2025-04-30
La sfida di Trump: una pace come 200 anni fa
«Foreign Policy» inquadra l’obiettivo del tycoon: riproporre l’equilibrio tra potenze che, dal 1815, portò un secolo di stabilità in Europa dopo le guerre napoleoniche. Strategia rischiosa, che però potrebbe porre fine al caos e limitare certe ambizioni degli Stati «canaglia».La vittoria dei liberal in Canada, inattesa fino a quando la Casa Bianca non ha iniziato a minacciare dazi, evocando l’annessione del Paese agli Stati Uniti, è stata interpretata come un avvertimento a Donald Trump: il mondo, gli alleati storici in primo luogo, non accetteranno di essere bullizzati dal tycoon. Ma davvero la politica estera del presidente americano è solo il frutto della sconsiderata e arrogante ambizione di un aspirante autocrate?Nell’ultimo numero del mensile Foreign Policy, un editoriale di Stacie E. Goddard, politologa del Wellesley College in Massachusetts, prova a dare un’interpretazione razionale delle mosse di The Donald. La cui idea, scrive la studiosa, è che alla classica cornice basata sulla «competizione tra grandi potenze» si debba sostituire quella di una «combutta tra grandi potenze». Ossia, un «sistema del “Concerto” affine a quello che caratterizzò l’Europa durante il XIX secolo», quando - superato lo choc della Rivoluzione francese e assorbita la forza d’urto delle guerre napoleoniche, che erano scaturite dalle brame individuali del condottiero ma erano state alimentate anche dalla contrapposizione ideologica tra Parigi e gli imperi del Vecchio continente - il Congresso di Vienna (1815) ripristinò un ordine internazionale fondato sul riconoscimento reciproco delle sfere d’influenza delle antiche monarchie. Con tutti i suoi limiti e pur nell’impossibilità di neutralizzare le spinte centripete esplose nel 1797 alla Bastiglia, capaci di nutrire il fiume carsico prima e poi l’incendio dei nazionalismi, quell’accordo assicurò all’Europa un secolo di stabilità. Un secolo di pace, ancorché interrotta da alcuni conflitti limitati (tipo la guerra franco-prussiana del 1870-71), che purtroppo furono il preludio della catastrofe del 1914.Un altro paragone utile è quello con l’assetto fissato a Yalta, architettato da Franklin D. Roosevelt nel 1945. Anche la complessa intesa tra gli occidentali e l’Unione sovietica, al netto delle varie e pure gravi crisi che si susseguirono nei decenni, fu la base di un sistema che è rimasto pacificato almeno fino a quando, con il terrorismo islamico e le campagne militari della Federazione russa nell’Est, il pilastro dell’architettura internazionale postbellica non si è definitivamente incrinato. Insieme alla presenza del deterrente atomico, la disponibilità a raggiungere un equilibrio globale contribuì a mantenere «fredda» una guerra tra Usa e Urss che, come peraltro rischiò di avvenire in Corea negli anni Cinquanta, sarebbe potuta diventare caldissima. «Ciò che vuole Trump», rileva l’autorevole rivista, «è un mondo gestito da uomini forti che lavorano insieme - non sempre in armonia, ma sempre con risolutezza - per imporre una visione condivisa dell’ordine al resto del pianeta. Ciò non significa che gli Stati Uniti smetteranno del tutto di competere con la Cina e la Russia: la competizione tra grandi potenze è una caratteristica della politica internazionale duratura e ineludibile. Tuttavia, la competizione tra grandi potenze in quanto principio d’organizzazione della politica estera americana si è dimostrata notevolmente superficiale e di breve durata».Che l’inquilino della Casa Bianca sia disposto a sacrificare pezzi di Ucraina pur di arrivare a una soluzione della guerra, riaprendo il dialogo e persino una qualche cooperazione con Vladimir Putin, era ormai noto. E rimane un punto fermo, nonostante la ritrovata intesa «vaticana» con Volodymyr Zelensky e i segnali di insofferenza trasmessi al Cremlino, che invece sta prendendo tempo. Meno intuitiva è l’osservazione di Goddard, secondo cui Trump, in fondo, vorrebbe imbarcare pure la Cina di Xi Jinping in questo nuovo Concerto internazionale. Qui sta la vera incognita: Pechino sarebbe disponibile? E quanto Washington sarebbe pronta a concederle? Arrivare al divorzio dagli europei sarebbe il prezzo che il Dragone pagherebbe per garantirsi l’egemonia sull’Indo-Pacifico? Oppure un conflitto è davvero inevitabile? In fondo, se si punta a un bilanciamento globale, non si può sorvolare sulle sperequazioni del sistema commerciale. Il vantaggio del disegno del tycoon è evidente. Intanto, offrirebbe un’alternativa al modello liberale in agonia. In più, aiuterebbe l’Occidente a uscire dalla trappola dell’assolutismo etico applicato alle relazioni internazionali; quello, per intenderci, che ha portato l’amministrazione Biden a concepire l’invasione dell’Ucraina come un attacco «all’ordine guidato dagli Usa» e a rispondere con la pericolosa e, per noi europei, deleteria strategia dell’escalation controllata. Infine, la «combutta tra grandi potenze» potrebbe limitare le ambizioni di quelle emergenti: Stati canaglia tipo la Corea del Nord, oltre ad attori regionali quali Iran e Pakistan, le cui capacità nucleari destano legittime angosce.Foreign Policy esprime riserve sull’approccio trumpiano. Ne contesta gli aspetti personalistici: The Donald si comporterebbe, più che da statista, da imprenditore che tratta con altri affaristi. Il giornale nota pure che, nell’era della globalizzazione, definire le reciproche sfere d’influenza sarà arduo - le asperità del negoziato con Putin lo comprovano. Sottolinea che le piccole e medie potenze potrebbero rivoltarsi, il che accrescerebbe l’instabilità anziché ridurla: in Canada ha vinto il candidato più anti Trump; gli altri territori rivendicati, Groenlandia e Panama, ribollono. E comunque, Foreign Policy giudica fallimentare l’esperimento del 1815, alla luce della tragedia della Grande guerra, cent’anni dopo. Ma nessun ordine globale dura per sempre; la pace, nella storia, è sempre un intervallo. L’arte sta nel renderlo più lungo possibile.
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