2022-07-08
Il gregge dei Tories fa dimettere BoJo. Già partita la gara per la successione
Johnson vuole restare premier fino alla scelta del nuovo leader che continuerà la politica atlantista. Tanti ministri nel toto-nomi.Guy Verhofstadt: l’ipocrisia dei detrattori di Mr Brexit, prima irriso, criticato e demonizzato. Poi la (breve) riabilitazione con la guerra in Ucraina.Lo speciale contiene due articoli.Comunque la pensiate su di lui, non sottovalutate il discorso di congedo pronunciato ieri da Boris Johnson davanti al portone del numero 10 di Downing Street: sei minuti orgogliosi, a tratti spigolosi, di un uomo che ha rifiutato la parte ipocrita della vittima sacrificale, della madonnina infilzata, del finto umile. Il premier uscente, sfoggiando la sua proverbiale tempra combattiva, ha letteralmente sfidato chi ora lo sta cacciando dalla guida del partito e del governo.E lo ha fatto in tre passaggi. Il primo è stato quando ha chiarito che la volontà di farlo dimettere è del «parliamentary Conservative party»: formalmente è una pura constatazione di ciò che accade, vista la valanga di dimissioni di ministri e sottosegretari e la raffica di lettere di sfiducia contro di lui firmate da molte decine di deputati Tories; ma, sostanzialmente, è un modo per sottolineare che si tratta di una scelta di palazzo, del gruppo parlamentare, non degli elettori. E infatti per il resto dello speech Johnson si è rivolto al «British public»: alla gente come una cosa distinta e distante dai politici che lo hanno sfiduciato.Il secondo passaggio, più perfido, è stato quando Johnson ha menzionato gli immensi numeri da lui ottenuti alle elezioni del 2019, ricordando come molti di quegli elettori «avessero votato per i conservatori per la prima volta» (come dire: sono voti miei, non vostri), e rimarcando come si sia trattato della più grande maggioranza conservatrice dal 1987, e della percentuale più alta dal 1979. Il terzo passaggio è stato quando Johnson ha evocato l’«herd instinct», letteralmente l’istinto di gregge scatenatosi contro di lui. Non esattamente un elogio del suo gruppo parlamentare.Poi Johnson ha rivendicato i suoi «achievements»: «Aver realizzato Brexit, recuperando poteri per il nostro Paese»; i successi nel contrasto alla pandemia, con «la più rapida uscita» al mondo dal lockdown; l’aver «guidato l’Occidente nel resistere all’aggressione di Vladimir Putin». Quindi l’elogio del sistema istituzionale britannico: «Il nostro brillante sistema darwiniano produrrà un altro leader ugualmente impegnato a portare avanti il paese». Conclusione: «Alcuni saranno sollevati, altri dispiaciuti» per le dimissioni: «Voglio che sappiate quanto sono triste nel lasciare il miglior lavoro del mondo. Vi ringrazio per l’immenso privilegio che mi avete dato. I vostri interessi saranno serviti finché il nuovo primo ministro sarà al suo posto». Battuta finale con la consueta capacità, da giornalista e scrittore, di immaginare titoli a effetto: «Anche se le cose appaiono scure, il nostro futuro insieme è dorato, luminoso». E adesso che succede? In mattinata fonti vicine a Johnson avevano ipotizzato una sua permanenza a Downing street fino a ottobre, quando è prevista la conferenza dei conservatori. Ma nel corso della giornata un po’ tutti, sia gli assedianti sia l’assediato, hanno finito per convergere su una formula diversa: il procedimento per il «leadership contest» inizierà presto, e Johnson resterà solo finché il nuovo leader non sarà stato scelto. Quindi non «fino a» ottobre, realisticamente, ma «entro» ottobre: e probabilmente molto prima. A meno che già nei prossimi giorni non sia individuato un altro reggente. Di fatto già nel weekend tutti i potenziali aspiranti usciranno allo scoperto. Tra loro segnaliamo Rishi Sunak e Sajid Javid (gli ex ministri delle Finanze e della Sanità che con le loro dimissioni hanno fatto deflagrare tutto già martedì sera), oppure Jeremy Hunt, o il capo negoziatore Brexit David Frost, o la ministra degli Esteri Liz Truss, o il ministro della Difesa Ben Wallace (in tempi di guerra queste ultime due figure sono ovviamente quotatissime), oppure il veterano di guerra Tom Tugendhat, oppure il neonominato ministro delle Finanze Nadim Zahawi: tutte leadership saldamente atlantiste, perché la posizione sulla guerra non è in discussione da parte di nessuno.Stendendo un bilancio, Johnson può rivendicare alcuni meriti indiscutibili: essere stato una macchina da voti senza rivali; aver guidato il contrasto alla pandemia con le minori (e più brevi) restrizioni al mondo; e, soprattutto, aver realizzato Brexit. Va sottolineato che il negoziato finale ebbe successo proprio grazie alla sua irruenza, mentre le timide strategie dell’iper moderata Theresa May non avevano avuto successo. E proprio su questo dovrebbe riflettere chi ha sempre caricaturizzato Johnson: nella politica contemporanea, spesso è proprio il portatore di un carisma speciale (e anche di un grano di «follia») a poter conseguire risultati non ordinari. In negativo, Johnson paga diverse cose: non aver realizzato i promessi tagli di tasse e aver scelto una linea economica perfino dirigista; non essere riuscito a far quadrare il cerchio tra i vecchi elettori conservatori (tradizionalmente più thatcheriani) e i nuovi elettori provenienti da sinistra; e aver tentato di recitare la parte del finto tonto rispetto agli scandali che avvenivano intorno a lui. Su queste cose, non solo i parlamentari, ma anche il «British public» non perdona. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gregge-tories-dimettere-bojo-2657628707.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="populista-da-abbattere-ma-contro-putin-faceva-comodo" data-post-id="2657628707" data-published-at="1657267491" data-use-pagination="False"> Populista da abbattere, ma contro Putin faceva comodo Come spesso gli capita, il più velenoso è stato l’eurolirico belga Guy Verhofstadt, uno degli odiatori di Brexit, anzi dei traumatizzati da Brexit. Ecco il suo tweet di ieri: «Il regno di Boris Johnson finisce in disgrazia, proprio come quello del suo amico Donald Trump. È la fine dell’era dei populismi transatlantici? Speriamo. Le relazioni Ue-Uk hanno enormemente sofferto a causa della scelta di Johnson di Brexit». E in poche righe c’è tutto in termini di distorsione della realtà: Brexit non come scelta democratica, in un referendum, della maggioranza dei britannici, ma come avventura di un solo uomo; disprezzo personale; nessun riconoscimento cavalleresco delle virtù dell’avversario. Diciamolo con franchezza. Quando tra qualche anno, sine ira et studio, con il necessario distacco temporale ed emotivo, si scriverà la storia europea dei primi vent’anni di questo secolo, l’evento Brexit sarà probabilmente quello che meglio fotograferà l’incapacità delle nostre classi dirigenti (politiche, editoriali, culturali) di comprendere il proprio tempo. Gli appartenenti alla supercasta sacerdotale braminica dei nostri intellettuali non ci hanno capito una mazza, come si direbbe a Cambridge. Prima del giugno 2016, hanno tassativamente escluso, tra risatine e sarcasmi, una vittoria del «Leave»; poi hanno pronosticato sciagure (indimenticabile la previsione secondo cui a Londra sarebbero mancati cibo e medicinali); poi sono passati a trattare il Regno Unito come una specie di provincia ribelle. La vicenda del Coronavirus ha peggiorato le cose. Inizialmente, durante la prima ondata (primo semestre 2020), gli eurolirici e gli euromistici, con una schadenfreude degna di miglior causa, si sono ringalluzziti davanti alle difficoltà con cui l’Uk stava affrontando la pandemia. L’irrisione verso Boris Johnson, perfino durante il suo ricovero in condizioni gravi in terapia intensiva, non è sembrata conoscere freni. Ma i ghigni di superiorità (tra Bruxelles, Parigi, Berlino e Roma) si sono presto trasformati in una paralisi facciale quando si è passati dal 2020 al 2021. Allora, infatti, il Regno Unito non ha solo vinto la gara dall’uscita della pandemia: ha letteralmente trionfato. Mescolando vaccinazioni (mai obbligatorie) e restrizioni limitatissime anche nel tempo, e una sequenza programmata e rapidissima di riaperture (a marzo 2021 le scuole, ad aprile i pub, a maggio i teatri e gli stadi, e a luglio fine di ogni limitazione). In tutte queste circostanze Johnson è stato presentato come una caricatura, un fracassone, uno sfasciacarrozze. Perfino dimenticando il suo profilo culturale, gli studi a Eton e Oxford, la passione per il latino e il greco, la sua attività giornalistica (al Telegraph e allo Spectator), i suoi nove libri, il più famoso dei quali è una splendida, calda e intelligente biografia di Winston Churchill. Un uomo di cultura europea: e che, proprio per questo, non ama questa Ue. Un uomo che conosce l’importanza della buona immigrazione: e che, proprio per questo, vuole regolarla e limitarla, affinché non diventi una valanga incontrollabile. Un uomo orgogliosamente British: ma anche un intellettuale cosmopolita. Un giornalista e scrittore colto e sofisticato: ma sempre popolare, mai pomposo e noioso. Solo una volta, in questi anni, è scattata una sorta di «amnistia» pro Johnson da parte di politici e media mainstream in Italia e in Ue: per le sue posizioni intransigenti contro Vladimir Putin, dopo l’attacco russo all’Ucraina. E qui non si tratta di entrare nel merito della sua posizione: la si può condividere (come fa chi scrive queste righe) oppure no. Quel che conta è l’ipocrisia e il doppio standard di chi gli ha sempre negato dignità e lo ha costantemente irriso, salvo elogiarlo in una sola circostanza. Ma era una parentesi: negli ultimi giorni si è tornati alla consueta demonizzazione.