2025-05-29
Quando il sonno del «tifo» genera mostri (e morti) Heysel, il Vajont del calcio
La furia degli hooligans, complici lo stadio fatiscente e l’incapacità della polizia belga, uccise 39 persone. Quel 29 maggio 1985 persero tutti. Anche la Juve che alzò la Coppa.Aveva 17 anni, Giuseppina Conti. Era di Rigutino, una frazione di Arezzo.Frequentava il liceo classico. Aveva tutta la vita davanti, formula trita che però dà l’idea.Sognava forse un futuro da poliziotta, o da giornalista, vai a sapere bene. Soprattutto: Giusy era appassionata di calcio. Tifosa sfegatata della Juventus. Per questo amore è morta la sera del 29 maggio 1985, in quello stramaledetto stadio dell’Heysel, dove alla fine rimasero a terra in 39: 32 italiani, quattro belgi, due francesi, un irlandese. Senza dimenticare i quasi 600 feriti.Un bollettino di guerra. Una strage.Da quella sera, la parola Heysel ha smesso di riferirsi a un entità fisica, materiale.Ma è diventata un luogo della memoria.Esattamente come Vajont. Tutto accadde davanti alle telecamere. In una diretta tv che fece piombare l’Italia in un incubo collettivo, come era già avvenuto con Alfredino Rampi, 6 anni, inghiottito da un pozzo a Vermicino, nel giugno 1981.Un annichilimento al di là delle fazioni, degli sfottò, dei cori, delle bandiere. Ma i morti non li si chiami, per favore, «angeli dell’Heysel». Erano 39 esseri umani, finiti travolti, precipitati dalle gradinate o schiacciati contro le balaustre, soffocati, vilipesi dalla furia selvaggia - ad alta gradazione alcolica - dei cosiddetti hooligans inglesi nella famigerata «tribuna Z».Assassini che si macchiarono di quegli omicidi e che per questo diventarono reietti all’estero come in patria. Già: perché 48 ore dopo la finale, in preda a «vergogna e orrore», il primo ministro inglese Margaret Thatcher ordinò alla Federazione di casa che nessuna squadra del Regno Unito venisse iscritta alle competizioni europee per un anno. L’Uefa, forse anche per senso di colpa, andò oltre: le escluse per 5 anni. Trentanove vittime anche dell’assoluta inadeguatezza dei responsabili a vario titolo dell’evento.La Uefa che aveva scelto una struttura fatiscente per un appuntamento di tale portata. La polizia, i servizi di sicurezza, le autorità belghe che si rivelarono incapaci di prevenire possibili scontri e di gestire l’ordine pubblico.Un totale blackout dell’organizzazione, che si protrasse anche il giorno dopo, con le salme inviate in patria neppure ricucite dopo l’autopsia.A Giusy è stato dedicato un libro, scritto da Luca Serafini e presentato al salone del Libro di Torino: La ragazza dai pantaloni verdi. Titolo mutuato da Il Giorno, con la cronaca, dolorosa e commossa, firmata da Gino Franchetti, anche lui a Bruxelles per la finale di Coppa dei Campioni tra la Juve e il Liverpool, dominatrice in Premier League e già quattro volte campione d’Europa.Che vide, così raccontò, «la fuga disperata di inermi pacifici tifosi alle prese con energumeni seminudi armati di spranghe di ferro».Fu grazie a quel capo di abbigliamento che Giusy fu riconosciuta.Se volete farvi solo una lontanissima, pallida idea di quello che successe, della follia di quel catino trasformato in un girone infernale, potete guardare su YouTube il video di 83 secondi, girato in Super8, da Emilio Targia, autore di Quella notte all’Heysel.Sono trascorsi esattamente 40 anni, ma le immagini di quella notte sono vivide per chi, come me, in piedi in silenzio davanti al piccolo schermo, assisteva al funerale dello sport.Sì, è vero: noi italiani già lo sapevamo che il sonno della ragione, per malinteso tifo sportivo, genera mostri.E morti.Vi dice niente il nome di Vincenzo Paparelli?Era un tifoso laziale, ucciso allo stadio Olimpico il 28 ottobre 1979 - seduto accanto alla moglie, pronto a godersi il derby cittadino in calendario nella settima giornata del campionato di serie A - da un razzo sparato dalla curva Sud occupata dagli ultrà giallorossi. Sei anni dopo, l’Heysel rappresentò l’Armageddon.Perché fu la tempesta tragicamente perfetta, la tremenda congiuntura astrale tra inefficienza, inettitudine, paura, violenza e protervia.Il campo, dove si giocò in un clima surreale, decretò la vittoria della Juve per 1 a 0, calcio di rigore concesso con generosità per un fallo (fuori area) su Zbigniew Boniek, gol di Michel Platini.Che ha sempre avuto problemi, da allora, a confrontarsi con quell’orrenda serata. Nel ventennale del 2005, fu tranchant: «Mi è stato domandato migliaia di volte di quella notte. Ma rivendico il diritto di tenere per me i miei sentimenti». In realtà, una settimana dopo l’Heysel al settimanale francese Paris Match aveva negato di aver esultato con in mano il trofeo: «Era fuori discussione fare il giro d’onore». Come no. Evidentemente le decine di milioni di telespettatori, in Italia e in Europa, che lo avevano visto sollevarlo davanti alla curva dei tifosi italiani, in realtà stavano guardando un sosia.In ogni caso, nel 2015 affidò il cordoglio a una nota sul sito dell’Uefa: «Trent’anni fa, all’Heysel, giocai una finale di Coppa dei Campioni che ancora oggi continuo a giocare. Non ho mai dimenticato quella partita».Aggiungendo: «Oggi sono il presidente dell’organismo che organizzò quella finale, lavoriamo quotidianamente per assicurare che l’orrore di quella serata non si ripeta mai più. Questo impegno si è tradotto in un incessante lavoro nel corso di questi anni per garantire la sicurezza degli impianti sportivi di tutta Europa».Nell’amarcord di Marco Tardelli, che lo ha condiviso con la figlia Sara per il libro Tutto o niente, c’è tutt’ora l’angoscia e la sofferenza di chi non si era reso conto della carneficina, ma intuiva comunque «che qualcosa di grave era successo, eravamo tutti frastornati». Certo, il match fu disputato per calmare gli animi, ma in un caos che si fa perfino fatica a descrivere: «C’erano persone che vagavano sull’erba: ci strattonavano, alcuni ci chiedevano di non giocare, altri di battere il Liverpool, qualcuno chiedeva un autografo, forse qualcuno piangeva». E l’incontro, la sfida per la Coppa? «Quella sera, di sport, non c’è stata traccia. Oggi il giro di campo con la coppa non lo rifarei. Ma il senno di poi non scaccia la vergogna, e chiedo scusa».Del resto, si sa: «Quando cade l’acrobata, entrano i clown», triste osservazione di Platini, diventata titolo di un libro dello juventino Walter Veltroni sull’Heysel, che per lui è stata «una delle tante perdite di innocenza della nostra generazione».Lo stesso Veltroni che nella prefazione al libro, «prezioso e bellissimo», di Francesco Caremani, La verità sull’Heysel: cronaca di una strage annunciata, ha scritto: «Persero tutti, nonostante la coppa alzata, il giro del campo, nonostante i sorrisi, i “non sapevamo”, nonostante il gol. Nonostante la vittoria, persero tutti, in quella sera luttuosa all’Heysel».Caremani da sempre amico della famiglia di Otello Lorentini, il cui figlio Roberto morì a 31 anni all’Heysel perché, dopo essere riuscito a guadagnare l’uscita, essendo medico tornò indietro per cercare di fare la respirazione bocca a bocca forse alla vittima più piccola, Andrea Casula, 11 anni (per il suo sacrificio, Lorentini è stato insignito con la medaglia d’argento alla memoria).Lorentini senior, che da tifoso della Fiorentina aveva accompagnato Roberto a Bruxelles, ricordava con rabbia: «Tre giorni dopo la catastrofe, il presidente Giampiero Boniperti disse che si doveva mettere una pietra sopra l’accaduto».«La memoria va difesa e allenata», rileva oggi Andrea Lorentini, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’Heysel e figlio di Roberto.Per non dimenticare anche ciò che successe dopo, a cominciare dal processo alla Uefa, inizialmente assolta ma poi condannata per «responsabilità oggettiva», perché incamerava l’80% dell’incasso ma si dichiarava «non responsabile» di quanto veniva organizzato sotto la sua egida. «Sul biglietto della finale c’è proprio scritto che la Uefa declina ogni responsabilità in caso di incidenti, avvertenza che riletta a posteriori risulta più che inquietante», rileva Lorentini.Allo J-Village di Torino, il mega impianto che comprende anche lo Juventus Stadium alla Continassa, sorgerà finalmente un memoriale per il quale è stato scelto un nome somigliante a uno slogan elettorale: «Verso altrove».Senza offesa per alcuno: il testo dell’annuncio del 9 dicembre scorso assomiglia a quelli di certe brochure che magnificano spa e resort.«Dal manto erboso, impreziosito da alberi di Ginko Biloba e cespugli di lavanda, si ergerà una pedana di 65 metri dalla leggera forma di spirale centrifuga, innalzandosi a più di tre metri da terra. Verso l’assoluto». «La lavanda rimanda al richiamo olfattivo di sensazioni oniriche, mentre il Ginko Biloba è un albero antichissimo, le cui origini risalgono a milioni di anni fa, all’era mesozoica, considerato un fossile vivente a rappresentare la resistenza, la sintesi - nella sua linfa - di passato e futuro».Certo, forse un muro di granito (bianco)nero con i nomi scolpiti, tipo il Vietnam veterans memorial, che a Washington onora i soldati Usa deceduti in quella sciagurata guerra, sarebbe risultato forse meno «creativo».Ma piuttosto che niente, meglio piuttosto.
Il ministro della Salute Orazio Schillaci (Imagoeconomica)
Orazio Schillaci e Giuseppe Valditara (Ansa)