
C’erano una volta le dichiarazioni di guerra. Frutto di meticolosa preparazione nelle cancellerie diplomatiche, illustravano con dovizia di argomentazioni il perché della ritenuta necessità della guerra contro il Paese cui la dichiarazione era diretta. E c’erano i trattati di pace, che mettevano formalmente fine alle guerre, il più delle volte con reciproche concessioni, ovviamente più pesanti da parte di chi, complessivamente, era risultato soccombente nel confronto di forze sui campi di battaglia. Le guerre non erano dirette alla reciproca distruzione dei belligeranti ma solo a risolvere, con una sorta di «giudizio di Dio», le controversie che non si erano potute appianare per via diplomatica.
Non a caso sui cannoni compariva non di rado l’iscrizione: «Ultima ratio regum» e cioè ultimo argomento al quale i re, quali capi di Stato, ricorrevano a sostegno delle reciproche pretese. E le guerre finivano quando uno dei contendenti, senza essere stato totalmente debellato, si rendeva conto della inferiorità delle proprie forze e della convenienza, quindi, di venire a patti con l’avversario per evitare danni maggiori. Questo modello cominciò gradualmente ad affermarsi a partire dalla fine, nel 1648, della guerra dei trent’anni (ultima tra le guerre europee riconducibili a motivazioni di ordine religioso) e durò, sostanzialmente, fino all’inizio della prima guerra mondiale. Il primo segno della sua crisi fu costituito dalla pace di Versailles, che pose fine a quella guerra. Essa non fu, infatti, a differenza delle precedenti, frutto di vere e proprie trattative, ma assunse la forma del diktat nei confronti dei Paesi sconfitti, ai quali si volle addebitare anche la esclusiva responsabilità morale di quella che si era rivelata come un’imprevista e immane tragedia, della quale occorreva scongiurare il ripetersi.
La guerra cominciò, quindi, a non essere più considerata, secondo la nota formula di Karl von Clausevitz, una prosecuzione della politica con altri mezzi e, pertanto, un legittimo strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Per metterla al bando fu creata la Società delle nazioni, seguita poi, dopo la fine della seconda guerra mondiale (che essa non aveva potuto impedire), dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), nel cui statuto era, per la prima volta, espressamente affermato, all’articolo 2, comma 3, che le controversie internazionali dovevano essere risolte solo «con mezzi pacifici». Si ammetteva soltanto, all’articolo 51, il diritto di autodifesa di ciascuno Stato a fronte di un attacco armato, ma solo «fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali».
Ma il Consiglio di sicurezza quasi mai si è dimostrato in grado di assolvere a tali compiti, essenzialmente a causa della pressoché costante contrapposizione, nell’ambito dei cinque membri permanenti, ciascuno dotato del potere di veto, tra Russia e Cina, da una parte, e Usa, Francia e Gran Bretagna, dall’altra. Di conseguenza le controversie internazionali hanno continuato imperterrite a dar luogo a conflitti armati non più preceduti, però, da formali dichiarazioni di guerra, essendo queste da evitarsi se non altro per non incorrere in una conclamata violazione dello Statuto dell’Onu. Ed ecco, allora, che l’azione di guerra viene, molto semplicemente, posta in essere ex abrupto, confidando nell’effetto sorpresa e nell’altrui acquiescenza al fatto compiuto. Fu questo il caso, ad esempio, dell’occupazione del territorio portoghese di Goa, nella penisola indiana, ad opera dell’India governata dal «pacifista» Jawaharlal Nehru, nel 1961; quello dell’occupazione di parte dell’isola di Cipro ad opera della Turchia, nel 1974 o, ancora, quello dell’occupazione delle isole Falkland, sotto sovranità britannica, da parte dell’Argentina, nel 1982. Caso, quest’ultimo, in cui, però, a differenza dei precedenti, l’aggressore ebbe a subire l’imprevisto, vittorioso contrattacco dell’aggredito. In altri casi, più recenti, le azioni di guerra, condotte da Usa e alleati vari (ivi compresa, talvolta, l’Italia) , sono state contrabbandate sotto mentite spoglie quali, ad esempio, quelle di: «operazione di polizia internazionale» (guerre contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 1990 e nel 2003); «intervento umanitario» (guerra aerea, nel 1999, contro la Serbia di Slobodan Milosevic, presunta responsabile di violenze in danno degli abitanti del Kosovo); sostegno alla «primavera araba» (altra guerra aerea, nel 2011, contro la Libia del «dittatore» Muhammar Gheddafi). Non stupisce, quindi, che, alla luce di tali esempi, sia stata definita «operazione militare speciale» la guerra intrapresa nel 2022 dalla Russia di Vladimir Putin, volta a impedire l’adesione dell’Ucraina alla Nato e ad annetterne i territori a popolazione russofona.
Alla mancanza della dichiarazione di guerra fa poi da riscontro quella di un trattato di pace che la concluda. Le ostilità cessano per effetto del completo e irreversibile successo di uno dei due contendenti ovvero quando la loro prosecuzione si appalesa, per le più varie ragioni, almeno al momento e per un tempo più o meno lungo, come impossibile o inutile, senza che, però, ne segua una stabile definizione del contenzioso dal quale il conflitto armato ha avuto origine. E proprio quest’ultima, con riguardo al conflitto russo - ucraino, appare la più realistica delle ipotesi. La Russia, infatti, vincitrice o, comunque, in posizione di forte vantaggio sul campo, mai potrebbe accettare una vera e propria «pace» che non comportasse il riconoscimento del passaggio sotto la sua sovranità dei territori ucraini da essa rivendicati e, per buona parte, occupati. Ma a una tale soluzione non si rassegnano quanti - a cominciare dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per finire alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, passando per il gruppo anglo-franco-tedesco dei cosiddetti - vogliono, in realtà, per occulte (ma non tanto) ragioni, la prosecuzione della guerra. E costoro hanno buon gioco nell’appellarsi al principio, chiaramente desumibile dallo statuto dell’Onu, secondo cui non sono ammissibili modifiche territoriali ottenute con la forza. Di qui una paradossale ma ineludibile conclusione: quella, cioè, che proprio il generalizzato divieto di uso della forza per la soluzione delle controversie internazionali, non essendo presidiato da un’autorità in grado di farlo rispettare, può finire per porsi come ostacolo - pretestuoso, forse, ma non per questo meno efficace - al conseguimento di quella che, come nel caso del conflitto russo-ucraino, appaia, piaccia o non piaccia, l’unica «pace» effettivamente possibile. Chissà se, allora, tutto sommato, non sarebbe forse meglio per tutti un ritorno a Von Clausevitz.
Pietro Dubolino
Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione






