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2022-04-26
Gli Usa mettono Berlino con le spalle al muro
Gerhard Schröder (Ansa)
Non dà segni di tregua il pressing americano nei confronti della Germania. Alle sollecitazioni continue sull’invio di armi e aiuti all’Ucraina invasa, si sommano quelle tese a far adottare un embargo sui prodotti energetici dalla Russia. Nella nuova prospettiva americana, il modello europeo germano-centrico va ridimensionato e ricondotto a una logica geo-strategica. Dunque, è proprio il governo tedesco il primo tra quelli che devono essere disciplinati. Proprio per oggi è prevista una riunione tra i vertici militari della Nato, per decidere come e quanto aumentare il supporto militare all’Ucraina. Il segretario alla difesa Usa, Lloyd J. Austin, ha invitato oltre 30 Paesi Nato, Italia compresa, alla base militare americana di Ramstein, in Germania. Non a caso. Così come non è un caso che il prossimo incontro dei ministri degli Esteri dei Paesi della Nato si tenga sempre in Germania, a Berlino, il 14 e 15 maggio. È evidente il richiamo di Washington a un’assunzione di responsabilità tedesca nel fosco scenario attuale.
Diversi media americani contribuiscono ad alimentare il clima di assedio nei confronti del governo tedesco. Emblematica la lunga e rara intervista concessa al New York Times da Gerhard Schröder, che da 17 anni ricopre posizioni di rilievo nella galassia della società di stato russa Gazprom. Ora che, improvvisamente, la dipendenza della Germania dal gas russo è diventata un problema, l’ex cancelliere tedesco si trova al centro di grandi polemiche in Germania e in Europa. C’è chi si spinge a chiedere per lui sanzioni personali, considerandolo alla stregua di un oligarca russo, proprio per il suo ruolo nell’entourage di Vladimir Putin.
Nell’intervista, Schröder si è tolto qualche sassolino dalla scarpa e ha rivendicato quanto fatto sin qui con il suo lavoro. In fondo, la dipendenza della Germania dal gas russo era evidente anche prima del 24 febbraio, ma non è mai stata criminalizzata. L’idea di riempire la Germania di gas russo è stata venduta all’opinione pubblica occidentale nello stesso modo utilizzato per elogiare l’Ue. Cioè affermando che l’interdipendenza economica avrebbe reso meno probabile, se non impossibile, una riaccensione delle guerre in Europa. Il marketing tedesco puntava sul claim di una Russia che, imbrigliata in scambi commerciali sempre più ampi con l’Europa, potesse essere addomesticata e ricondotta al consorzio delle nazioni occidentali. Questa è stata la canzone che tutti (politici, mass media, «esperti»), con grande ipocrisia, hanno cantato in Germania e in Europa anche dopo l’annessione della Crimea: facciamo gli affari, non facciamo la guerra.
Ma la realtà è ben altra. Il carbone, materia prima d’elezione in Germania, iniziava a scarseggiare ed era necessario sostituirlo con il gas. Il blocco politico-industriale-finanziario tedesco ha lavorato unicamente per sé stringendo accordi con la Russia per importare gas a basso costo, con Nord Stream 1 e 2. Ciò al fine di perpetuare il proprio modello di sviluppo: ovvero un mercantilismo contemporaneo, basato su un enorme surplus delle partite correnti ottenuto grazie a una moneta sottovalutata rispetto all’economia nazionale, compressione della domanda interna, bassi costi e deflazione salariale.
Il socialdemocratico Olaf Scholz è sommerso dalle critiche, dopo le parole di Schröder, e il rischio di una crisi politica si fa sempre più alto. «Schröder resta dalla parte di Putin», titolano in questi giorni le grandi testate dopo avere letto l’intervista al Nyt, riducendo la cosa a una questione personalistica e con ciò facendo il gioco di chi vuole mettere in difficoltà il governo tedesco.
In realtà, per chi ha occhi per vedere, l’ex cancelliere resta dalla parte della Germania, difende ciò che ha fatto perché questo significa difendere il modello mercantilista tedesco, l’Unione europea, l’euro, la deflazione. Ciò che motiva la resistenza tedesca, insomma, è che rinunciare al gas russo non vorrebbe dire semplicemente per la Germania avere 5 punti di Pil in meno, ma significherebbe rinunciare all’intero modello export-driven che con tanta fatica (e tanto successo) ha costruito in 30 anni di globalizzazione. Assimilare il denaro guadagnato da Schröder a corruzione, come molti stanno facendo, significa assecondare il populismo delle élite che conforma gran parte della pubblica opinione. La realtà è che si trattava e si tratta di un sistema, un quid pro quo tra due Stati sovrani, trasparente, bilanciato e calcolato. Coloro i quali oggi si stracciano le vesti per le resistenze tedesche all’embargo sono gli stessi che fino a ieri hanno elogiato la politica della cancelliera Angela Merkel, che per 15 anni ha segnato l’Europa e l’ha portata nel cul de sac in cui si trova. Una politica fatta di affari con la Russia, con lo stesso Putin che oggi è diventato la personificazione del male. Quando si firmavano gli accordi per Nord Stream 1, prima, e Nord Stream 2, poi, non si ricordano editoriali traboccanti indignazione.
«Non si può isolare un Paese come la Russia nel lungo periodo», conclude Schröder nell’intervista al Nyt. Profezia o semplice constatazione? La difesa tedesca del proprio modello economico e sociale passa dalla difesa del suo rapporto con la Russia, cioè proprio ciò che gli Usa chiedono di tagliare. La sfida è aperta.
Sanzioni, slitta il sesto pacchetto? In bilico l’embargo su greggio e gas
Partirà domani l’iter per decidere il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue verso la Russia. Al centro del dibattito lo stop all’import di greggio, tema che scuote non poco diversi leader europei. Tanto che, con ogni probabilità, i tempi per l’approvazione delle nuove limitazioni slitteranno di almeno una settimana.
Tra le opzioni al vaglio da parte dei vertici guidati Ursula von der Leyen c’è il cosiddetto periodo di «phasing out», ovvero di eliminazione graduale del petrolio russo. Inoltre, tra le nuove misure è previsto anche l’allungamento della lista delle banche russe escluse dal sistema Swift. Questa settimana sarà quindi dedicata ai colloqui e alle consultazioni sul nuovo pacchetto tra l’Ue e le diverse cancellerie europee.
L’oggetto del contendere sull’oro nero è chiaro: ci sono Paesi, tra cui l’Italia, che non potrebbero permettersi un embargo immediato sul petrolio russo. Altri Stati, invece, tra cui Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia spingono per iniziare con uno stop già da maggio.
Germania e Ungheria, dal canto loro, preferirebbero invece iniziare con un abbandono graduale. C’è poi l’idea del premier, Mario Draghi, che ha proposto di inserire un tetto massimo al prezzo delle risorse come alternativa alle sanzioni. In questo modo i clienti che acquistano greggio nei Paesi dell’Ue sarebbero spinti a pagare meno per il petrolio russo rispetto alle richieste di Mosca.
Ma le trattative sono complesse. L’Alto rappresentante agli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt, ha reso noto che «alcuni Stati membri hanno detto molto chiaramente che non sosterrebbero un embargo, o una tariffa punitiva sul petrolio o sul gas russo. Ciò significa che a questo punto non abbiamo ancora l’unanimità nell’Ue per decidere un embargo, o una tariffa. Di conseguenza, una proposta finale di embargo su petrolio e gas non è pronta».
In totale, uno stop al greggio russo potrebbe togliere fino a 200 miliardi di dollari di nuove entrate per Putin. Il problema è che questo comporterebbe un taglio del 5% delle esportazioni mondiali, spingendo l’Ue a una caccia forsennata per avere nuova energia.
In più, perplessità su uno stop da parte di Bruxelles al petrolio russo arrivano anche da oltreoceano. «L’Europa», ha detto la segretaria al Tesoro americana, Janet Yellen, delineando un ipotetico scenario di embargo totale europeo su gas e petrolio russi, «deve ridurre la sua dipendenza dalla Russia per quanto riguarda l’energia, ma bisogna stare attenti quando pensiamo a un embargo completo europeo sulle importazioni petrolifere. Questo farebbe aumentare i prezzi globali del petrolio e avrebbe un impatto negativo sull’Europa e altre parti del mondo. E, al contrario, potrebbe avere un effetto negativo molto ridotto per la Russia, che per quanto si troverà a esportare di meno, venderà a prezzi più alti».
In particolare, la preoccupazione è che il prezzo del greggio salga a tal punto da creare problemi ai democratici guidati dal presidente Joe Biden nelle elezioni di midterm e per il Congresso in autunno. Allo Zio Sam, insomma, interessa ben poco delle sorti dell’Ucraina. L’obiettivo degli Usa è quello di rendere la Russia il più inoffensiva possibile: non deve essere in grado di lanciare nuove guerre.
L’unico modo certo perché ciò avvenga è quello di tagliare qualunque forma di entrata finanziaria. A dirlo a chiare lettere è stato lo stesso capo del Pentagono, Lloyd Austin, parlando nei pressi della frontiera ucraina di rientro dalla visita lampo a Kiev con il segretario di Stato, Antony Blinken. «Noi vogliamo vedere la Russia indebolita a un livello tale che non possa più fare cose come l’invasione dell’Ucraina», ha sottolineato Austin, «ha già perso molte delle sue capacità militari e molte truppe, per essere franchi. E noi non vorremmo che possa ricostruire rapidamente tali capacità».
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Continua il pressing sul governo tedesco per porre fine al suo modello di cooperazione con Mosca. Fissati ben due vertici Nato nel Paese guidato da Olaf Scholz. Mentre la stampa accerchia Gerhard Schröder. Eppure a fare affari con lo zar iniziò la stimatissima Angela Merkel.Sanzioni, slitta il sesto pacchetto? In bilico l’embargo su greggio e gas. Ue divisa, possibile una dilazione: Italia, Germania e Ungheria contro uno stop rapido.Lo speciale comprende due articoli.Non dà segni di tregua il pressing americano nei confronti della Germania. Alle sollecitazioni continue sull’invio di armi e aiuti all’Ucraina invasa, si sommano quelle tese a far adottare un embargo sui prodotti energetici dalla Russia. Nella nuova prospettiva americana, il modello europeo germano-centrico va ridimensionato e ricondotto a una logica geo-strategica. Dunque, è proprio il governo tedesco il primo tra quelli che devono essere disciplinati. Proprio per oggi è prevista una riunione tra i vertici militari della Nato, per decidere come e quanto aumentare il supporto militare all’Ucraina. Il segretario alla difesa Usa, Lloyd J. Austin, ha invitato oltre 30 Paesi Nato, Italia compresa, alla base militare americana di Ramstein, in Germania. Non a caso. Così come non è un caso che il prossimo incontro dei ministri degli Esteri dei Paesi della Nato si tenga sempre in Germania, a Berlino, il 14 e 15 maggio. È evidente il richiamo di Washington a un’assunzione di responsabilità tedesca nel fosco scenario attuale.Diversi media americani contribuiscono ad alimentare il clima di assedio nei confronti del governo tedesco. Emblematica la lunga e rara intervista concessa al New York Times da Gerhard Schröder, che da 17 anni ricopre posizioni di rilievo nella galassia della società di stato russa Gazprom. Ora che, improvvisamente, la dipendenza della Germania dal gas russo è diventata un problema, l’ex cancelliere tedesco si trova al centro di grandi polemiche in Germania e in Europa. C’è chi si spinge a chiedere per lui sanzioni personali, considerandolo alla stregua di un oligarca russo, proprio per il suo ruolo nell’entourage di Vladimir Putin.Nell’intervista, Schröder si è tolto qualche sassolino dalla scarpa e ha rivendicato quanto fatto sin qui con il suo lavoro. In fondo, la dipendenza della Germania dal gas russo era evidente anche prima del 24 febbraio, ma non è mai stata criminalizzata. L’idea di riempire la Germania di gas russo è stata venduta all’opinione pubblica occidentale nello stesso modo utilizzato per elogiare l’Ue. Cioè affermando che l’interdipendenza economica avrebbe reso meno probabile, se non impossibile, una riaccensione delle guerre in Europa. Il marketing tedesco puntava sul claim di una Russia che, imbrigliata in scambi commerciali sempre più ampi con l’Europa, potesse essere addomesticata e ricondotta al consorzio delle nazioni occidentali. Questa è stata la canzone che tutti (politici, mass media, «esperti»), con grande ipocrisia, hanno cantato in Germania e in Europa anche dopo l’annessione della Crimea: facciamo gli affari, non facciamo la guerra.Ma la realtà è ben altra. Il carbone, materia prima d’elezione in Germania, iniziava a scarseggiare ed era necessario sostituirlo con il gas. Il blocco politico-industriale-finanziario tedesco ha lavorato unicamente per sé stringendo accordi con la Russia per importare gas a basso costo, con Nord Stream 1 e 2. Ciò al fine di perpetuare il proprio modello di sviluppo: ovvero un mercantilismo contemporaneo, basato su un enorme surplus delle partite correnti ottenuto grazie a una moneta sottovalutata rispetto all’economia nazionale, compressione della domanda interna, bassi costi e deflazione salariale.Il socialdemocratico Olaf Scholz è sommerso dalle critiche, dopo le parole di Schröder, e il rischio di una crisi politica si fa sempre più alto. «Schröder resta dalla parte di Putin», titolano in questi giorni le grandi testate dopo avere letto l’intervista al Nyt, riducendo la cosa a una questione personalistica e con ciò facendo il gioco di chi vuole mettere in difficoltà il governo tedesco. In realtà, per chi ha occhi per vedere, l’ex cancelliere resta dalla parte della Germania, difende ciò che ha fatto perché questo significa difendere il modello mercantilista tedesco, l’Unione europea, l’euro, la deflazione. Ciò che motiva la resistenza tedesca, insomma, è che rinunciare al gas russo non vorrebbe dire semplicemente per la Germania avere 5 punti di Pil in meno, ma significherebbe rinunciare all’intero modello export-driven che con tanta fatica (e tanto successo) ha costruito in 30 anni di globalizzazione. Assimilare il denaro guadagnato da Schröder a corruzione, come molti stanno facendo, significa assecondare il populismo delle élite che conforma gran parte della pubblica opinione. La realtà è che si trattava e si tratta di un sistema, un quid pro quo tra due Stati sovrani, trasparente, bilanciato e calcolato. Coloro i quali oggi si stracciano le vesti per le resistenze tedesche all’embargo sono gli stessi che fino a ieri hanno elogiato la politica della cancelliera Angela Merkel, che per 15 anni ha segnato l’Europa e l’ha portata nel cul de sac in cui si trova. Una politica fatta di affari con la Russia, con lo stesso Putin che oggi è diventato la personificazione del male. Quando si firmavano gli accordi per Nord Stream 1, prima, e Nord Stream 2, poi, non si ricordano editoriali traboccanti indignazione.«Non si può isolare un Paese come la Russia nel lungo periodo», conclude Schröder nell’intervista al Nyt. Profezia o semplice constatazione? La difesa tedesca del proprio modello economico e sociale passa dalla difesa del suo rapporto con la Russia, cioè proprio ciò che gli Usa chiedono di tagliare. La sfida è aperta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-usa-mettono-berlino-con-le-spalle-al-muro-2657211330.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sanzioni-slitta-il-sesto-pacchetto-in-bilico-lembargo-su-greggio-e-gas" data-post-id="2657211330" data-published-at="1650914919" data-use-pagination="False"> Sanzioni, slitta il sesto pacchetto? In bilico l’embargo su greggio e gas Partirà domani l’iter per decidere il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue verso la Russia. Al centro del dibattito lo stop all’import di greggio, tema che scuote non poco diversi leader europei. Tanto che, con ogni probabilità, i tempi per l’approvazione delle nuove limitazioni slitteranno di almeno una settimana. Tra le opzioni al vaglio da parte dei vertici guidati Ursula von der Leyen c’è il cosiddetto periodo di «phasing out», ovvero di eliminazione graduale del petrolio russo. Inoltre, tra le nuove misure è previsto anche l’allungamento della lista delle banche russe escluse dal sistema Swift. Questa settimana sarà quindi dedicata ai colloqui e alle consultazioni sul nuovo pacchetto tra l’Ue e le diverse cancellerie europee. L’oggetto del contendere sull’oro nero è chiaro: ci sono Paesi, tra cui l’Italia, che non potrebbero permettersi un embargo immediato sul petrolio russo. Altri Stati, invece, tra cui Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia spingono per iniziare con uno stop già da maggio. Germania e Ungheria, dal canto loro, preferirebbero invece iniziare con un abbandono graduale. C’è poi l’idea del premier, Mario Draghi, che ha proposto di inserire un tetto massimo al prezzo delle risorse come alternativa alle sanzioni. In questo modo i clienti che acquistano greggio nei Paesi dell’Ue sarebbero spinti a pagare meno per il petrolio russo rispetto alle richieste di Mosca. Ma le trattative sono complesse. L’Alto rappresentante agli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt, ha reso noto che «alcuni Stati membri hanno detto molto chiaramente che non sosterrebbero un embargo, o una tariffa punitiva sul petrolio o sul gas russo. Ciò significa che a questo punto non abbiamo ancora l’unanimità nell’Ue per decidere un embargo, o una tariffa. Di conseguenza, una proposta finale di embargo su petrolio e gas non è pronta». In totale, uno stop al greggio russo potrebbe togliere fino a 200 miliardi di dollari di nuove entrate per Putin. Il problema è che questo comporterebbe un taglio del 5% delle esportazioni mondiali, spingendo l’Ue a una caccia forsennata per avere nuova energia. In più, perplessità su uno stop da parte di Bruxelles al petrolio russo arrivano anche da oltreoceano. «L’Europa», ha detto la segretaria al Tesoro americana, Janet Yellen, delineando un ipotetico scenario di embargo totale europeo su gas e petrolio russi, «deve ridurre la sua dipendenza dalla Russia per quanto riguarda l’energia, ma bisogna stare attenti quando pensiamo a un embargo completo europeo sulle importazioni petrolifere. Questo farebbe aumentare i prezzi globali del petrolio e avrebbe un impatto negativo sull’Europa e altre parti del mondo. E, al contrario, potrebbe avere un effetto negativo molto ridotto per la Russia, che per quanto si troverà a esportare di meno, venderà a prezzi più alti». In particolare, la preoccupazione è che il prezzo del greggio salga a tal punto da creare problemi ai democratici guidati dal presidente Joe Biden nelle elezioni di midterm e per il Congresso in autunno. Allo Zio Sam, insomma, interessa ben poco delle sorti dell’Ucraina. L’obiettivo degli Usa è quello di rendere la Russia il più inoffensiva possibile: non deve essere in grado di lanciare nuove guerre. L’unico modo certo perché ciò avvenga è quello di tagliare qualunque forma di entrata finanziaria. A dirlo a chiare lettere è stato lo stesso capo del Pentagono, Lloyd Austin, parlando nei pressi della frontiera ucraina di rientro dalla visita lampo a Kiev con il segretario di Stato, Antony Blinken. «Noi vogliamo vedere la Russia indebolita a un livello tale che non possa più fare cose come l’invasione dell’Ucraina», ha sottolineato Austin, «ha già perso molte delle sue capacità militari e molte truppe, per essere franchi. E noi non vorremmo che possa ricostruire rapidamente tali capacità».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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