2019-10-30
Grazie alle norme anti odio vogliono schedare chi commenta sui social
Da una proposta dei renziani riparte la battaglia contro i profili anonimi: servirà solo a regalare dati sensibili alle piattaforme. E a colpire chi va controcorrente.Inutile girarci intorno: per le ragioni spiegate ieri sulla Verità da Francesco Borgonovo, spiace e addolora che la senatrice a vita Liliana Segre sia divenuta capofila e testimonial di una campagna politica e parlamentare che rischia di rivelare molto presto un volto pericoloso, assai lontano dalle nobili ragioni con cui l'iniziativa viene presentata. Si parte per istituire una Commissione contro il cosiddetto hate speech, il linguaggio d'odio. E nessuno può certo solidarizzare con chi si renda responsabile di aggressioni verbali basate su discriminazioni etniche, razziali o religiose. Ma, come sempre nelle cose umane, il diavolo si nasconde nei dettagli: chi stabilisce il confine tra il linguaggio d'odio e la pura e semplice libertà di espressione? Non c'è forse il rischio che, per colpire l'hate speech, finisca nel bersaglio pure il free speech, cioè la libertà di parola di ognuno di noi? Questo è il punto, su cui i promotori della legge non sono in grado di dare una risposta convincente. Anzi: dietro l'autorevole volto della senatrice Segre, rischiano di nascondersi altri, né prestigiosi né autorevoli, ma semplicemente desiderosi, dietro il paravento del politically correct, di censurare e stabilire preventivamente cosa si possa e cosa non si possa dire. Da questo punto di vista, ci sono almeno due test che nelle prossime settimane andranno tenuti presenti. Il primo: il gruppo di Fratelli d'Italia, per quanto risulta alla Verità, è meritoriamente intenzionato ad aggiungere alle matrici di odio attualmente previste nella proposta (intolleranza, razzismo, antisemitismo, ecc) anche il comunismo. A somiglianza di quanto è accaduto in una recente risoluzione al Parlamento europeo, Fdi vorrebbe associare nella condanna i totalitarismi del Novecento, includendo anche il comunismo (oltre che l'integralismo islamico). Che dirà la maggioranza? Per ora, prevale un imbarazzato silenzio. Ma nella scorsa legislatura, quando la sinistra già tentò di far passare la legge proposta da Emanuele Fiano, fu clamorosamente svelato il doppio standard dei post comunisti. Prontissimi a condannare nazismo e fascismo, ma restii a dire parole altrettanto chiare sul comunismo: quest'ultimo, per loro, difendibile e propagandabile, senza rischi di apologia. Vecchia storia della sinistra: antifascista, ma non antitotalitaria. Ecco perché l'iniziativa preannunciata da Fratelli d'Italia potrà essere un'utile cartina tornasole. Se la sinistra dirà no all'inclusione del comunismo tra le ideologie alimentatrici di odio, mostrerà una volta di più la sua consueta logica dei due pesi e delle due misure. Per questo, sarebbe molto meglio rinunciare del tutto a interventi legislativi di questo tipo. Al di là delle buone intenzioni di alcuni (delle quali - per molti - non c'è da dubitare), è sempre pericoloso ritenere che tocchi a qualcuno stabilire che alcune opinioni non debbano circolare. Tra l'altro: chi dovrebbe stabilire cosa si possa e cosa non si possa dire? Lo Stato? Un politburo? Il ministro dell'Istruzione pro tempore? La maggioranza politica di un momento? Di tutta evidenza, sarebbe una deriva pericolosa, una sostanziale politicizzazione dei confini della libertà d'espressione. Altrettanto pericoloso (come nel caso dei social network) sarebbe invece ritenere che questo compito possa essere lasciato a un soggetto privato. Vista la dimensione oligopolistica di Facebook e Twitter, basta pochissimo (una decisione di questi due giganti) per mettere completamente al bando un movimento, un partito, una persona, un'idea. Ma c'è anche un secondo test per misurare le reali intenzioni dei promotori delle iniziative «anti odio». È ripartita - grazie a una proposta del renziano Luigi Marattin - la campagna contro i profili anonimi sui social network. «Da oggi al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento d'identità», ha scritto Marattin su Twitter. «Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così». Apparentemente, si tratta di una richiesta di buon senso: che ognuno metta nome e cognome. Ma - pensandoci meglio - anche qui c'è il solito diavolo nascosto nei dettagli. Già oggi la tecnologia consente di risalire, quando sia necessario, al titolare di un account. Imporgli per forza di esporsi pubblicamente con nome e cognome ha solo due effetti: consentire di «profilare» la persona, consegnandone i dati alle piattaforme, e mettere a disagio tutti quelli che vogliono esprimersi, ma - per ragioni professionali o di riservatezza - non desiderano esporre le loro generalità. Perché impedir loro di twittare e postare? Tra l'altro: si rendono conto i promotori dell'iniziativa che, applicando pari pari questo stesso criterio in un regime autoritario, consegnerebbero all'ipotetica dittatura i nomi e i cognomi degli oppositori? Succede di fare questi «errori», quando si è antifascisti, ma non antitotalitari.