Margherita Agnelli: «Non sono reali le cifre del testamento». Giallo sulle case parigine
Non è vero, come sostiene il suo ex avvocato Emanuele Gamna, che Margherita Agnelli fosse soddisfatta del duplice accordo che le era stato sottoposto dopo la morte del padre al termine di un anno di trattative sulla «spartizione» del patrimonio all’estero di Gianni Agnelli tra le due eredi, la vedova e la figlia. Lo conferma la postilla autografa che Margherita appone in calce al documento intitolato «Proposta accettata» che fu sottoscritto il 18 dicembre 2003 a Ginevra prima della stesura finale del febbraio successivo. Il testo dell’accordo comprende le varie assegnazioni dei beni alle eredi, indicate con le sigle MA e DM (Donna Marella, ovvero Marella Caracciolo). Margherita aggiunge di suo pungo questa nota in francese: «Accetto, per amore della pace di regolare definitivamente la successione di mio padre conformemente a questa proposta, precisando che ai miei occhi certe cifre non sono conformi alla realtà». Di seguito Margherita precisa due indicazioni: «Per il battello F100 se mia madre desidera che non sia venduto ella dovrà prenderne l’intera proprietà e compensarmi per questo». Secondo: «La proprietà dell’appartamento di Rue Fabre a Parigi e del suo contenuto deve essere chiarito e io voglio poterne divenire proprietaria se lo desidero nel corso del 2004 per la sua quota di valore».
Dunque Margherita non solo è convinta che «certe cifre non sono conformi alla realtà» ma ancora non sa che il secondo dei suoi desideri, l’appartamento nel centro di Parigi, in rue Fabert 46, nel VII arrondissement al margine dell’Esplanade des Invalides, nasconde un «inganno»: mentre lei ne opziona l’acquisto in caso Marella decidesse di venderlo, sua madre lo ha già venduto senza dirle nulla. Non solo ma ad acquistarlo sono stati John e Lapo Elkann, e anche loro non hanno detto nulla alla madre. Margherita lo scoprirà qualche anno dpo grazie alle indagini del suo investigatore Marc Hurner. Marella aveva venduto il 21 novembre del 2003, 75% a John, 25% a Lapo, al prezzo irrisorio di 350 mila euro contro un valore di mercato di almeno 1,5 milioni.
Altro che «per amore di pace». Dato che la proprietà dell’appartamento era intestata a una società del gruppo Exor France, come poteva Marella disporre a pieno titolo di quell’asset controllato dal marito? Nel patrimonio immobiliare di quella società c’erano altri sette appartamenti di grande pregio nel centro di Parigi: due in rue de Grenelle, tre in rue de la Comète, uno in Passage Jean Nicot e un altro in rue Fabert 48, nel palazzo accanto. Il controvalore era di una decina di milioni. Questi immobili, tra l’altro, non sono stati compresi nell’accordo di divisione tra le due eredi anche se, come si è visto, Marella era proprietaria di almeno uno di essi. Com’era possibile che lei disponesse liberamente di appartamenti che nominalmente appartenevano a una società del Gruppo ma che di fatto erano nella disponibilità del defunto? E gli altri sette di chi erano? Anch’essi della Exor? Quanti altri casi simili la madre aveva nascosto alla figlia? Intanto tra i rami della ex-royal family si registra una certa inquietudine. In particolare qualcuno ha cominciato ad avanzare il timore che Gianni Agnelli nel corso degli anni abbia «nascosto», oltre che alla figlia, anche ai soci-parenti somme che probabilmente in parte erano in qualche misura di loro spettanza in quanto titolari di quote della Sapaz (l’accomandita di famiglia). Non pochi tra i parenti sono portati a pensare che l’Avvocato a suo tempo abbia spartito bene i dividendi ma fatto i conti in maniera poco equa e solo a proprio vantaggio, vista l’entità dei suoi numerosi «tesoretti» all’estero. Di fronte a simili sospetti, in questi giorni si è tenuta una sorta di consultazione tra gli esponenti dei vari rami per parlare della situazione. John ha glissato sul punto, limitandosi a rassicurare tutti sul futuro: «Chi parla di un possibile terremoto al vertice del Gruppo Exor non si è studiato bene le carte». Ha puntato i fari sulla Giovanni Agnelli bv (la ex Accomandita che ora si chiama «Giovanni Agnelli BV», è domiciliata in Olanda e raggruppa tutti i rami del parentado) anche se da pochi mesi non ne è più presidente e si è fatto sostituire dall’avvocato olandese J.H.G. Preller, dello Studio NautaDuthil di Amsterdam. John ha ricordato che «la GA bv non si governa né col 43% della Dicembre e nemmeno col 51% del capitale, bensì solo coi due terzi del capitale rappresentato in assemblea». Per intenderci: «Per nominare il cda della GA ci vogliono i 2/3 del capitale. O, meglio, il board si autoperpetua e per scalzarlo al suo rinnovo sono necessari più dei 2/3 dell’assemblea».
Riferendosi alla madre John ha sottolineato che «chiunque si «impadronisse» della Dicembre dovrebbe fare i conti con una minoranza di blocco (33-34%)» che, secondo le sue certezze, «si formerebbe in un battibaleno e non consentirebbe a nessuno di toccare palla».
Alla testa di questa «linea di difesa» ci sarebbero, sostiene John, le famiglie Campello, Teodorani, Brandolini, Rattazzi. Quest’ultimo ramo, cioè gli eredi di Susanna Agnelli, è rappresentato da Filippo Scognamiglio Pasini, figlio dell’ex presidente del Senato e di Delfina Rattazzi, figlia di Susanna e sorella di Lupo Rattazzi. Nel board ci sono poi, per il gruppo Nasi-Ferrero: Nicolò Camerana (figlio di Vittorio e nipote di Laura Nasi) e Luca Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia (che è anche nipote di Clara Nasi), nominati dopo l’uscita di Alessandro Nasi, che John ha sostituito con l’avvocato olandese John C. Brouwer (dello Studio legale Allen & Overy). Il gruppo Campello è rappresentato da Benedetto Della Chiesa (figlio di Virginia Campello e nipote di Maria Sole Agnelli), mentre gli eredi di Clara Agnelli Furstenberg e poi Nuvoletti hanno scelto suo nipote Alexander von Furstenberg, uno dei due figli di Egon e di Diane Halfin. Un altro membro del board è Andrea Agnelli (in rappresentanza di sua madre Allegra e sua sorella Anna, con le quote che erano di Umberto Agnelli) ma John non sembra fare alcun affidamento su questo importante ramo al punto che non lo ha citato tra coloro che considera i suoi sette «pretoriani».
Probabilmente considerava Monte Carlo un posto da parvenu e per questo per tuffarsi in mare dall’elicottero o per rilassarsi tra i limoni e gli ulivi di villa Leopolda, preferiva spingersi una decina di chilometri più in là, verso Cannes. Tra Beaulieu e Villefrance-sur-mer.
Nel locale porticciolo turistico erano ormeggiati i suoi panfili, un’avveniristica barca a vela (Stealth) e un ex rimorchiatore, trasformato in natante di lusso (F100). E proprio questa passione per il mare ha fatto fare un passo falso a Gianni Agnelli, il quale ha lasciato agli eredi la spia dell’esistenza di un patrimonio fuori dall’Italia. Indizi a cui Margherita, la figlia ribelle dell’Avvocato, si è aggrappata come un naufrago a una zattera, per dimostrare ai magistrati che l’ipotesi di un tesoro occultato nei paradisi fiscali non era una fantasia. I primi sospetti li aveva destati il foglietto con la lista delle società offshore consegnata alla donna dal commercialista svizzero Siegfried Maron, il capo del family office di Zurigo che gestiva il patrimonio estero di Agnelli. A rafforzare i dubbi un bonifico da 109 milioni inviato da un conto sconosciuto della banca Morgan Stanley, rapporto su cui erano stati depositati nel tempo tra gli 800 e 1.000 milioni di euro.
Ma poi è arrivato il terzo indizio.
Una pista che in una richiesta di archiviazione firmata nel 2013 dai pm di Milano, i primi a occuparsi a livello penale dell’eredità contesa, era così sintetizzata: «L’esistenza di tre moli (numeri 25, 26 e 27) presso il porto francese di Beaulieu, notoriamente in uso all'avvocato Agnelli sin dagli anni Settanta e intestati a una finanziaria e a due società offshore metteva, nuovamente, in luce la disponibilità della famiglia Agnelli di schermi attraverso cui detenere beni celandone provenienza e titolarità».
Per arrivare a questa conclusione sono state utilizzate «le reiterate escussioni di Mark Hurner, cittadino belga consulente del collegio difensivo di Margherita Agnelli».
I magistrati elencano i paradisi fiscali che schermavano i reali proprietari dei posti barca: «Dalla documentazione raccolta, risultava che un molo fosse intestato alla Triaria investments limited, con sede in Jersey […] mentre gli altri due erano formalmente riconducibili alle società offshore Delphburn limited, con sede nell’Isola di Man, e Celestrina company limited, con sede in Jersey. La riconducibilità diretta dei tre moli all’avvocato Gianni Agnelli veniva altresì confermata dai figli di Achille Boroli (l’editore dell’istituto geografico De Agostini di Novara, ndr), persona che nel 2004 aveva rilevato i tre moli. Stando alle loro dichiarazioni, detti moli erano effettivamente in uso alla famiglia Agnelli a partire dagli anni Settanta». In una memoria presentata a Torino dagli avvocati di Margherita si leggeva: «Detti posti barche, unici nel loro genere perché destinati a ricevere imbarcazioni superiori ai 100 metri, erano utilizzati per ormeggiare lo Stealth, nel porto di Antibes, e l’F100 e il Vulture (il tender del rimorchiatore, ndr), in quello di Beaulieu, tutte barche utilizzate dal senatore Agnelli. Il valore degli ormeggi è stimabile in 2 milioni di euro. Gli ormeggi di Beaulieu […] sono stati venduti nel gennaio 2004 all’industriale italiano Achille Boroli. Quello di Antibes, intestato alla Rahal holdings limited, società delle Isole Cayman è stato venduto, sempre nel 2004, al principe del Bahrein sceicco Salman Bin Hamad Al-Khalifa».
Per poter ormeggiare le imbarcazioni nella marina amata dai Boroli era necessario acquistare, per ciascun molo, 40 azioni della Societè anonyme du Port de Plaisance de Beaulieu.
Hurner scoprì che a possedere le 40 azioni del molo 26, utilizzato per l’ex rimorchiatore, era la Triaria, ovvero la offshore collegata al celebre conto di Morgan Stanley associato all’Avvocato e di cui Hans-Rudolph Staiger, il professionista svizzero di cui si è servito Gianni Agnelli in numerose occasioni, era amministratore.
Titolare delle azioni di un altro dei moli usati da Agnelli era, come detto, la Delphburn, amministrata sempre da Staiger.
Il 25 febbraio 2004, ovvero una settimana dopo l’accordo successorio tra Margherita e la madre Marella, le azioni rappresentative di tutti e tre i moli vennero vendute da Triaria.
Il 21 novembre 2011, Pietro Boroli, uno dei figli di Achille, spiega agli inquirenti: «Dagli inizi degli anni Settanta frequento la località di Beaulieu, dove ogni tanto ho avuto modo di vedere anche il senatore Giovanni Agnelli, il quale ormeggiava tra le altre la barca F100 presumibilmente in uno dei moli 25, 26 o 27».
Il fratello Marco Emilio Boroli aggiunge: «Mio padre sapeva che i moli di Beaulieu, indipendentemente dalle intestazioni a società offshore o a fiduciarie, erano del senatore Giovanni Agnelli o comunque, per essere più precisi, erano da questi utilizzati».
La sua ricostruzione prosegue: «Preciso che detti moli furono acquistati nel 2004 da mio padre Achille attraverso trattative dirette con la signora Ursula Schulte di Zurigo, facente capo allo studio legale Staiger, Schwald e Roesle di Zurigo». La Schulte era la più stretta collaboratrice a Ginevra di Gianluigi Gabetti, storico consigliere dell’ex presidente della Fiat.
A detta di Boroli, dell’affare si occuparono anche altri professionisti vicini all’Avvocato, come Iwan J. Ackermann e lo studio legale di Herbert Batliner (gentiluomo di sua Santità) e Johannes Gasser, da cui provenivano i contratti di vendita, e società con base nei paradisi fiscali del Lichtenstein, di Tortola e di Guernsey.
Il testimone, in una nota consegnata alla Procura di Milano e stilata insieme con la più stretta collaboratrice del padre, la svizzera Carla Mazzoleni, aveva provato a ricostruire anche i pagamenti.
Le tre società offshore riconducibili ad Agnelli avrebbero incassato 466.000 euro l’una.
L’uomo raccontò anche che il bonifico venne effettuato da una società offshore della sua famiglia su un conto di un anstalt (speciale istituto giuridico) di Vaduz riferibile all’Avvocato. Un gioco di scatole cinesi da far venire il mal di testa e di cui oggi non resta traccia. Come ha confermato Marco Emilio Boroli ai pm: «Documenti non ve ne sono perché sono stati distrutti».
La figlia di Gianni, Margherita Agnelli, racconta la replica di Grande Stevens ai suoi dubbi sul testamento: «Mi scodellò un elenco di veicoli e motocicli dicendo: “Questo è il resto”». Da lì nacquero i primi sospetti e le successive azioni legali.
La presunta cassaforte torinese degli Agnelli, la P. fiduciaria, è il crocevia dell’inchiesta torinese per frode fiscale nei confronti di John Elkann e di due professionisti legati alla sua famiglia. La società, per l’accusa, schermerebbe fondi per 900 milioni di dollari e sarebbe «la sussidiaria italiana» della banca lussemburghese «Pictet & Cie Europe Sa», istituto specializzato nella gestione di patrimoni. Dopo l’ennesimo esposto di Margherita Agnelli, mirato a ottenere il riconoscimento della cosiddetta «legittima», la parte di eredità che le spetterebbe per la legge italiana, ma che, in buona parte, sarebbe rimasta occultata nei paradisi fiscali, nel luglio scorso gli uomini della Guardia di finanza hanno effettuato presso la P. fiduciaria un’ispezione antiriciclaggio che avrebbe dato i suoi frutti e portato alla scoperta di una delle società anonime del Liechtenstein riconducibili a Jaki.
Un corposo dossier, composto da decine di segnalazioni di operazioni sospette, è intanto finito sul tavolo del Servizio rapporti istituzionali di vigilanza di Bankitalia che potrebbe portare a nuove sanzioni. Infatti, se solo oggi inquirenti e media sembrano essersi accorti delle operazioni opache della P. fiduciaria, Palazzo Koch aveva già preso provvedimenti 5 anni fa, anche sulla base del decreto legislativo che aveva recepito la direttiva europea «relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e dei proventi del terrorismo». Il 23 aprile del 2019 la Banca d’Italia, nella persona del governatore Ignazio Visco, irrogò una sanzione di 30.000 euro per «carenze negli obblighi di adeguata verifica della clientela e di collaborazione attiva».
Ma torniamo alla guerra per l’eredità degli Agnelli. Molti dettagli della diatriba giudiziaria che i giornali stanno rilanciando con clamore, erano già presenti nelle carte dell’inchiesta penale avviata tre lustri fa a Milano per pagamenti in nero, tentate estorsioni e riciclaggio. I pm meneghini arrivarono a iscrivere sul registro degli indagati Siegfried Maron, il commercialista svizzero che avrebbe gestito per conto di Gianni Agnelli «le provviste immense» affidate a società e giurisdizioni offshore. I magistrati chiesero, per rogatoria, ai colleghi svizzeri di procedere all’interrogatorio di Maron «che appariva essere il principale responsabile dell’attività di riciclaggio». In realtà nel suo esposto del 19 novembre 2009, il cui contenuto è stato assorbito in quello presentato a Torino nel dicembre del 2022, Margherita aveva indicato come principali gestori del patrimonio nascosto, i due più fidati consiglieri del padre, l’avvocato Franzo Grande Stevens e il manager Gianluigi Gabetti. Il secondo si presentò ai pm spontaneamente per offrire, a suo modo di vedere, chiarimenti su un filone minore dell’inchiesta, mentre il primo non sarebbe mai stato chiamato a testimoniare. «Ha elementi per ritenere che Franzo Grande Stevens volesse negare a lei la conoscenza degli asset esteri riferibili a suo padre per occultare proprie eventuali indebite appropriazioni?» le chiese quasi spazientito un magistrato milanese. E Margherita, intimidita, rispose: «Non ho elementi. Anche se il sospetto mi pare legittimo». Ma nell’esposto aveva chiesto alla Procura di verificare «se nei fatti sopra esposti e documentati» ricorresse «il delitto di estorsione tentata e/o consumata - e/o altri - a carico dell’avvocato Franzo Grande Stevens». Nei suoi interrogatori e nell’ atto d’accusa consegnato agli inquirenti la figlia di Gianni Agnelli ha raccontato nei dettagli i suoi tentativi, tutti andati a vuoto, di avere una cognizione globale delle sostanze del padre al momento dell’ufficializzazione delle disposizioni testamentarie. «Desidero affermare con chiarezza che all’epoca dell’apertura della successione ero convinta che tanto il dottor Gabetti quanto l’avvocato Grande Stevens fossero perfettamente a conoscenza del patrimonio “complessivo” di mio padre, compresi dunque patrimoni all’estero e/o donazioni fatte in vita» scrisse. Sul manager aggiunse: «Gabetti è stato sempre delegato da mio padre a concordare personalmente con me (e successivamente con mio marito Serge de Pahlen) e mio fratello Edoardo il budget di spesa annua di noi figli». Su Grande Stevens puntualizzò: «Egli era il principale (unico vero) consigliere personale di mio padre sul piano legale-societario, godeva della fiducia assoluta di mio padre anche per le questioni più riservate; era stato lui, nel 1996 ed anche successivamente, a comunicarmi che la donazione del 25% di Dicembre fatta da mio padre a John avrebbe trovato compensazione all’estero in favore degli altri miei figli».
Ma di fronte ai custodi delle volontà del padre, che aveva scelto John come suo successore («nonostante avesse solo 20 anni»), Margherita decise di non piegarsi, almeno inizialmente. Con queste conseguenze: «Allorché io mi rifiutai di firmare, Gabetti mi apostrofò: “Lei non è degna d’esser la figlia di Suo padre. Lei non riconosce la volontà di Suo padre, ma io che la so, la adempio. Che lei firmi o meno non cambia nulla”». Il racconto prosegue: «Ricordai a Gabetti che non avevo ancora ricevuto la situazione “complessiva” della successione: intervenne a quel punto Grande Stevens che, scodellandomi sul tavolo un foglio contente i conti correnti e gli ulteriori pochi beni in Italia (una quindicina di Fiat Panda e Fiorini; 7 ciclomotori Piaggio e 3 trattori), mi disse solo: “Questo è il resto”. Mia madre e mio figlio non dissero una parola per difendermi dalle offese di Gabetti, che abbandonò la stanza».
Dunque, al posto del tesoro estero, blindato in inespugnabili paradisi fiscali, a Margherita Agnelli provarono a rifilare, come beni ereditari, persino tre trattori. Le sommarie indicazioni di quel «foglietto» verranno poi dettagliate il 16 maggio 2003 nel memoriale vergato dal commercialista Gianluca Ferrero, l’attuale presidente della Juventus, inviato all’avvocato svizzero di Margherita, Jean Patry.
Grande Stevens, nonostante avesse quasi subito rinunciato al ruolo di esecutore testamentario, continuava, in modo poco ortodosso, a dare consigli e a scegliere avvocati per una delle due co-eredi, cioè donna Marella, la mamma di Margherita. Egli, ovviamente, aveva super-visionato questo elenco. La spartizione tra le due beneficiarie riguardava un totale di 216.875.792,52 euro (108 milioni a testa, che diventeranno, con gli interessi, 109 un anno dopo).
La «ricchezza» dell’Avvocato (in Italia) risultava così irrisoria se si pensa all’entità di alcuni famosi patrimoni ereditari oggetto di contesa, da quello di Luciano Pavarotti a quello di Alberto Sordi (possibile che Agnelli avesse solo il doppio delle sostanze dell’attore romano?). Il minuzioso elenco del memoriale Ferrero parte da liquidità e titoli per un totale di 250.434.151 euro. Si parte dai fondi irrisori depositati presso la Deutsche Bank (177,36 euro) e la Popolare di Bergamo (16.605 euro) per arrivare ai 200 milioni di titoli presso la Simon, la fiduciaria di Grande Stevens – investiti in una Sicav presso la già citata banca Pictet -, ai 28 milioni in Banca Intesa, altri 6 a Bergamo. A questi soldi andavano aggiunti 4 milioni di euro in azioni dell’Accomandita Giovanni Agnelli, più altri 10 in obbligazioni.
Ferrero passa poi a esaminare gli altri beni. Le barche: lo Stealth (di cui John si è subito appropriato), valutato solo 3,4 milioni, e l’F100 (5 milioni, l’attuale barca di Margherita). Grazie al memoriale si scopre che il tender dello Stealth è stato venduto per 100.000 euro a Lapo, ma soprattutto si scopre nel dettaglio il contenuto della lista «scodellata» da Grande Stevens: 12 Panda, una Fiat Palio, due Fiorino, tre Vespa 50, tre Sì e un Grillo della Piaggio, tre trattori e un rimorchio per trattori.
Sorprendente anche la stima del valore totale: 20.000 euro. Tra i crediti emerge una sorta di «follia», il nuovo yacht progettato per un moribondo nei cantieri di Brema (con buona pace del made in Italy), costato, per fermarne la costruzione, 32,737 milioni di euro di penali. C’è poi il premio per l’assicurazione sulla vita dell’Ina (154.937,06 euro), assicurato da Palazzo Madama agli eredi del senatore a vita Giovanni Agnelli. La quota del 25 per cento della Dicembre, la «società semplice» che controlla tutto l’impero, veniva, invece, valutata soltanto 4,674 milioni, compresi i dividendi versati dall’Accomandita. Tra le passività solo due voci: fatture arretrate da pagare per 612 mila euro e 1,4 milioni per terminare la costruzione della nuova scuola materna di Villar Perosa.
Margherita avrebbe dovuto «accontentarsi» di questo. Magari sedotta dall’idea di farsi un giretto in trattore.





