2020-12-23
I clan freddarono il giudice Livatino. Bergoglio ne fa la prima toga beata
A soli 37 anni fu ammazzato dai sicari per impedire che inchiodasse 15 boss mafiosi, Giovanni Falcone fu tra i primi ad accorrere sul luogo del delitto. Fervente cattolico, è stato scelto da Francesco come esempio di fede.Un'auto e una moto si affiancano alla Ford Fiesta color amaranto guidata da Rosario Livatino, giudice a latere del Tribunale di Agrigento. Il magistrato è senza scorta (è lui a non volerla) e sta viaggiando sulla statale che da Caltanissetta porta ad Agrigento. È il 21 settembre 1990 quando sul viadotto Gasena il giudice si volta verso quell'auto e guarda in faccia i suoi killer. Pochi attimi e poi gli spari, ferito a una spalla Livatino cerca di salvarsi correndo giù per la scarpata. I sicari lo braccano e poi tirano al bersaglio; il corpo senza vita del giudice fu ritrovato nel vallone sotto al viadotto, tra i primi a giungere sul posto anche Giovanni Falcone. Ma quello sguardo di un attimo rivolto ai suoi carnefici oggi lo possiamo riconoscere come lo sguardo di un beato. Così ha sancito ieri papa Francesco ricevendo in udienza il cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, attraverso il riconoscimento del martirio del giudice ragazzino.Livatino era nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì e aveva 37 anni quel giorno di settembre, era diretto al tribunale di Agrigento, come ogni mattina. Quel giorno doveva giudicare la sorte di 15 capiclan mafiosi, doveva decidere se potevano restare nei loro covi di Palma o finire al soggiorno obbligato al confino. Ma qualcuno aveva deciso che non lo doveva fare, per qualcuno quel giudice era troppo libero. E come poteva essere altrimenti, se nella prima pagina delle sue agende dal 1978 al 1990 campeggiavano sempre le tre lettere S.T.D.? Sub tutela Dei, sotto la tutela di Dio. Era questo il boss sotto la cui protezione aveva deciso di mettersi Livatino, per cui non poteva che essere libero; come ricordava a suo tempo sant'Ambrogio: dove c'è la fede, lì c'è la libertà, ubi fides ibi libertas.Per questa sua «affiliazione» Livatino diventa il primo magistrato beato nella storia della chiesa. Un uomo libero che riconosceva nella giustizia, ha scritto, una cosa «necessaria, ma non sufficiente» per costruire un vivere comune. La giustizia «può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell'amore, amore verso il prossimo e verso Dio». La stidda agrigentina, che quella mattina fece uccidere il giudice, forse non sapeva, come disse Giovanni Paolo II, che innalzava così un nuovo «martire della giustizia e indirettamente della fede». Da questa fede Livatino traeva la linfa per la sua missione di magistrato. «L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, (…), nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità». Così è anche un eroe civile, ma dalle radici piantate in Cielo.Il giudice Livatino, dice alla Verità Alfredo Mantovano, vicepresidente del centro studi dedicato al neo beato, «testimonia che il Signore suscita esempi luminosi anche nei contesti più difficili, quindi la testimonianza è possibile in una zona e in ufficio così complicati. Non solo, l'esperienza di Livatino mostra anche che nulla è gratis, perché ha pagato il prezzo più alto e questo deve ricordarci che l'impegno di tutti è di non lasciare solo chi rischia in prima persona». Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, lo scorso settembre ha celebrato la messa di suffragio del giudice, promossa proprio dal Centro studi Livatino. «Beate», disse il cardinale, «le istituzioni che sono presidiate da figure simili. Beati quei malcapitati, quei poveri, quei soggetti meno fortunati che ricorrono a una giustizia amministrata da persone simili». Il giudice «ragazzino», infatti, ha scritto che «la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l'uomo e non l'uomo per la legge». Peraltro, questa non deve essere considerata come una posizione aperta a tutte le istanze, come ad esempio la creatività di certa giurisprudenza nel campo dei cosiddetti «nuovi diritti». In una conferenza tenuta a Canicattì, il 7 aprile del 1984, Livatino osservava come «si è affermato, a partire della metà degli anni Sessanta, che il magistrato possa e debba interpretare la norma scegliendo il significato che, a suo giudizio, meglio asseconda le trasformazioni della società. In realtà, il compito del magistrato è e rimane quello di applicare le leggi che la società si dà attraverso le proprie istituzioni. Il giudice non può e non deve essere un protagonista occulto dei cambiamenti sociali e politici». Si conferma così un uomo libero che operava perché tutti potessero godere di questa libertà.«Il giudice Livatino», ha scritto in una lettera dal carcere Gaetano Puzzangaro, uno dei suoi killer, «lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell'abbraccio mortale della criminalità. Lavorava, quindi, anche per me, per vedermi libero e vivo. Io non l'avevo capito. Riposa in pace, giudice». E ora, per chi crede, c'è anche la certezza che quella pace non è una qualunque, ma quella di chi sta faccia a faccia con Dio.