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2022-07-08
Il gregge dei Tories fa dimettere BoJo. Già partita la gara per la successione
Boris Johnson (Ansa)
Comunque la pensiate su di lui, non sottovalutate il discorso di congedo pronunciato ieri da Boris Johnson davanti al portone del numero 10 di Downing Street: sei minuti orgogliosi, a tratti spigolosi, di un uomo che ha rifiutato la parte ipocrita della vittima sacrificale, della madonnina infilzata, del finto umile. Il premier uscente, sfoggiando la sua proverbiale tempra combattiva, ha letteralmente sfidato chi ora lo sta cacciando dalla guida del partito e del governo.
E lo ha fatto in tre passaggi. Il primo è stato quando ha chiarito che la volontà di farlo dimettere è del «parliamentary Conservative party»: formalmente è una pura constatazione di ciò che accade, vista la valanga di dimissioni di ministri e sottosegretari e la raffica di lettere di sfiducia contro di lui firmate da molte decine di deputati Tories; ma, sostanzialmente, è un modo per sottolineare che si tratta di una scelta di palazzo, del gruppo parlamentare, non degli elettori. E infatti per il resto dello speech Johnson si è rivolto al «British public»: alla gente come una cosa distinta e distante dai politici che lo hanno sfiduciato.
Il secondo passaggio, più perfido, è stato quando Johnson ha menzionato gli immensi numeri da lui ottenuti alle elezioni del 2019, ricordando come molti di quegli elettori «avessero votato per i conservatori per la prima volta» (come dire: sono voti miei, non vostri), e rimarcando come si sia trattato della più grande maggioranza conservatrice dal 1987, e della percentuale più alta dal 1979.
Il terzo passaggio è stato quando Johnson ha evocato l’«herd instinct», letteralmente l’istinto di gregge scatenatosi contro di lui. Non esattamente un elogio del suo gruppo parlamentare.
Poi Johnson ha rivendicato i suoi «achievements»: «Aver realizzato Brexit, recuperando poteri per il nostro Paese»; i successi nel contrasto alla pandemia, con «la più rapida uscita» al mondo dal lockdown; l’aver «guidato l’Occidente nel resistere all’aggressione di Vladimir Putin».
Quindi l’elogio del sistema istituzionale britannico: «Il nostro brillante sistema darwiniano produrrà un altro leader ugualmente impegnato a portare avanti il paese». Conclusione: «Alcuni saranno sollevati, altri dispiaciuti» per le dimissioni: «Voglio che sappiate quanto sono triste nel lasciare il miglior lavoro del mondo. Vi ringrazio per l’immenso privilegio che mi avete dato. I vostri interessi saranno serviti finché il nuovo primo ministro sarà al suo posto». Battuta finale con la consueta capacità, da giornalista e scrittore, di immaginare titoli a effetto: «Anche se le cose appaiono scure, il nostro futuro insieme è dorato, luminoso».
E adesso che succede? In mattinata fonti vicine a Johnson avevano ipotizzato una sua permanenza a Downing street fino a ottobre, quando è prevista la conferenza dei conservatori. Ma nel corso della giornata un po’ tutti, sia gli assedianti sia l’assediato, hanno finito per convergere su una formula diversa: il procedimento per il «leadership contest» inizierà presto, e Johnson resterà solo finché il nuovo leader non sarà stato scelto. Quindi non «fino a» ottobre, realisticamente, ma «entro» ottobre: e probabilmente molto prima. A meno che già nei prossimi giorni non sia individuato un altro reggente.
Di fatto già nel weekend tutti i potenziali aspiranti usciranno allo scoperto. Tra loro segnaliamo Rishi Sunak e Sajid Javid (gli ex ministri delle Finanze e della Sanità che con le loro dimissioni hanno fatto deflagrare tutto già martedì sera), oppure Jeremy Hunt, o il capo negoziatore Brexit David Frost, o la ministra degli Esteri Liz Truss, o il ministro della Difesa Ben Wallace (in tempi di guerra queste ultime due figure sono ovviamente quotatissime), oppure il veterano di guerra Tom Tugendhat, oppure il neonominato ministro delle Finanze Nadim Zahawi: tutte leadership saldamente atlantiste, perché la posizione sulla guerra non è in discussione da parte di nessuno.
Stendendo un bilancio, Johnson può rivendicare alcuni meriti indiscutibili: essere stato una macchina da voti senza rivali; aver guidato il contrasto alla pandemia con le minori (e più brevi) restrizioni al mondo; e, soprattutto, aver realizzato Brexit. Va sottolineato che il negoziato finale ebbe successo proprio grazie alla sua irruenza, mentre le timide strategie dell’iper moderata Theresa May non avevano avuto successo. E proprio su questo dovrebbe riflettere chi ha sempre caricaturizzato Johnson: nella politica contemporanea, spesso è proprio il portatore di un carisma speciale (e anche di un grano di «follia») a poter conseguire risultati non ordinari.
In negativo, Johnson paga diverse cose: non aver realizzato i promessi tagli di tasse e aver scelto una linea economica perfino dirigista; non essere riuscito a far quadrare il cerchio tra i vecchi elettori conservatori (tradizionalmente più thatcheriani) e i nuovi elettori provenienti da sinistra; e aver tentato di recitare la parte del finto tonto rispetto agli scandali che avvenivano intorno a lui. Su queste cose, non solo i parlamentari, ma anche il «British public» non perdona.
Populista da abbattere, ma contro Putin faceva comodo
Come spesso gli capita, il più velenoso è stato l’eurolirico belga Guy Verhofstadt, uno degli odiatori di Brexit, anzi dei traumatizzati da Brexit. Ecco il suo tweet di ieri: «Il regno di Boris Johnson finisce in disgrazia, proprio come quello del suo amico Donald Trump. È la fine dell’era dei populismi transatlantici? Speriamo. Le relazioni Ue-Uk hanno enormemente sofferto a causa della scelta di Johnson di Brexit». E in poche righe c’è tutto in termini di distorsione della realtà: Brexit non come scelta democratica, in un referendum, della maggioranza dei britannici, ma come avventura di un solo uomo; disprezzo personale; nessun riconoscimento cavalleresco delle virtù dell’avversario.
Diciamolo con franchezza. Quando tra qualche anno, sine ira et studio, con il necessario distacco temporale ed emotivo, si scriverà la storia europea dei primi vent’anni di questo secolo, l’evento Brexit sarà probabilmente quello che meglio fotograferà l’incapacità delle nostre classi dirigenti (politiche, editoriali, culturali) di comprendere il proprio tempo. Gli appartenenti alla supercasta sacerdotale braminica dei nostri intellettuali non ci hanno capito una mazza, come si direbbe a Cambridge. Prima del giugno 2016, hanno tassativamente escluso, tra risatine e sarcasmi, una vittoria del «Leave»; poi hanno pronosticato sciagure (indimenticabile la previsione secondo cui a Londra sarebbero mancati cibo e medicinali); poi sono passati a trattare il Regno Unito come una specie di provincia ribelle.
La vicenda del Coronavirus ha peggiorato le cose. Inizialmente, durante la prima ondata (primo semestre 2020), gli eurolirici e gli euromistici, con una schadenfreude degna di miglior causa, si sono ringalluzziti davanti alle difficoltà con cui l’Uk stava affrontando la pandemia. L’irrisione verso Boris Johnson, perfino durante il suo ricovero in condizioni gravi in terapia intensiva, non è sembrata conoscere freni.
Ma i ghigni di superiorità (tra Bruxelles, Parigi, Berlino e Roma) si sono presto trasformati in una paralisi facciale quando si è passati dal 2020 al 2021. Allora, infatti, il Regno Unito non ha solo vinto la gara dall’uscita della pandemia: ha letteralmente trionfato. Mescolando vaccinazioni (mai obbligatorie) e restrizioni limitatissime anche nel tempo, e una sequenza programmata e rapidissima di riaperture (a marzo 2021 le scuole, ad aprile i pub, a maggio i teatri e gli stadi, e a luglio fine di ogni limitazione).
In tutte queste circostanze Johnson è stato presentato come una caricatura, un fracassone, uno sfasciacarrozze. Perfino dimenticando il suo profilo culturale, gli studi a Eton e Oxford, la passione per il latino e il greco, la sua attività giornalistica (al Telegraph e allo Spectator), i suoi nove libri, il più famoso dei quali è una splendida, calda e intelligente biografia di Winston Churchill.
Un uomo di cultura europea: e che, proprio per questo, non ama questa Ue. Un uomo che conosce l’importanza della buona immigrazione: e che, proprio per questo, vuole regolarla e limitarla, affinché non diventi una valanga incontrollabile. Un uomo orgogliosamente British: ma anche un intellettuale cosmopolita. Un giornalista e scrittore colto e sofisticato: ma sempre popolare, mai pomposo e noioso.
Solo una volta, in questi anni, è scattata una sorta di «amnistia» pro Johnson da parte di politici e media mainstream in Italia e in Ue: per le sue posizioni intransigenti contro Vladimir Putin, dopo l’attacco russo all’Ucraina. E qui non si tratta di entrare nel merito della sua posizione: la si può condividere (come fa chi scrive queste righe) oppure no. Quel che conta è l’ipocrisia e il doppio standard di chi gli ha sempre negato dignità e lo ha costantemente irriso, salvo elogiarlo in una sola circostanza. Ma era una parentesi: negli ultimi giorni si è tornati alla consueta demonizzazione.
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Johnson vuole restare premier fino alla scelta del nuovo leader che continuerà la politica atlantista. Tanti ministri nel toto-nomi.Guy Verhofstadt: l’ipocrisia dei detrattori di Mr Brexit, prima irriso, criticato e demonizzato. Poi la (breve) riabilitazione con la guerra in Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.Comunque la pensiate su di lui, non sottovalutate il discorso di congedo pronunciato ieri da Boris Johnson davanti al portone del numero 10 di Downing Street: sei minuti orgogliosi, a tratti spigolosi, di un uomo che ha rifiutato la parte ipocrita della vittima sacrificale, della madonnina infilzata, del finto umile. Il premier uscente, sfoggiando la sua proverbiale tempra combattiva, ha letteralmente sfidato chi ora lo sta cacciando dalla guida del partito e del governo.E lo ha fatto in tre passaggi. Il primo è stato quando ha chiarito che la volontà di farlo dimettere è del «parliamentary Conservative party»: formalmente è una pura constatazione di ciò che accade, vista la valanga di dimissioni di ministri e sottosegretari e la raffica di lettere di sfiducia contro di lui firmate da molte decine di deputati Tories; ma, sostanzialmente, è un modo per sottolineare che si tratta di una scelta di palazzo, del gruppo parlamentare, non degli elettori. E infatti per il resto dello speech Johnson si è rivolto al «British public»: alla gente come una cosa distinta e distante dai politici che lo hanno sfiduciato.Il secondo passaggio, più perfido, è stato quando Johnson ha menzionato gli immensi numeri da lui ottenuti alle elezioni del 2019, ricordando come molti di quegli elettori «avessero votato per i conservatori per la prima volta» (come dire: sono voti miei, non vostri), e rimarcando come si sia trattato della più grande maggioranza conservatrice dal 1987, e della percentuale più alta dal 1979. Il terzo passaggio è stato quando Johnson ha evocato l’«herd instinct», letteralmente l’istinto di gregge scatenatosi contro di lui. Non esattamente un elogio del suo gruppo parlamentare.Poi Johnson ha rivendicato i suoi «achievements»: «Aver realizzato Brexit, recuperando poteri per il nostro Paese»; i successi nel contrasto alla pandemia, con «la più rapida uscita» al mondo dal lockdown; l’aver «guidato l’Occidente nel resistere all’aggressione di Vladimir Putin». Quindi l’elogio del sistema istituzionale britannico: «Il nostro brillante sistema darwiniano produrrà un altro leader ugualmente impegnato a portare avanti il paese». Conclusione: «Alcuni saranno sollevati, altri dispiaciuti» per le dimissioni: «Voglio che sappiate quanto sono triste nel lasciare il miglior lavoro del mondo. Vi ringrazio per l’immenso privilegio che mi avete dato. I vostri interessi saranno serviti finché il nuovo primo ministro sarà al suo posto». Battuta finale con la consueta capacità, da giornalista e scrittore, di immaginare titoli a effetto: «Anche se le cose appaiono scure, il nostro futuro insieme è dorato, luminoso». E adesso che succede? In mattinata fonti vicine a Johnson avevano ipotizzato una sua permanenza a Downing street fino a ottobre, quando è prevista la conferenza dei conservatori. Ma nel corso della giornata un po’ tutti, sia gli assedianti sia l’assediato, hanno finito per convergere su una formula diversa: il procedimento per il «leadership contest» inizierà presto, e Johnson resterà solo finché il nuovo leader non sarà stato scelto. Quindi non «fino a» ottobre, realisticamente, ma «entro» ottobre: e probabilmente molto prima. A meno che già nei prossimi giorni non sia individuato un altro reggente. Di fatto già nel weekend tutti i potenziali aspiranti usciranno allo scoperto. Tra loro segnaliamo Rishi Sunak e Sajid Javid (gli ex ministri delle Finanze e della Sanità che con le loro dimissioni hanno fatto deflagrare tutto già martedì sera), oppure Jeremy Hunt, o il capo negoziatore Brexit David Frost, o la ministra degli Esteri Liz Truss, o il ministro della Difesa Ben Wallace (in tempi di guerra queste ultime due figure sono ovviamente quotatissime), oppure il veterano di guerra Tom Tugendhat, oppure il neonominato ministro delle Finanze Nadim Zahawi: tutte leadership saldamente atlantiste, perché la posizione sulla guerra non è in discussione da parte di nessuno.Stendendo un bilancio, Johnson può rivendicare alcuni meriti indiscutibili: essere stato una macchina da voti senza rivali; aver guidato il contrasto alla pandemia con le minori (e più brevi) restrizioni al mondo; e, soprattutto, aver realizzato Brexit. Va sottolineato che il negoziato finale ebbe successo proprio grazie alla sua irruenza, mentre le timide strategie dell’iper moderata Theresa May non avevano avuto successo. E proprio su questo dovrebbe riflettere chi ha sempre caricaturizzato Johnson: nella politica contemporanea, spesso è proprio il portatore di un carisma speciale (e anche di un grano di «follia») a poter conseguire risultati non ordinari. In negativo, Johnson paga diverse cose: non aver realizzato i promessi tagli di tasse e aver scelto una linea economica perfino dirigista; non essere riuscito a far quadrare il cerchio tra i vecchi elettori conservatori (tradizionalmente più thatcheriani) e i nuovi elettori provenienti da sinistra; e aver tentato di recitare la parte del finto tonto rispetto agli scandali che avvenivano intorno a lui. Su queste cose, non solo i parlamentari, ma anche il «British public» non perdona. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gregge-tories-dimettere-bojo-2657628707.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="populista-da-abbattere-ma-contro-putin-faceva-comodo" data-post-id="2657628707" data-published-at="1657267491" data-use-pagination="False"> Populista da abbattere, ma contro Putin faceva comodo Come spesso gli capita, il più velenoso è stato l’eurolirico belga Guy Verhofstadt, uno degli odiatori di Brexit, anzi dei traumatizzati da Brexit. Ecco il suo tweet di ieri: «Il regno di Boris Johnson finisce in disgrazia, proprio come quello del suo amico Donald Trump. È la fine dell’era dei populismi transatlantici? Speriamo. Le relazioni Ue-Uk hanno enormemente sofferto a causa della scelta di Johnson di Brexit». E in poche righe c’è tutto in termini di distorsione della realtà: Brexit non come scelta democratica, in un referendum, della maggioranza dei britannici, ma come avventura di un solo uomo; disprezzo personale; nessun riconoscimento cavalleresco delle virtù dell’avversario. Diciamolo con franchezza. Quando tra qualche anno, sine ira et studio, con il necessario distacco temporale ed emotivo, si scriverà la storia europea dei primi vent’anni di questo secolo, l’evento Brexit sarà probabilmente quello che meglio fotograferà l’incapacità delle nostre classi dirigenti (politiche, editoriali, culturali) di comprendere il proprio tempo. Gli appartenenti alla supercasta sacerdotale braminica dei nostri intellettuali non ci hanno capito una mazza, come si direbbe a Cambridge. Prima del giugno 2016, hanno tassativamente escluso, tra risatine e sarcasmi, una vittoria del «Leave»; poi hanno pronosticato sciagure (indimenticabile la previsione secondo cui a Londra sarebbero mancati cibo e medicinali); poi sono passati a trattare il Regno Unito come una specie di provincia ribelle. La vicenda del Coronavirus ha peggiorato le cose. Inizialmente, durante la prima ondata (primo semestre 2020), gli eurolirici e gli euromistici, con una schadenfreude degna di miglior causa, si sono ringalluzziti davanti alle difficoltà con cui l’Uk stava affrontando la pandemia. L’irrisione verso Boris Johnson, perfino durante il suo ricovero in condizioni gravi in terapia intensiva, non è sembrata conoscere freni. Ma i ghigni di superiorità (tra Bruxelles, Parigi, Berlino e Roma) si sono presto trasformati in una paralisi facciale quando si è passati dal 2020 al 2021. Allora, infatti, il Regno Unito non ha solo vinto la gara dall’uscita della pandemia: ha letteralmente trionfato. Mescolando vaccinazioni (mai obbligatorie) e restrizioni limitatissime anche nel tempo, e una sequenza programmata e rapidissima di riaperture (a marzo 2021 le scuole, ad aprile i pub, a maggio i teatri e gli stadi, e a luglio fine di ogni limitazione). In tutte queste circostanze Johnson è stato presentato come una caricatura, un fracassone, uno sfasciacarrozze. Perfino dimenticando il suo profilo culturale, gli studi a Eton e Oxford, la passione per il latino e il greco, la sua attività giornalistica (al Telegraph e allo Spectator), i suoi nove libri, il più famoso dei quali è una splendida, calda e intelligente biografia di Winston Churchill. Un uomo di cultura europea: e che, proprio per questo, non ama questa Ue. Un uomo che conosce l’importanza della buona immigrazione: e che, proprio per questo, vuole regolarla e limitarla, affinché non diventi una valanga incontrollabile. Un uomo orgogliosamente British: ma anche un intellettuale cosmopolita. Un giornalista e scrittore colto e sofisticato: ma sempre popolare, mai pomposo e noioso. Solo una volta, in questi anni, è scattata una sorta di «amnistia» pro Johnson da parte di politici e media mainstream in Italia e in Ue: per le sue posizioni intransigenti contro Vladimir Putin, dopo l’attacco russo all’Ucraina. E qui non si tratta di entrare nel merito della sua posizione: la si può condividere (come fa chi scrive queste righe) oppure no. Quel che conta è l’ipocrisia e il doppio standard di chi gli ha sempre negato dignità e lo ha costantemente irriso, salvo elogiarlo in una sola circostanza. Ma era una parentesi: negli ultimi giorni si è tornati alla consueta demonizzazione.
La centrale idroelettrica “Domenico Cimarosa” di Presenzano, in provincia di Caserta
Enel, leader nella produzione di energia pulita, considera l’idroelettrico una delle colonne portanti della transizione energetica, grazie alla sua affidabilità, flessibilità e capacità di integrarsi con altre fonti rinnovabili. Tra le tecnologie che guideranno la decarbonizzazione nei prossimi decenni, l’idroelettrico rimane una delle più solide, mature e strategiche. È una fonte rinnovabile antica, già utilizzata nei secoli per azionare mulini e macchinari, ma oggi completamente trasformata dall’innovazione industriale.
Per Enel, che ha anticipato al 2040 il traguardo del Net Zero, questa tecnologia rappresenta una risorsa strategica: combina innovazione, sostenibilità e benefici concreti per i territori. Il principio è semplice ma potentissimo: sfruttare la forza dell’acqua per mettere in rotazione turbine idrauliche collegate ad alternatori che producono elettricità. Dietro questo meccanismo lineare c’è però un lavoro ingegneristico complesso, fatto di dighe, gallerie, condotte forzate, sistemi di monitoraggio, regolazione dei flussi e integrazione con lo storage la rete elettrica.
Gli impianti idroelettrici gestiti da Enel non solo generano energia, ma svolgono una funzione preziosa nel controllo delle risorse idriche: aiutano a gestire periodi di siccità, a contenere gli effetti di precipitazioni eccezionali e a mantenere stabile il sistema elettrico nei picchi di domanda. Esistono tre principali tipologie di impianto: fluenti, che sfruttano la portata naturale dei corsi d’acqua; a bacino, dove le dighe trattengono l’acqua e permettono di modulare la produzione; e con pompaggio, un vero gioiello tecnologico. Qui i bacini sono due, uno a monte e uno a valle: l’acqua può essere riportata verso l’alto tramite le stesse turbine, trasformando il sistema in un grande “accumulatore naturale” di energia. Una riserva preziosa, che consente di compensare l’intermittenza delle altre fonti rinnovabili e di stabilizzare la rete elettrica quando il fabbisogno cresce improvvisamente.
Questo ruolo di bilanciamento è una delle ragioni per cui l’idroelettrico è considerato una tecnologia decisiva nella nuova architettura energetica. Nell’impianto di Dossi a Valbondione in provincia di Bergamo, , un sistema BESS (Battery Energy Storage System), Enel ha avviato il progetto di innovazione “BESS4HYDRO”, che entrerà in pieno esercizio nella primavera del 2026 e che prevede, per la prima volta in Europa, l’esercizio integrato di una batteria a litio in un impianto idroelettrico. Grazie alla maggiore flessibilità, l’impianto potrà svolgere anche servizi di rete che di norma vengono forniti da impianti a gas: diminuirà così il ricorso alle fonti fossili e aumenterà quindi la sostenibilità ambientale dell’intera operazione.
Accanto all’aspetto tecnico, c’è un altro valore: l’impatto positivo sui territori. Le grandi opere idroelettriche gestite da Enel hanno creato bacini artificiali che, oltre alla funzione energetica, hanno generato nuove opportunità per molte comunità. Turismo naturalistico, attività escursionistiche, pesca sportiva: gli invasi costruiti per la produzione elettrica si sono trasformati nel tempo in luoghi di valorizzazione paesaggistica ed economica, integrando il binomio energia-ambiente.
L’innovazione gioca un ruolo sempre più centrale. L’esperienza dell’impianto di Venaus, dove Enel ha integrato sulla vasca di scarico della centrale idroelettrica un sistema fotovoltaico galleggiante, dimostra come la combinazione tra diverse tecnologie possa aumentare la produzione rinnovabile senza consumare nuovo suolo. Allo stesso tempo, Enel investe in soluzioni che rendano gli impianti più sostenibili, efficienti e resilienti, puntando su manutenzione avanzata e modernizzazione delle strutture.
In un’epoca in cui la sicurezza energetica, la resilienza delle infrastrutture e la decarbonizzazione sono priorità globali, l’idroelettrico gestito da Enel dimostra di essere una tecnologia solida che guarda al futuro. Grazie alla sua capacità di produrre energia pulita, regolare i flussi idrici e stabilizzare la rete, continuerà ad accompagnare il percorso di transizione energetica, contribuendo in modo concreto agli obiettivi climatici dell’Italia e dell’Europa.
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Maurizio Landini (Ansa)
Tema cruciale: la nuova puntata di una saga che ormai è venuta a noia anche ai diretti interessati, lo sciopero generale contro il governo di centrodestra. Appuntamento per il 12 dicembre. La manovra è una scusa che viene buona per dire peste e corna di Meloni & C. Si parla di drenaggio fiscale (sale la pressione fiscale a causa dell’inflazione in presenza di aliquote crescenti), pensioni, precari, sanità e patrimoniale. Insomma, un bel pot-pourri di tutti gli ever green della casa. E poco importa al segretario leader dei talk show che alcuni dei suoi temi caldi siano stati ampiamente confutati. Basta ripeterli e alle orecchie di chi ama sentirli diventano veri.
Il problema è che una buona parte del Paese avrebbe voluto sentire anche parole diverse da Landini. Poche, ma decise. Sarebbe bastato chiedere scusa per i fattacci di venerdì mattina. Per l’inseguimento durato un chilometro di una ventina di sindacalisti con le felpe della Fiom che hanno poi menato almeno due colleghi della Uilm, colpevoli di non aver partecipato a un altro sciopero, quello dei metalmeccanici che aveva come epicentro l’ex Ilva. Insomma, il minimo sindacale. E invece niente.
Le scuse se le sarebbe aspettate anche il segretario generale della Uilm ligure, Luigi Pinasco (dimesso con 10 giorni di prognosi dopo i colpi ricevuti sul capo) che nell’aggressione di venerdì scorso le ha prese insieme al segretario organizzativo Claudio Cabras (dimesso poco dopo con 7 giorni di prognosi, in seguito ai colpi ricevuti alla gamba). «Sono amareggiato e deluso per le mancate scuse e la mancata presa di distanza del segretario della Cgil», evidenzia Pinasco alla Verità, «io sono pronto a fare qualsiasi battaglia per conservare anche un singolo posto di lavoro e non nutro astio verso i miei aggressori, ma credo che la violenza vada sempre condannata. E soprattutto che vada condannata da chi ha un ruolo di rappresentanza così importante. È un esempio che va dato».
Anche perché da qualcun altro le scuse sono arrivate. «Guardi», continua, «a livello locale i colleghi della Fiom che lavorano in altre fabbriche mi hanno mostrato la loro solidarietà e hanno evidenziato tutto il loro disappunto per quello che è successo all’assemblea dell’ex Ilva lo scorso venerdì mattina. Poi però nessuno ha intenzione di esporsi in modo ufficiale perché evidentemente teme ritorsioni». C’è un brutto clima a Genova e in tanti danno la colpa agli esponenti di Lotta Comunista che in alcuni stabilimenti locali fanno il bello e il cattivo tempo. E non da adesso.
«Devo essere sincero», prosegue, «qui la contrapposizione sul diverso modo di affrontare le battaglie in fabbrica è alta, ma mai avrei pensato che saremmo arrivati a questo livello. Lotta Comunista? Io non so che tessere politiche abbiano in tasca i lavoratori, ma di sicuro certi circoli e movimenti in città sono ben radicati. E proprio per questo un invito alla calma in più non farebbe male».
Così come gesti di distensione servirebbero anche dalla politica locale. Non è un mistero, per esempio, che nella manifestazione dei metalmeccanici di giovedì, quella che ha visto come protagoniste Cgil e Cisl, ma non la Uil, l’intervento rassicurante del governatore Marco Bucci abbia avuto un effetto calmante.
«Non lo so», continua Pinasco, «credo però che quella dell’ex Ilva sia una questione molto complessa e che possa trovare delle soluzioni idonee solo a livello nazionale. Nulla contro il sindaco Salis e il governatore Bucci, ci mancherebbe, ma ci andrei piano con le promesse di salvataggio per Genova perché se poi non si avverano si rischia di accendere gli animi ancor di più. E in questo momento non ne sentiamo il bisogno».
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