2022-03-11
I guerrafondai ipocriti ci portano in recessione
Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti mettono in guardia, Roberto Cingolani parla di «rischio di tragedia sociale» se manca il gas di Mosca. Alle aziende costrette a chiudere lo spieghino i partigiani in pantofole che è il giusto prezzo per battere Vladimir Putin.Da giorni, sui principali quotidiani, leggo articoli in cui si annuncia il prossimo default della Russia. Le sanzioni decise da America ed Europa dopo l’invasione dell’Ucraina avrebbero colpito duro e le principali banche di Mosca, insieme con alcune delle più importanti aziende, sarebbero sull’orlo del fallimento. Confesso che non ho gli strumenti per soppesare queste apocalittiche previsioni. Di certo, la guerra ha accentuato le croniche inefficienze del Paese ed è probabile che, nonostante il prezzo del gas sia decuplicato, i conti di Putin e del suo impero non tornino. Tuttavia, gli effetti sul rublo delle misure decise per fermare l’Armata rossa mi interessano fino a un certo punto. Ciò che mi preme sono le conseguenze che quegli stessi provvedimenti hanno sul nostro Pil e sul bilancio delle famiglie italiane. Perché mi pare evidente che se la Russia rischia la bancarotta, anche il nostro Paese non è destinato a uscire indenne dal conflitto. Pur non dovendo finanziare una guerra, supportare un esercito e incrementare un arsenale, l’Italia senza volerlo è in prima linea e rischia di pagare a caro prezzo una battaglia che non ha voluto e alla quale non intende partecipare.Sono troppo pessimista? Beh, il primo a esserlo è il presidente del Consiglio, il quale ieri ha parlato di «un forte rischio di recessione». Un’idea che pare condivisa dal ministro allo Sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti. Per non parlare poi di Roberto Cingolani che, a proposito di gas, ha detto che l’interruzione delle forniture sarebbe una tragedia sociale per la Germania e di conseguenza anche per noi. Il concetto è chiaro: più questa guerra continua e più la pagheremo cara. E non soltanto perché il prezzo del gasolio ha superato quello già altissimo della benzina (del resto, che cosa c’era da aspettarsi se Joe Biden e Boris Johnson all’unisono annunciano lo stop alle importazioni di greggio dalla Russia?), ma perché, oltre a incidere sulle quotazioni di petrolio e carbone, le misure economiche contro Mosca provocano a cascata un aumento generalizzato dei costi di importazione delle materie prime, oltre che un taglio delle forniture. Non voglio fare qui un elenco di ciò che è rincarato nelle ultime due settimane. Mi limito a segnalare ciò che riguarda il settore in cui noi giornalisti operiamo. In pochi mesi, per effetto del Covid prima e della guerra poi, il prezzo della carta è raddoppiato. L’incremento delle vendite online ha infatti spinto la richiesta di imballaggi e così, visto che le tirature della stampa calano, le cartiere si sono riconvertite e producono cartone. E come è normale per qualsiasi settore, quando si riduce l’offerta, il prezzo sale. Ma questa era la situazione prima che l’Ucraina venisse invasa e il prezzo del gas schizzasse. Ora che la bolletta è alle stelle, anche pagando il doppio, le tonnellate di carta necessarie a stampare quotidiani e periodici non ci sono. Con data 9 marzo la cartiera norvegese che ci riforniva ci ha comunicato che dalla fine del mese sospenderà la produzione. Troppo alto il prezzo del gas e dell’elettricità, troppo volatile uno dei costi principali nella lavorazione delle bobine che riforniscono le rotative. La lettera, che ho sotto gli occhi mentre scrivo, fa riferimento agli imprevisti e drammatici eventi in corso in Ucraina e spiega che la società è «costretta» a sospendere con effetto immediato la produzione per limitare i danni economici, cancellando gli ordini e gli accordi in corso. Qualcuno potrebbe obiettare che si può vivere anche senza giornali. Certo (anche se poi l’informazione sarebbe ridotta ai social, i quali non mi pare che in questo momento brillino, basti pensare alla quantità di balle di cui sono inondati), ma il mio è un piccolissimo esempio, perché ciò che vi ho raccontato non riguarda solo l’editoria, ma ogni settore produttivo. Il rincaro delle bollette sta mettendo in ginocchio centinaia se non migliaia di aziende, costringendo negozi e ristoranti a tirar giù la serranda perché il lavoro non vale le spese a cui si deve far fronte. Ogni giorno, sui quotidiani locali si possono leggere notizie di fabbriche che hanno deciso di chiudere e mettere in libertà i dipendenti, perché produrre non conviene più. Oppure perché la materia prima non c’è più. Ieri Mosca ha annunciato lo stop al commercio dei fertilizzanti e i produttori di pasta non sanno come alimentare la loro catena produttiva, perché da Ucraina e Russia non arriva più farina. Grazie alle sanzioni, la Russia oggi è ridotta all’autarchia, si consolano gli artiglieri da salotto tipo Federico Fubini e Paolo Mieli. Evviva, le grandi aziende abbandonano Mosca: dal colosso dei container Maersk al gigante dell’elettronica Samsung, tutti fuggono per non macchiare la propria immagine facendo affari con uno Stato canaglia. Bene. Anzi, ottimo. Più isoliamo Putin e meglio è. Però tutto ciò ha un costo, che non si traduce nel miliardo che sborsiamo per ogni giorno di guerra e nemmeno nei listini dei mercati che fanno su e giù. No, il costo è la recessione di cui parla Draghi, che si traduce in minori posti di lavoro, più inflazione e una decrescita infelice. I guerrafondai ipocriti, quelli per la lotta dura senza paura in nome dei principi, calcolano che i soli rincari dell’energia nel 2022 ridurranno la nostra crescita del 2,6. E forse sono ottimisti, perché nessuno ha ancora tirato le somme di quello che sta succedendo nell’economia reale. Certo, in nome della libertà è giusto fare sacrifici: ma tra questi partigiani in pantofole c’è qualcuno che lo ha spiegato agli italiani?
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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