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2019-06-06
Hanno guardato Noa morire di fame. Solo ora l’Olanda manda gli ispettori
Facebook
L'adolescente Noa Pothoven non sarebbe morta per eutanasia, almeno non quella autorizzata dallo Stato che nei Paesi Bassi è legale anche per persone con disturbi mentali e minorenni. Come sostiene Marco Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, questa ragazza di 17 anni, prostrata dai traumi delle violenze sessuali, «ha smesso di bere e mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti».
Quindi si tratterebbe di una forma di suicidio assistito dalla madre e dal padre assieme ai medici, che tuttavia non risultano indagati né sono stati arrestati per non aver mosso un dito guardando la giovane che si spegneva nella sua casa di Arnhem. Anzi, secondo alcune fonti i dottori avrebbero accompagnato Noa alla morte con sedazione profonda e cure palliative. Viene da chiedersi se, nella sostanza, ci sia qualche differenza con l'eutanasia avvallata dallo Stato: il fatto che la magistratura olandese non persegua i genitori, pur nella comprensione della loro disperazione, non è forse una sorta di nulla osta? E cosa dire dei medici che non l'hanno salvata? Se si tratta di un reato allora va punito, in caso contrario significa che lo si legittima. leri il ministero della Salute olandese ha avviato «un'ispezione sanitaria per verificare se è necessario aprire un'indagine» vera e propria.
I controlli non riguardano però l'eutanasia, ma intendono accertare «il tipo di cure e se ci sia stato qualche errore» nei trattamenti. Noa non aveva fatto mistero dei suoi propositi, annunciandoli pure sui social media. Il pericolo era sotto gli occhi di tutti: più volte aveva tentato il suicidio e anche smesso di andare a scuola, addirittura aveva scritto un libro sulla sua storia di stupri e desiderio di morte.
La madre racconta al quotidiano Gelderlander che la ragazza era stata ricoverata in tre diversi istituti, ma che in quello più adatto a lei c'era una lunghissima lista di attesa. E dice anche che la figlia aveva dovuto essere nutrita con un sondino in ospedale per più di un anno, visto che non voleva bere né mangiare. L'assistenza, secondo i genitori, non sarebbe stata all'altezza di uno dei sistemi sociosanitari più considerati al mondo. Che però in questa tragedia dimostra le falle e le contraddizioni di uno Stato che non sa aiutare a vivere, ma che è pronto a somministrare la morte. In Olanda l'eutanasia può essere accordata a partire dai 12 anni, ma solo dopo che i medici abbiano certificato che la sofferenza del paziente è insopportabile e senza alcuna via di uscita. Nel 2017 ben 6.585 persone hanno ottenuto l'eutanasia, circa il 4,4 per cento dei decessi totali nel Paese.
A Noa l'eutanasia legale era stata rifiutata quando, un paio d'anni fa, aveva contattato, autonomamente e senza informare la famiglia, una clinica specializzata dell'Aja. Le avevano risposto di no, scrive Gelderlander, riportando il post della ragazza pubblicato sui social: «Pensano che io sia troppo giovane per morire. Pensano che dovrei portare a termine il percorso di recupero dal trauma e aspettare che il mio cervello si sviluppi completamente. Non accadrà fino a quando non avrò 21 anni. Sono devastata, perché non posso più aspettare così tanto».
Però dopo il rifiuto i medici, pur ammettendo che c'era un'alternativa e quindi una via di guarigione, si sono disinteressati della ragazza che soffriva di disturbi da stress post traumatico, depressione, anoressia e autolesionismo. Anzi l'hanno di fatto osservata mentre moriva. Non sarà tecnicamente eutanasia, ma è la stessa cosa. Noa Pothoven aveva da poco pubblicato un'autobiografia che nei Paesi Bassi aveva ricevuto diversi riconoscimenti. In Vincere o imparare raccontava le violenze sessuali e la sua sofferenza. A 11 e 12 anni subisce le prime violenze in occasione di festicciole tra compagni di scuola. A 14 anni viene stuprata da due uomini mentre passeggia nel suo quartiere. Non denuncia l'aggressione, ma ne subisce gli effetti devastanti. Non ne parla neppure con i genitori «per paura e vergogna», e invece inizia a scrivere un diario poi diventato il suo libro. Spiega che, dopo anni, il suo corpo «si sente ancora sporco»: «Rivivo quella paura e quel dolore ogni giorno». Inizia così ad ammalarsi d'anoressia e l'adolescente scivola progressivamente in uno stato depressivo che diventa permanente.
Altri particolari sono svelati dalla corrispondente di Politico Europe, Naomi O'Leary, dopo aver parlato con Paul Bolwerk, il giornalista che ha seguito l'intera vicenda. «La famiglia ha provato diversi trattamenti psichiatrici e Noa è stata ripetutamente ospedalizzata», scrive, «ha fatto una serie di tentativi di uccidersi negli ultimi mesi. In preda alla disperazione, la famiglia ha quindi chiesto l'elettroshock, che è stato rifiutato a causa della giovane età. Quindi l'hanno affidata ai genitori installando un letto d'ospedale in casa sua. All'inizio di giugno ha iniziato a rifiutare tutti i liquidi e il cibo, i suoi genitori e i medici», conclude la giornalista di Politico Europe, «hanno accettato di non forzarla».
Eutanasia? Suicidio assistito? Rifiuto delle cure? Per questa ragazza olandese non fa differenza, di certo ora non c'è più. Come twitta Papa Francesco: «È una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza».
Carlo Piano
In Italia si esaminano ben 5 leggi per aprire le porte all’eutanasia
Il grande clamore suscitato dalla vicenda della povera Noa Pothoven offre lo spunto per riflettere su un passaggio riguardante il nostro Paese: l'esame, in corso in Parlamento, di ben cinque proposte di legge per introdurre l'eutanasia in Italia. Una ha per primo firmatario Matteo Mantero, senatore del Movimento 5 Stelle, ed è stata presentata nell'ottobre 2018. Si tratta, come spiegato dallo stesso Mantero, di «uno spunto per avviare il confronto, alla luce delle sollecitazioni della Corte costituzionale». Si ricorderà infatti che lo scorso anno la Corte costituzionale aveva esortato il Parlamento a colmare il «vuoto legislativo» sul fine vita, fissando anche una data entro cui farlo: il 24 settembre 2019.
Dal M5s è appena giunta anche la proposta di Giulia Sarti, che prevede pure il suicidio assistito ancorché limitato a chi fosse affetto da una condizione clinica irreversibile. Un altro ddl è quello di Andrea Marcucci del Pd, che però non convince lo stesso mondo radicale dato che continua a ritenere reato, sia pure diminuendone le pene, l'aiuto al suicidio. Ad essere il pole position è invece Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia, presentato per la prima volta alla Camera nel settembre 2013 accompagnato da 130.000 firme raccolte dall'associazione Luca Coscioni. Tale proposta, che al deputato piddino Alessandro Zan ne ha ispirata una quarta del tutto simile, si presenta snella (appena 4 articoli) ma assai limpida nelle finalità che si propone di conseguire.
In parole povere, il ddl d'iniziativa popolare legalizza l'eutanasia anche se, comunque, pone qualche paletto, come il fatto che essa non sia estesa al minore, eccetto nel caso in cui non abbia sottoscritto le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), e che sia praticabile solo se i parenti e il coniuge del paziente sono stati informati della richiesta di morire di quest'ultimo ed abbiano avuto modo di parlare con lui (articoli 3 4).
Tuttavia è l'esperienza internazionale a dirci come simili limitazioni lascino il tempo che trovano dato che un po' tutte le leggi eutanasiche, all'inizio, si pongono come restrittive salvo poi, per opera della magistratura o di qualche ulteriore intervento legislativo, spianare la strada agli scenari più impensabili. Olanda docet, checché ne dica Marco Cappato secondo cui «la legge olandese è più civile di quella italiana».
Tornando a noi, la proposta della Luca Coscioni, dal 30 gennaio all'esame delle commissioni Giustizia ed affari sociali della Camera, non si limita ad aprire alla «dolce morte». Introduce anche significative sanzioni per il personale medico e sanitario che non rispettasse la volontà mortifera dei pazienti. Motivo per cui, oltre ad allarmare il mondo pro life, preoccupa gli stessi medici. Lo provano le audizioni in corso in questi giorni. Come quella di Carlo Petrini, Direttore dell'unità di bioetica e presidente del comitato etico dell'Istituto superiore di sanità, il quale intervenendo presso le commissioni riunite si è soffermato proprio sulle conseguenze che una legge sull'eutanasia comporterebbe per il personale medico. In particolare ha tenuto a precisare che «sarebbe inaccettabile non prevedere l'obiezione di coscienza in eventuale normativa». Tanto più che essa trae fondamento giuridico dagli articoli 2 e 3 della Costituzione e che, dopo l'abolizione del servizio di leva obbligatorio, risulta ancora ammessa da ben tre normative: la legge 194 del 1978 sull'aborto procurato, la legge 413 del 1993 sulla sperimentazione animale e la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita.
Quelli di Petrini sono rilievi pertinenti dato che il ddl popolare sull'eutanasia non è che si ponga contro l'obiezione di coscienza dei medici: semplicemente non ne parla. E forse è pure peggio, dato che così un diritto fondamentale viene sostanzialmente abrogato. Staremo a vedere. Nel frattempo, anche i parlamentari pro life non sono stati guardare. Nel febbraio di quest'anno i senatori Gaetano Quagliariello di Idea e Maurizio Gasparri di Forza Italia hanno presentato ben tre disegni di legge contenenti altrettanti punti cruciali: l'esclusione di idratazione e alimentazione dal novero delle terapie, il divieto in assenza di Dat del rappresentante legale di rifiutare o interrompere le cure senza passare dal giudice e, da ultimo, la facoltà del medico di non applicare il biotestamento in caso di inappropriatezza clinica.
Sfortunatamente, i ddl di Quagliariello e Gasparri sono subito scomparsi dai radar dei grandi media. L'auspicio è tuttavia che richiami come quelli del dottor Petrini e soprattutto lo choc di vicende come quella di Noa possano ricordare all'opinione pubblica e ancor più ai nostri politici che occorre andarci piano, quando si parla di eutanasia legale. Perché si scherza col fuoco.
Giuliano Guzzo
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Riduci
La diciassettenne ha smesso di mangiare e bere. I suoi genitori e i medici hanno scelto di lasciarla fare Il ministero della Salute ordina controlli fuori tempo massimo: «Vedremo se si dovrà aprire un'indagine».Si discute dei ddl di radicali, Pd e M5s. Lo spot di Marco Cappato: «Paesi Bassi più civili di noi».Lo speciale contiene due articoliL'adolescente Noa Pothoven non sarebbe morta per eutanasia, almeno non quella autorizzata dallo Stato che nei Paesi Bassi è legale anche per persone con disturbi mentali e minorenni. Come sostiene Marco Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, questa ragazza di 17 anni, prostrata dai traumi delle violenze sessuali, «ha smesso di bere e mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti».Quindi si tratterebbe di una forma di suicidio assistito dalla madre e dal padre assieme ai medici, che tuttavia non risultano indagati né sono stati arrestati per non aver mosso un dito guardando la giovane che si spegneva nella sua casa di Arnhem. Anzi, secondo alcune fonti i dottori avrebbero accompagnato Noa alla morte con sedazione profonda e cure palliative. Viene da chiedersi se, nella sostanza, ci sia qualche differenza con l'eutanasia avvallata dallo Stato: il fatto che la magistratura olandese non persegua i genitori, pur nella comprensione della loro disperazione, non è forse una sorta di nulla osta? E cosa dire dei medici che non l'hanno salvata? Se si tratta di un reato allora va punito, in caso contrario significa che lo si legittima. leri il ministero della Salute olandese ha avviato «un'ispezione sanitaria per verificare se è necessario aprire un'indagine» vera e propria. I controlli non riguardano però l'eutanasia, ma intendono accertare «il tipo di cure e se ci sia stato qualche errore» nei trattamenti. Noa non aveva fatto mistero dei suoi propositi, annunciandoli pure sui social media. Il pericolo era sotto gli occhi di tutti: più volte aveva tentato il suicidio e anche smesso di andare a scuola, addirittura aveva scritto un libro sulla sua storia di stupri e desiderio di morte.La madre racconta al quotidiano Gelderlander che la ragazza era stata ricoverata in tre diversi istituti, ma che in quello più adatto a lei c'era una lunghissima lista di attesa. E dice anche che la figlia aveva dovuto essere nutrita con un sondino in ospedale per più di un anno, visto che non voleva bere né mangiare. L'assistenza, secondo i genitori, non sarebbe stata all'altezza di uno dei sistemi sociosanitari più considerati al mondo. Che però in questa tragedia dimostra le falle e le contraddizioni di uno Stato che non sa aiutare a vivere, ma che è pronto a somministrare la morte. In Olanda l'eutanasia può essere accordata a partire dai 12 anni, ma solo dopo che i medici abbiano certificato che la sofferenza del paziente è insopportabile e senza alcuna via di uscita. Nel 2017 ben 6.585 persone hanno ottenuto l'eutanasia, circa il 4,4 per cento dei decessi totali nel Paese.A Noa l'eutanasia legale era stata rifiutata quando, un paio d'anni fa, aveva contattato, autonomamente e senza informare la famiglia, una clinica specializzata dell'Aja. Le avevano risposto di no, scrive Gelderlander, riportando il post della ragazza pubblicato sui social: «Pensano che io sia troppo giovane per morire. Pensano che dovrei portare a termine il percorso di recupero dal trauma e aspettare che il mio cervello si sviluppi completamente. Non accadrà fino a quando non avrò 21 anni. Sono devastata, perché non posso più aspettare così tanto». Però dopo il rifiuto i medici, pur ammettendo che c'era un'alternativa e quindi una via di guarigione, si sono disinteressati della ragazza che soffriva di disturbi da stress post traumatico, depressione, anoressia e autolesionismo. Anzi l'hanno di fatto osservata mentre moriva. Non sarà tecnicamente eutanasia, ma è la stessa cosa. Noa Pothoven aveva da poco pubblicato un'autobiografia che nei Paesi Bassi aveva ricevuto diversi riconoscimenti. In Vincere o imparare raccontava le violenze sessuali e la sua sofferenza. A 11 e 12 anni subisce le prime violenze in occasione di festicciole tra compagni di scuola. A 14 anni viene stuprata da due uomini mentre passeggia nel suo quartiere. Non denuncia l'aggressione, ma ne subisce gli effetti devastanti. Non ne parla neppure con i genitori «per paura e vergogna», e invece inizia a scrivere un diario poi diventato il suo libro. Spiega che, dopo anni, il suo corpo «si sente ancora sporco»: «Rivivo quella paura e quel dolore ogni giorno». Inizia così ad ammalarsi d'anoressia e l'adolescente scivola progressivamente in uno stato depressivo che diventa permanente. Altri particolari sono svelati dalla corrispondente di Politico Europe, Naomi O'Leary, dopo aver parlato con Paul Bolwerk, il giornalista che ha seguito l'intera vicenda. «La famiglia ha provato diversi trattamenti psichiatrici e Noa è stata ripetutamente ospedalizzata», scrive, «ha fatto una serie di tentativi di uccidersi negli ultimi mesi. In preda alla disperazione, la famiglia ha quindi chiesto l'elettroshock, che è stato rifiutato a causa della giovane età. Quindi l'hanno affidata ai genitori installando un letto d'ospedale in casa sua. All'inizio di giugno ha iniziato a rifiutare tutti i liquidi e il cibo, i suoi genitori e i medici», conclude la giornalista di Politico Europe, «hanno accettato di non forzarla». Eutanasia? Suicidio assistito? Rifiuto delle cure? Per questa ragazza olandese non fa differenza, di certo ora non c'è più. Come twitta Papa Francesco: «È una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza».Carlo Piano<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/hanno-guardato-noa-morire-di-fame-solo-ora-lolanda-manda-gli-ispettori-2638701630.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-italia-si-esaminano-ben-5-leggi-per-aprire-le-porte-alleutanasia" data-post-id="2638701630" data-published-at="1765657118" data-use-pagination="False"> In Italia si esaminano ben 5 leggi per aprire le porte all’eutanasia Il grande clamore suscitato dalla vicenda della povera Noa Pothoven offre lo spunto per riflettere su un passaggio riguardante il nostro Paese: l'esame, in corso in Parlamento, di ben cinque proposte di legge per introdurre l'eutanasia in Italia. Una ha per primo firmatario Matteo Mantero, senatore del Movimento 5 Stelle, ed è stata presentata nell'ottobre 2018. Si tratta, come spiegato dallo stesso Mantero, di «uno spunto per avviare il confronto, alla luce delle sollecitazioni della Corte costituzionale». Si ricorderà infatti che lo scorso anno la Corte costituzionale aveva esortato il Parlamento a colmare il «vuoto legislativo» sul fine vita, fissando anche una data entro cui farlo: il 24 settembre 2019. Dal M5s è appena giunta anche la proposta di Giulia Sarti, che prevede pure il suicidio assistito ancorché limitato a chi fosse affetto da una condizione clinica irreversibile. Un altro ddl è quello di Andrea Marcucci del Pd, che però non convince lo stesso mondo radicale dato che continua a ritenere reato, sia pure diminuendone le pene, l'aiuto al suicidio. Ad essere il pole position è invece Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia, presentato per la prima volta alla Camera nel settembre 2013 accompagnato da 130.000 firme raccolte dall'associazione Luca Coscioni. Tale proposta, che al deputato piddino Alessandro Zan ne ha ispirata una quarta del tutto simile, si presenta snella (appena 4 articoli) ma assai limpida nelle finalità che si propone di conseguire. In parole povere, il ddl d'iniziativa popolare legalizza l'eutanasia anche se, comunque, pone qualche paletto, come il fatto che essa non sia estesa al minore, eccetto nel caso in cui non abbia sottoscritto le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), e che sia praticabile solo se i parenti e il coniuge del paziente sono stati informati della richiesta di morire di quest'ultimo ed abbiano avuto modo di parlare con lui (articoli 3 4). Tuttavia è l'esperienza internazionale a dirci come simili limitazioni lascino il tempo che trovano dato che un po' tutte le leggi eutanasiche, all'inizio, si pongono come restrittive salvo poi, per opera della magistratura o di qualche ulteriore intervento legislativo, spianare la strada agli scenari più impensabili. Olanda docet, checché ne dica Marco Cappato secondo cui «la legge olandese è più civile di quella italiana». Tornando a noi, la proposta della Luca Coscioni, dal 30 gennaio all'esame delle commissioni Giustizia ed affari sociali della Camera, non si limita ad aprire alla «dolce morte». Introduce anche significative sanzioni per il personale medico e sanitario che non rispettasse la volontà mortifera dei pazienti. Motivo per cui, oltre ad allarmare il mondo pro life, preoccupa gli stessi medici. Lo provano le audizioni in corso in questi giorni. Come quella di Carlo Petrini, Direttore dell'unità di bioetica e presidente del comitato etico dell'Istituto superiore di sanità, il quale intervenendo presso le commissioni riunite si è soffermato proprio sulle conseguenze che una legge sull'eutanasia comporterebbe per il personale medico. In particolare ha tenuto a precisare che «sarebbe inaccettabile non prevedere l'obiezione di coscienza in eventuale normativa». Tanto più che essa trae fondamento giuridico dagli articoli 2 e 3 della Costituzione e che, dopo l'abolizione del servizio di leva obbligatorio, risulta ancora ammessa da ben tre normative: la legge 194 del 1978 sull'aborto procurato, la legge 413 del 1993 sulla sperimentazione animale e la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Quelli di Petrini sono rilievi pertinenti dato che il ddl popolare sull'eutanasia non è che si ponga contro l'obiezione di coscienza dei medici: semplicemente non ne parla. E forse è pure peggio, dato che così un diritto fondamentale viene sostanzialmente abrogato. Staremo a vedere. Nel frattempo, anche i parlamentari pro life non sono stati guardare. Nel febbraio di quest'anno i senatori Gaetano Quagliariello di Idea e Maurizio Gasparri di Forza Italia hanno presentato ben tre disegni di legge contenenti altrettanti punti cruciali: l'esclusione di idratazione e alimentazione dal novero delle terapie, il divieto in assenza di Dat del rappresentante legale di rifiutare o interrompere le cure senza passare dal giudice e, da ultimo, la facoltà del medico di non applicare il biotestamento in caso di inappropriatezza clinica. Sfortunatamente, i ddl di Quagliariello e Gasparri sono subito scomparsi dai radar dei grandi media. L'auspicio è tuttavia che richiami come quelli del dottor Petrini e soprattutto lo choc di vicende come quella di Noa possano ricordare all'opinione pubblica e ancor più ai nostri politici che occorre andarci piano, quando si parla di eutanasia legale. Perché si scherza col fuoco. Giuliano Guzzo
iStock
Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Riduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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