appropriata di ciò che apparteneva al defunto e quindi per metà anche a lei, dato che tali somme avrebbero dovuto essere divise a metà tra le due legittime eredi. Sempre secondo la figlia, Marella Caracciolo si sarebbe dunque prestata - consapevolmente o meno - alle manovre di coloro che l'hanno guidata nella lunga vertenza per l'eredità. E, alla fine, avrebbe volutamente danneggiato l'altra legittima erede impedendole di avere conoscenza di tutte le informazioni che contribuivano a determinare l'entità globale della massa successoria. Tutto ciò sarebbe dimostrato dalle pressioni, dagli ostacoli, dalle resistenze, dalle condizioni, dalle clausole che sono state imposte a Margherita per impedirle di conoscere tutte le informazioni riguardanti il patrimonio del padre, la distribuzione degli asset nei vari conti bancari, le rendite annue, le società estere, i nomi degli amministratori delle fondazioni, delle stiftung, delle anstalt, delle finanziarie, le generalità dei beneficiari e degli intestatari. Per arrivare a questo le sarebbero stati nascosti documenti conservati nel «family office» di Zurigo, la cassaforte personale dei segreti finanziari di Gianni Agnelli. Su ordine di chi Siegfried Maron e Ursula Schulte, i due «responsabili» della struttura finanziaria svizzera, avrebbero agito contro una delle due eredi? Tale condotta avrebbe avuto un altro fine, secondo la figlia: costringerla a privarsi delle quote della Dicembre e delle azioni dell'Accomandita, trasformando tali asset in denaro e inglobandoli nella somma finale dell'accordo transattivo, al fine di estrometterla dalla Fiat facendole credere che era conveniente liberarsi di quei pacchetti.Margherita aveva sempre nutrito il sospetto di essere stata tenuta all'oscuro di gran parte dei segreti di suo padre. Temeva che Gabetti e Grande travalicassero il loro ruolo di «consiglieri» o di «amministratori» o di «protectors» («protettori») come era scritto in alcune delle poche carte che Margherita era riuscita a scoprire, gran parte delle quali era stata proprio la «controparte» a farle avere facendole credere che non aveva nulla da nascondere e che gliele avesse consegnate generosamente, per dimostrare buona fede, o facendo in modo che credesse di essere stata lei a scovarle. Margherita, nel corso della trattativa, densa di aspetti a tratti paradossali, durata quasi un anno per venire a capo del patrimonio estero di suo padre, aveva messo a fuoco alcuni «sospetti» che, con il passare degli anni, a suo avviso erano stati confermati dai fatti anche vedendo su quale immenso patrimonio sua madre potesse contare. La figlia era arrivata a sospettare anche di un doppio gioco dei propri avvocati e pensava di non non essere stata difesa né tutelata, cadendo ingenuamente in una serie di tranelli orditi dalla controparte, nel silenzio e nella mancanza di reazione dei propri legali, attraverso l'abile condotta di Carlo Lombardini, che, scelto da Grande Stevens e ispirato da Gabetti (che controllava anche i due «dioscuri» del family office), guidava le danze in nome e per conto di Marella.Margherita, nel momento stesso in cui firmò quell'accordo così faticosamente raggiunto, aveva manifestato i propri sospetti. Al punto che scrisse di suo pugno in francese le sue perplessità sull'ultima pagina di quell'accordo transattivo: «J'accepte, par gain de paix, de regler definitivement la succession de mon pére conformément a cette proposition tout en précisant qu'a mes yeux certains chiffres ne sont pas confirmés a la realité». Vale a dire: «Accetto, per motivi di pace, di risolvere definitivamente la successione di mio padre in conformità a questa proposta, chiarendo che ai miei occhi alcune cifre non sono conformi alla realtà». È una frase che servirà a Margherita per sostenere che la sua volontà era stata in qualche modo «coartata», nonostante fin da allora pensasse che le cifre indicate su quell'accordo non fossero reali. Da quel momento questo aspetto marchierà indelebilmente gli avvenimenti successivi e farà sorgere nuovi dissapori. Margherita credeva di essere stata «fregata». Aveva firmato solo «per motivi di pace», illudendosi che quel gesto rendesse possibile la fine delle ostilità. Invece ne era l'inizio. (1. Continua)
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco