2021-12-09
I figli degli immigrati sono fuori controllo. Violenze nelle città sul modello banlieue
Emergenza a Parma, aggredita la troupe di «Fuori dal coro». Razzie da Nord a Sud: pochi controlli e ancor meno punizioniI quattro anni di inferno di una ragazza marocchina torturata dal papà (arrestato)Lo speciale contiene due articoli «Baby gang scatenate in centro»: pochi giorni fa la Gazzetta di Parma ci ha aperto il giornale e l’altra sera Fuori dal coro ci ha aperto il servizio dedicato all’emergenza che terrorizza la città emiliana. Ma quelle stesse parole ricercate su Google fotografano un allarme che percorre da Nord a Sud tutta l’Italia: Varese, Salerno, Modena, Napoli, Busto Arsizio, Battipaglia, Rimini, Ancona, Pisa, Messina, Roma, Milano, Bari. Un elenco interminabile di episodi che si ripetono tutti simili: risse, aggressioni, sputi, insulti diventati la normalità per gruppi di giovanissimi che si muovono in branco senza timore di nessuno. «Dai vieni sbirro», urlano i ragazzini incappucciati nelle felpe mentre lanciano rifiuti e bottiglie contro i locali. I filmati mostrano i violenti che si muovono in gruppo, accerchiano, rincorrono, picchiano senza motivo, semmai ce ne fosse uno, anche «futile», per menare le mani.Le strade si trasformano in ring, la stessa troupe di Rete4 ha rischiato grosso anche se era scortata da un vigilante che ormai è presenza fissa quando le telecamere vanno a indagare sulle tante facce nascoste dell’Italia di oggi. Un pensionato mostra gli sputi sul cappotto, una signora si lamenta che «in questo far west si rivoltano anche contro la polizia», un barista minacciato («ti picchio forte») chiude il locale per evitare rappresaglie, una ragazzina non esce più da sola dopo essere stata inseguita da due tizi armati di coltello. Di un giovane rapper si vede la tranquilla chiacchierata quando è da solo e la furia di quando sta nel mucchio dove «è normale litigare per niente».È questo «niente» che colpisce, le botte senza senso, il fatto che tutto scorra via nella scontatezza, come fosse inevitabile passare le serate in questo modo nel cuore delle città italiane. Ma in questo «niente» in realtà c’è «qualcosa». I minorenni in faccia non si vedono ma l’accento e molte parole sono stranieri. Qualcuno non fa mistero di avere già passato mesi nelle carceri minorili. Gli italiani sembrano a rimorchio, se non al guinzaglio: quando il branco si riunisce è come se si sprigionasse il virus della violenza, un contagio immediato che rende tutti uguali. E poi c’è un’assenza, quella dei genitori. «Noi ci siamo nati così, siamo tutti in case famiglia. I miei genitori non mi hanno dato il buon esempio, quindi è per questo che siamo qua», si giustifica una ragazzina. Aggiungiamo un’impunità quasi garantita: chi ha meno di 14 anni non può essere perseguito, per gli altri è facile sfuggire alle denunce e ai controlli. E comunque si tratta di reati che non vengono sanzionati con pene pesanti.L’Italia non è ancora la Francia delle periferie in mano alle bande di giovani teppisti organizzati, ma vi si avvicina a grandi passi. Gli immigrati di seconda generazione non si integrano nel nostro tessuto sociale e si comportano come se non dovessero rendere conto di nulla a nessuno, sono legge a sé stessi. A volte agiscono per soldi, per rubare telefonini e portafogli per comprarsi l’alcol, la droga, gli ingressi nei locali notturni o qualche giorno di vacanza. Sulla riviera adriatica le denunce sono all’ordine del giorno: episodi all’apparenza piccoli ma gravi, adolescenti di 16-17 anni spesso nordafricani che si riuniscono in bande per ripulire le tasche dei coetanei, in spedizioni che sovente partono dalle località dell’entroterra emiliana, romagnola e marchigiana. Prendono treni e pullman senza biglietto e si procurano i soldi picchiando e rapinando altri ragazzi. A volte menano duro anche se le vittime designate si dicono pronte a consegnare portafogli e telefoni.La colonna sonora è sempre la stessa, canzoni rap con testi che trasudano violenza e trasgressione. La primavera scorsa a Milano sono finiti indagati due rapper diciannovenni popolarissimi tra i più giovani, Baby Gang e Neima Ezza. Il primo si chiama Zaccaria Mohuib, è nato e cresciuto a Lecco da una famiglia marocchina ed è tra i giovani musicisti emergenti; il nome dell’altro è Amine Ezzaroui, anch’egli italo marocchino. Erano accusati di avere partecipato alla guerriglia nelle strade del quartiere San Siro: al raduno convocato sulle piattaforme sociali per girare un video musicale di Neima Ezza c’erano 300 ragazzi che hanno lanciato bottiglie, sassi e bastoni contro le forze dell’ordine al grido di «fuori dalle nostre zone». Prima che arrivassero polizia e carabinieri, la folla di minorenni era salita sulle auto parcheggiate saltellando sui cofani nell’esplosione di una «rabbia da banlieu» cresciuta tra le case popolari e genitori sempre fuori casa o addirittura assenti, come capita ai minori non accompagnati che vengono fatti arrivare in Italia da famiglie o sfruttatori privi di scrupoli. Senza casa, senza una guida, vengono collocati in strutture di accoglienza dalle quali fuggono per finire a rafforzare la manovalanza criminale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-figli-degli-immigrati-sono-fuori-controllo-violenze-nelle-citta-sul-modello-banlieue-2655951178.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="chiusa-in-cantina-senza-cibo-e-acqua-per-aver-abiurato-la-fede-islamica" data-post-id="2655951178" data-published-at="1639000894" data-use-pagination="False"> Chiusa in cantina senza cibo e acqua per aver abiurato la fede islamica «Questa sarà la tua tomba». È con queste terribili parole che un marocchino di 56 anni, alternando maltrattamenti e torture, aveva minacciato la figlia, rea solo di voler andare a vivere da sola e di voler abbandonare le imposizioni e usanze islamiche della famiglia. Per questa giovane, oggi diciottenne, l’incubo è però terminato lo scorso 26 novembre a Ferrara quando, mentre era in fuga proprio dal padre, la giovane si è decisa a chiamare la polizia. Ma andiamo con ordine. La vicenda – che si configura come un tragico déjà vu - è quella d’una quattordicenne di famiglia musulmana che, come le sue coetanee, sognava un futuro all’occidentale, scevro da qualsivoglia forma di diktat religioso. Per la precisione, il sogno dell’adolescente, che viveva tra Ferrara e il Bolognese, era quello di fare l’estetista. I suoi familiari però non solo non erano d’accordo ma, pur di tarparle le ali ai suoi progetti, erano arrivati alle maniere forti. Tanto che, nel 2017, a seguito dell’ennesimo litigio, il padre e il fratello maggiore – secondo quanto riferito agli inquirenti in questi giorni dalla giovane – l’avevano fatta ritirare da scuola, presa a portata in cantina, legandola mani e piedi ad una sedia, senza cibo né acqua. Una tortura durata due giorni, durante i quali la ragazza si è sentita minacciare dalla voce paterna in quel modo orribile: «Questa sarà la tua tomba». Fortunatamente così non è stato, ma ciò non significa che per la giovane, dopo quella volta, le cose si siano rasserenate. Tutt’altro. Nel 2018 la famiglia l’ha portata in Marocco costringendola, lei poco più che ragazzina, a sposarsi con il cugino ultratrentenne, figlio del fratello del padre. La sera stessa della cerimonia era stata costretta dal cugino sposato a forza a consumare un rapporto sessuale. A quel punto è arrivato il periodo più duro. Segregata in casa, la giovane era obbligata a mangiare pane e olio e a fare la sguattera, sperimentando sulla sua pelle una condizione dolorosamente comune a tante donne nei Paesi islamici. Il suo destino sembrava dunque segnato ma qualche mese fa, grazie ad un’amica, la diciottenne è riuscita a tornare in Italia, fuggendo con una nave. Arrivata a Ferrara, ospite di amici, si è cercata un lavoro come cameriera in un ristorane del centro, decisa a lasciarsi alle spalle l’inferno vissuto, anche considerando che il matrimonio musulmano impostole non ha valenza civile nel nostro Paese. Il lieto fine sembrava ormai ad un soffio quando ecco che il padre, messosi sulle tracce della figlia, è riuscito a rintracciarla. È iniziata così una fuga disperata con la giovane che, rifugiatasi su un autobus nel centro della città estense, si è finalmente decisa a far ciò che avrebbe dovuto fare molto tempo prima: chiamare la polizia. Per suo padre sono allora scattate le manette, accompagnate da accuse pesanti come macigni: maltrattamenti, minaccia grave e sequestro di persona in concorso con il figlio di 32 anni. A quest’ultimo è stata applicata la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla sorella con l’obbligo di tenere una distanza di almeno 500 metri. Martedì il padre è stato interrogato per un’ora davanti al giudice. Si è difeso negando ogni accusa: «Non ho mai costretto mia figlia ad essere musulmana». Ieri è stato il turno del fratello. Intanto la giovane, ascoltata in audizione protetta con una psicologa specializzata, ha raccontato con dovizia tutti i particolari della sua tragedia, incluso, quando non vedeva vie altre d’uscita, un tentativo di suicidio. Staremo a vedere quali sviluppi avrà la storia, ma è oggettivamente difficile, come si diceva, non scorgervi una riedizione di drammi già accaduti. Il pensiero corre a Saman Abbas, la ragazza pakistana uccisa perché non voleva sposare un cugino, e prima ancora ad Hina Saleem, che nel 2006 fu decapitata dal padre perché voleva vivere all’occidentale, e a Sanaa Dafani che, nel settembre 2009, venne anch’essa sgozzata dal padre. Orrori che si ripetono. Come la nostra incapacità di fermarli.