
Il presidente del gruppo e numero uno di Pitti ha appena aperto due boutique a Pechino e Shanghai: «Non penso che fra tre anni i negozi fisici saranno spariti. I nostri capi non sono economici, ma la qualità ha un prezzo. Il Covid? Deve passare la nottata...»C’è chi ha una chiara visione di quel che dovrà accadere. Non per chiaroveggenza ma perché lo sguardo è proiettato oltre. Nella famiglia Marenzi è un denominatore comune. Prima Giuseppe, il fondatore del brand, poi Claudio, uno dei tre figli. L’azienda è la Herno, con una storia partita nel 1948 con Giuseppe e sua moglie Diana da Lesa, sul lago Maggiore, non la terra lenta di Piero Chiara nella Stanza del Vescovo ma impetuosa, bagnata dal fiume Erno a cui Giuseppe aggiunge una «H» perché sa già che bisognerà fare i conti con l’estero. «Mio padre lavorava per una fabbrica di arei durante la guerra e si occupava dei materiali di consumo compresi la benzina e l’olio di ricino che serviva per fare la miscela», racconta Claudio Marenzi, presidente di Herno, «Finisce la guerra, la fabbrica viene chiusa e mio padre resta senza occupazione. La cerca in un’azienda di abbigliamento dove si facevano impermeabili. Gli fecero una proposta: “Se ci procuri dell’olio di ricino, ti assumiamo”. L’olio serviva per spalmare i tessuti di cotone e renderli impermeabili. Ovviamente lui conosceva tutti i depositi in giro per l’Italia, glielo procurò e fu assunto. Nel 1948 decise di mettersi in proprio con mia mamma. Lei ha lavorato fino a quando sono nato io nel 1962». Quando sono arrivati i primi cambiamenti?«Negli anni Cinquanta. Si inizia a lavorare anche su lane, cappotti, double face e alla fine degli anni Sessanta mio padre è uno dei primi ad andare in Asia e in particolare in Giappone. Verso la fine degli anni Ottanta, quando si sono formati i grandi marchi della moda che non avevano aziende alle spalle, noi eravamo lì, un’impresa con capacità produttive di qualità. Tutti sono passati da noi o noi da loro. Negli anni Novanta e i primi Duemila l’azienda si è concentrata più sulla manifattura di altri marchi piuttosto che sul proprio. Per cui siamo arrivati al 2004/2005 molto sbilanciati: Herno si era ridotta al lumicino. In quegli anni i grandi brand hanno iniziato a cercare manifatture più a buon mercato e noi a perdere clienti dalla parte manifatturiera. Nel 2005, dopo ampie discussioni, ho deciso di seguire quella che era la mia idea nonostante la famiglia fosse titubante, cioè rifocalizzare la strategia sul nostro marchio». Si sono convinti dei suoi progetti?«No, la mia proposta non era condivisa al 100% dalla famiglia che la trovava troppo rischiosa. Ho fatto entrare un fondo d’investimento che nel 2007, con me, ha preso la maggioranza dell’azienda e l’ha portata avanti. Nel 2011 ho liquidato i miei fratelli, nel 2012 il fondo e sono rimasto da solo. Ho fatto un percorso di governance, di gestione e passaggio generazionale. Il fondo d’investimento, Pegaso, mi ha seguito anche nella formazione come imprenditore. Nel 2012 ci siamo salutati. L’azienda è passata da pochi centinaia di migliaia di euro agli attuali 130 milioni con cui abbiamo chiuso il 2019». Quando è avvenuta la svolta?«Nel 2005, quando mi sono trovato a reinventarmi Herno. L’ho voluto fare senza stravolgerla e facendola conoscere per quello che è, un’azienda di capi funzionali. Noi siamo nati come impermeabilisti e chi fa impermeabili fa capi che servono a proteggere, hanno una funziona ben specifica. Ho esteso questo concetto di funzionalità. Ecco allora i piumini più leggeri e nello stesso tempo ancora più caldi; la novità di Laminar nel 2010, i tessuti tecnici da active sport all’interno della moda che hanno rivoluzionato il concetto di funzionalità, capi tecnici over performanti in un mondo fashion; la sostenibilità che rientra nella ricerca e sviluppo. È il nostro Dna e ci ha fatto svoltare. Proponiamo un capo attuale e moderno nelle forme e nei colori ma estremamente tecnico e di alta qualità. L’attenzione va al bilanciamento tra qualità e prezzo. Siamo costosi ma non cari. Il nostro è un prodotto che ha valenze qualitative importanti e quindi non può essere economico». Dove avviene la produzione?«A Lesa abbiamo ricerca e sviluppo. Qui si producono tutti i prototipi, i primi campioni e l’industrializzazione. Il capo viene finito sia concettualmente sia nel disegno sul lago Maggiore. Poi abbiamo una fabbrica in Sicilia che gestisce una serie di laboratori per un indotto di 800 persone e lì facciamo la parte del made in Italy. Stesso concetto in Romania, dove l’indotto è intorno alle 2.000 persone. Globalmente abbiamo circa 3.000 addetti». La moda è in crisi. Eppure Herno ha aperto in questi giorni due negozi in Cina, a Pechino e Shanghai, e potenziato l’ecommerce. Cosa vede nel futuro?«In molti mi chiedevano come mai non fossi ancora in Cina e online. Noi siamo cresciuti negli ultimi 15 anni di 130 volte. Cina ed ecommerce li tenevo per tempi in cui avrei avuto bisogno di espandermi maggiormente avendo tutto sotto controllo. La Cina è un mercato complicato, molto competitivo, non sempre redditizio. Sicuramente offre molto ai grandi marchi sopra il miliardo, per altri non è l’Eldorado. Per cui aspettavo il momento corretto. Tra fine 2019 e gennaio 2020 avevo trovato le location giuste, le stavo tenendo in stand by. Conosco bene l’Asia e mi sono reso conto che in questa situazione sarebbe stata la prima a ripartire per una questione di mentalità. Quindi mi son detto che era ora. Lo stesso vale per l’ecommerce. Bisogna essere flessibili nel breve termine e riflessivi nel lungo. A mio avviso molto tornerà a essere come prima perché l’uomo è un animale sociale e non posso immaginare che si isoli in casa, credo che ci sia tanta voglia di normalità. Non dobbiamo proiettare le nostre ansie sul domani, guardiamo più avanti. Non posso pensare che fra tre anni non ci saranno più i negozi, non credo a queste cose da film di fantascienza».Da poco ha passato il testimone da presidente di Confindustria moda, ma continua a essere presidente di Pitti immagine. Il settore tiene?«La moda è la seconda manifattura italiana dopo meccanica e automotive e viene prima della chimica. Un fatturato globale di quasi 100 miliardi, una bilancia commerciale positiva per 28 miliardi, 800.000 addetti senza considerare il retail. Insieme al food e all’arredamento siamo la bandiera del Paese nel mondo. Con Confindustria moda abbiamo fatto capire che il nostro non è un settore di gente viziatella, ma un’industria. Non esiste nessun altro comparto dove ogni sei mesi si prende il proprio prodotto, si butta tutto e si rifà da capo».Anche per le fiere il momento è tremendo. Cosa state studiando per il Pitti?«Pitti è una fiera di servizio, serve alle Pmi per farsi conoscere, per catalizzare la distribuzione. I buyers internazionali hanno bisogno di questi appuntamenti a cui partecipano anche i grandi marchi. Bisogna far capire che c’è sempre necessità di fiere e lo stiamo facendo attraverso il digitale e i social. La fiera che di solito dura tre o quattro giorni si estende nel tempo, online può durare una stagione intera. Lo sforzo è grande, dobbiamo far passare la nottata».
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.