
Licenziato Spalletti dopo il disastro in Norvegia che può costarci l’ennesimo mondiale, la Figc ha puntato tutto su Ranieri, che però ha declinato. Il presidente valuta Gattuso e De Rossi. «Cercasi allenatore esperto in miracoli. Astenersi perditempo». Tanto vale mettere un annuncio a pagamento su Subito.it, dragare il sottobosco del mercato di settore e vedere se qualche disperato ha il coraggio di salire sul carro di Gabriele Gravina. Dopo il brodino con la Moldavia e la rinuncia notturna di Claudio Ranieri, l’Italia del pallone naviga a vista senza un approdo e con una sola certezza: nessuno vuol fare il commissario tecnico della Nazionale. Non con questo presidente della Federcalcio, re dello scaricabarile. E non con il Cerro Torre da scalare, perché i nove punti di distacco dalla Norvegia, il rischio dei playoff e quindi l’incubo di fallire il terzo Mondiale consecutivo sono apparizioni scomparenti che toglierebbero il sonno anche a Jurgen Klopp.Figuriamoci a Ranieri, che a Roma viene considerato poco meno di papa Leone XIV (a Torino e a Milano al massimo un onesto parroco) e che dopo avere soppesato costi e benefici è scappato a gambe levate alla sola ipotesi di sedersi sulla panchina azzurra. Lo ha fatto con un Whatsapp notturno ritenendo che il presidente non meritasse di più («Non me la sento, grazie del pensiero»). Lo ha fatto accampando la più inconsistente delle giustificazioni: il ruolo in essere da consulente personale di Dan Friedkin. Sarebbe un contrappeso credibile all’onore di indossare una maglia con quattro stelle (quattro coppe del mondo) sul cuore? Domanda retorica. In più aveva il via libera del proprietario della Roma, aveva il benestare della federazione per il doppio incarico, aveva ogni garanzia legale e giurisprudenziale. Ma l’unica che contava, quella di andare ai Mondiali e di non perdere la faccia a 73 anni, non l’aveva. Da qui il suo no grazie.Nessuno sembra volere quella panchina, la partita di Gravina per ora è un «ciapa no». Perché anche il secondo tentativo è ad alto rischio fallimento. Dopo Ranieri, il numero uno federale ha contattato Stefano Pioli, in uscita dal deserto saudita dopo un anno mediocre, ma il tecnico di Parma è già in parola con Rocco Commisso per tornare a Firenze (aveva già allenato con successo dal 2017 al 2019) al posto del transfuga Raffaele Palladino. E non sembra intenzionato a dare ascolto alle sirene azzurre, anche perché perderebbe un sacco di soldi. Ora guadagna 10 milioni a stagione, ha ancora due anni di contratto, e per liberarsi dall’Al Nassr dovrebbe pagare una penale salata allo sceicco di turno. La Fiorentina arriverebbe a 5 milioni. Denari che la federazione non scucirà mai; al massimo, con Spalletti è arrivata a 2,8 milioni. Lo stallo è imbarazzante e la figura di Gravina somiglia quella di fra Galdino impegnato nella questua. Una situazione poco edificante che ha messo di cattivo umore anche il ministro dello Sport, Andrea Abodi. «Credo che il no di Ranieri dipenda da condizioni con le quali non sa lavorare. Chi è responsabile della situazione? Chi deve riflettere non è solo una persona, è un sistema perché quando un presidente federale viene eletto con il 98% sono tutte le componenti coinvolte. Non basta il cambio dell’allenatore, serve un cambio culturale e comportamentale. Le valutazioni tecniche non le commento ma le modalità con cui si è consumato il distacco da Luciano Spalletti lasciano perplessi. Gravina è il più esposto e risponde». O almeno dovrebbe.L’ex ct lascia un’eredità pesante. La sintetizza con due frasi: «Chi arriva prende e fa quello che gli pare, sicuramente non lascio un grande entusiasmo». «Ho un desiderio, che chi ha rifiutato la Nazionale non ci torni mai più». Macerie. Lui pensa ancora a Francesco Acerbi (37 anni, sai che futuro) ma per proprietà transitiva la congettura arriva a Roberto Mancini, che due anni fa se ne andò in Arabia a riempire il forziere per poi tornare con la coda fra le gambe. Il conquistatore ai rigori dell’Europeo 2021 si sarebbe candidato per un remake ma Gravina proprio non ce la fa a vedersi raffigurato in ginocchio da chi lo ha tradito. La diffidenza generale è determinata anche dalla povertà di capitale umano: dietro alcuni ottimi giocatori (Gigio Donnarumma, Nicolò Barella, Alessandro Bastoni, Giovanni Di Lorenzo, Riccardo Calafiori, Mateo Retegui) c’è il vuoto. Lo ha sottolineato anche una vecchia volpe come Beppe Marotta: «Da noi gli allenatori delle giovanili pensano più al risultato che alla crescita tecnica dei ragazzi». Sfogliando la margherita, la Federcalcio è arrivata agli ultimi petali, i ragazzi del 2006. Coloro che alzarono l’ultima Coppa del Mondo, una tentazione forte per rinverdire gli allori almeno nel marketing pallonaro. Ed ecco che spuntano i nomi di Daniele De Rossi, Fabio Cannavaro, Gennaro Gattuso. Il primo licenziato dalla Roma, il secondo esonerato dalla Dinamo Zagabria, il terzo lasciato andare senza rimpianti dall’Hajduk Spalato dopo aver perso il campionato croato all’ultima giornata. Praticamente tutti disoccupati, non proprio delle prime scelte. Nessuno stupore, è l’estate dei ripieghi: la Juventus ha ufficializzato Igor Tudor, l’Inter non è andata oltre Christian Chivu, il Milan si è aggrappato a Max Allegri per affascinare San Siro con il «corto muso». In vista della ripresa delle qualificazioni il 5 settembre a Bergamo contro l’Estonia, la Nazionale presenta lo stesso menù: minestrine fredde. Mentre si fa sera sembra che in pole per la panchina più prestigiosa d’Italia ci sia proprio Ringhio, che avrebbe il profilo giusto (secondo Gravina) per rianimare il malato a suon di sberle. Costa poco, conosce benissimo la via di Coverciano e non ha nulla da perdere. In un momento di follia qualcuno ha pensato anche a José Mourinho, il più preparato e il più divisivo di tutti. Colui che disse che il calcio italiano era dominato dalla «prostituzione intellettuale». Come stare seduto su un barile di polvere da sparo. Almeno ci sarebbe da divertirsi.
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





