2020-10-28
I «Beppo» d’Italia amano lavorare. Chi li ha umiliati paghi i danni morali
Giuseppe «Beppo» Tonon (Ansa)
La foto simbolo del cuoco affranto: potersi rimboccare le maniche conta più del denaro.L'immagine simbolo della seconda ondata non è quella di un'infermiera o di un anestesista. No: è la fotografia che una figlia ha scattato, di nascosto, al padre. Un omaccione veneto di 70 anni accasciato su una sedia del suo ristorante, a Piavon di Oderzo, nel trevigiano. È l'espressione vuota e sconsolata di Giuseppe «Beppo» Tonon.Ha appena visto una sua cameriera piangere in silenzio: e adesso il ristoratore ha lo sguardo perso, la mascherina che penzola da un orecchio, le mani che cascano sulle ginocchia. «Questa è la mazzata finale», ha confessato Giuseppe alla figlia Elena, che poi si è messa alla tastiera per raccontare, con delicatezza, i loro sentimenti: «Questo è mio papà. Un uomo che si è fatto dal niente. Dalla povertà di una famiglia di mezzadri veneti. Una famiglia numerosa dove le donne dicevano che non avevano fame pur di lasciare il cibo ai figli». Poi il lockdown, il tentativo di tornare a galla, lo shock del dpcm. L'ultima mazzata, per l'appunto. Solo adesso cominciamo a capire che non è solo questione di soldi. Per una passione tradita non c'è ristoro che tenga. Il signor Tonon era famoso nel settore per i suoi virtuosismi culinari: realizza composizioni di frutta che sembrano dipinti, e lo fa con la luce negli occhi. Eppure in quella foto è irriconoscibile: il volto è segnato da qualcosa di più grave della sofferenza. Si chiama disperazione. In pratica, con il lavoro, sta vedendo appassire la sua ragione di vita. È dramma interiore che sfugge alle statistiche. Ristoratori, baristi, gelatai, negozianti, gestori di palestre, di cinema, di piscine, di pub, di campi da tennis, di teatri: spesso è gente così innamorata del proprio mestiere da svenarsi per rispettare regole, igiene e distanziamenti. Prima della mazzata finale. E non lo fanno solo per soldi: ma perché, per dirla con Primo Levi, in quel lavoro, e non in un altro, trovano un assaggio di «felicità sulla terra». La libertà di inseguire un sogno, di fare ciò che li realizza. Quella che Thomas Jefferson chiamava pursuit of happiness, un diritto che i padri fondatori americani consideravano prezioso al pari della vita stessa. Nell'apparecchiare una tavola con amore, nel pulire una piscina con attenzione, nel curare un campo di calcio per i ragazzi, c'è la coscienza orgogliosa di essere utili. Di contribuire al «progresso spirituale» di tutti, come recita quella Costituzione italiana che negli ultimi mesi è stata degradata a pezzo da museo. Dunque ben venga l'accento sui danni materiali di un Paese che affonda nel mare in tempesta. Ma quando tutto sarà finito, qualcuno dovrà incaricarsi di chieder conto ai timonieri anche i danni morali. Le ferite invisibili dell'anima. Perché è dannatamente difficile recuperare capitale economico se ti hanno bruciato il capitale psicologico. È impossibile, per quelli come Beppo Tonon, trovare la spinta nelle gambe, se non c'è più la testa. Anche perché, diciamocelo: non c'è sacrificio più duro del sacrificio che si rivela inutile. Scoprire che la serrata di marzo-aprile non è servita a nulla; scoprire che dietro la fumisteria delle task force non c'era uno straccio di piano per le terapie intensive e gli autobus; scoprire che il supercommissario Domenico Arcuri si è mosso alla moviola fin dall'inizio; scoprire che mentre gli italiani facevano i compiti a casa il ministro della Salute scriveva libri: tutto ciò è peggio che una brutta notizia. È un tradimento straziante, un colpo mortale per il nostro tesoretto di fiducia. E se è vero che il virus è globale, questa ignominia no: è tutta a carico di chi ci governa. Magari sottovaluto le risorse profonde dell'italiano medio, il cosiddetto cuore oltre l'ostacolo, il famigerato «colpo di reni». Penso che in qualche modo scalcagnato ce la faremo. Ma in queste ore confuse, più che il crollo del Pil, mi preoccupa il crollo dell'autostima nazionale. Abbattuta a colpi di promesse mancate e vanità comunicativa. Ricordate quando, a metà marzo, Giuseppe Conte si paragonò a Winston Churchill? «È la nostra ora più buia, ma ce la faremo», disse a reti unificate. Per carità: anche Churchill chiese sacrifici ai cittadini, guidando la resistenza dei londinesi sotto le bombe della Luftwaffe nazista. La differenza è che Churchill vinse la guerra; il governo Conte non l'ha mai cominciata. E questo spiega perché lo statista inglese sia rimasto negli annali della storia, mentre quello pugliese resterà negli annali del Fatto Quotidiano.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)