2019-03-02
I candidati Pd parlano di idee senza averne
Tre personaggi e un convitato di pietra vivranno domani un giorno di passione per le primarie del Perdente democratico. Ripetono un blabla ormai logoro. La linea di confine tra loro è il rapporto con Matteo Renzi da una parte e con i grillini dall'altra.Quattro scarti in padella. Tre candidati e una mina vagante vivranno domani un giorno di passione per le fatidiche primarie del Perdente democratico. Ammiro e compatisco l'abnegazione dell'annunciato milione di elettori piddini, inclusi i buontemponi che si infileranno nella loro partita: ne conosco uno, eterno goliarda e imbucato che va sempre a votare alle primarie del Pd per puro cazzeggio, con il sottinteso auspicio che vinca il peggiore, ma la scelta è difficile. Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti sono divisi da tutto e da nulla: parlano continuamente di idee e di confronto sulle idee senza averne o mostrarne alcuna. Ripetono un rosario di unità e di pregiudizi, di apertura al mondo del lavoro, stare di più tra la gente e sul territorio, più la preghiera alla Madonna Europa e ai suoi santi protettori. In realtà la linea di confine tra le loro candidature non è delineata dai contenuti ma è segnata dal loro rapporto con Matteo Renzi da una parte e coi grillini dall'altra, se aprire la porta, chiudere o socchiudere. Mutano le gradazioni e le distanze, non i contenuti, non le visioni, tantomeno le strategie. Parole grosse in un'epoca emozionale, superficiale e psicolabile.L'unico effetto combinato disposto che riescono a produrre le loro apparizioni è far giganteggiare Quelli di una Volta, e far apparire al loro confronto i Walter Veltroni, i Massimo D'Alema e i Pier Luigi Bersani come tre Otto von Bismarck inarrivabili. I tre sfidanti ripetono un blabla ormai logoro, una cantilena tardodemocratica, un mantra paleo-progressista che trova qualche impeto solo nel rancore antigovernativo. S'illuminano di Tav, si eccitano a ogni giudizio negativo sull'Italia espresso dall'Europa, dalle agenzie di rating, da ogni passante, migrante o cantante che spari i suoi improperi sul duo Matteo Salvini-Luigi Di Maio.Zingaretti recita il ruolo di segretario in pectore, ecumenico e paragrillino, aiutato dall'evocazione fraterna del commissario Montalbano e penalizzato da una zeta che sgomma e sbanda a ogni curva del discorso. Martina con il suo tono insopportabile di Ammonitore saccente e di Censore democratico, a vederlo sembra una comparsa dei film sulla guerra di Troia (Tersite?). E Giachetti, con il suo svagato tono romanesco di chi sembra suggerire «a me m'ha rovinato la guera», che nel suo caso è a' Raggi, contro cui disastrosamente si candidò, minaccia: «sennò me ne vado» e il terrore per il suo abbandono si legge negli occhi della gente.Alle loro spalle c'è il più grande agitatore di non-idee degli ultimi anni: Matteo Renzi, istrione isterico, guitto risentito, che per giustificare la sua assenza verrà idealmente accompagnato dai genitori. Intanto si scalda ai bordi del campo la riserva della repubblica piddina: Carlo Calenda che li aspetta al largo e a cena.Non c'è sostanziale differenza tra di loro, dicono i giornali, quasi a suggerire che nel Pd dietro le divisioni c'è una sostanziale unità di intenti e concordia di prospettive. In realtà la tragedia è proprio quella, non dicono niente di nuovo, di diverso, salvo criticare tutti e tre la cosa che continuano a fare tutti e tre: la lontananza dalla gente, l'incapacità di mettersi in sintonia coi ceti popolari, con la realtà, con la vita quotidiana. Sono tutti e tre prigionieri, magari in gradi diversi, del politicamente corretto, ostaggio della retorica pro-minoranze e della demagogia pro-migranti. Fanno persino rimpiangere il primo Renzi che almeno tentò di discostarsi da quel catechismo, salvo poi vendersi l'abecedario - come Pinocchio - pur di entrare nel teatro dei burattini e comandare nel paese dei balocchi.Gli ultimi test elettorali, benché fossero amministrativi, cioè tradizionalmente favorevoli alla sinistra, sono stati una fila ininterrotta di sconfitte. In cui hanno trascinato anche quei mentecatti degli exit poll che vaticinavano per la Sardegna un testa a testa, spiegando che la forbice da cui potevano discostarsi era solo di due punti (e invece c'era un abisso di 15 punti tra i candidati del centrodestra e del centrosinistra). Ma ai media piaceva immaginare, ancora una volta a dispetto della realtà, questa fantastica rimonta dei loro beniamini.Il crollo del Movimento 5 stelle, unito a una candidatura giovane e radicale, come quella di Massimo Zedda in Sardegna, può ridare un po' d'ossigeno al Pd. Ogni spostamento più a sinistra lo caratterizza e riesce a pescare più voti nell'elettorato grillino, ma destina il Pd al ruolo di minoranza. Perché l'Italia non sarà di destra, ma certo prevale l'asinistra, il rifiuto della sinistra. Una nausea che a quanto pare assume valenza planetaria, a giudicare dagli esiti elettorali in tutto il mondo. In questo mondo che cambia, c'è ancora chi presenta le primarie del Pd come una specie di ora suprema, di momento della verità democratica, di ordalia e giudizio di Dio. Ma no, dai, sono solo quattro scarti in padella.