2025-07-14
Hamas & C: gli obiettivi di Israele la lista dei «condannati a morte»
Anche a guerra finita, lo Stato continuerà a inseguire i dirigenti dell’organizzazione terroristica all’estero. Lo scopo: impedire la riorganizzazione. Ma non mancano i rischi, a partire dalla reazione degli Stati che ospitano i miliziani. Come Qatar e Turchia.Dopo il massacro alle Olimpiadi di Monaco, Golda Meir ordinò gli omicidi mirati dei responsabili. Con qualche tragico errore.L’offensiva contro il gruppo sciita in Libano è anche psicologica. Così è stata minata la sua coesione interna.Lo speciale contiene tre articoli.A 647 giorni dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza e mentre si cerca faticosamente di chiudere l’accordo per un cessate il fuoco, in un’intervista rilasciata a Newsmax Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele intende sfruttare il cessate il fuoco di 60 giorni nella Striscia di Gaza «per provare a negoziare una soluzione definitiva», ribadendo l’impegno a «sconfiggere questi mostri e riportare a casa i nostri ostaggi». Evidente che prima o poi questa guerra nella Striscoia di Gaza voluta dall’Iran e dal Qatar, munifici finanziatori di Hamas e della Jihad islamica, finirà, tuttavia e ne inizierà un’altra segreta, a colpi di omicidi mirati. L’obiettivo è chiaro e dichiarato: colpire e uccidere i vertici di Hamas ovunque si trovino, anche nei Paesi stranieri che finora hanno offerto ospitalità, copertura politica, finanziaria e diplomatica. Dopo l’uccisione di Ismail Haniyeh, responsabile dell’ufficio politico di Hamas e residente in Qatar, eliminato da un’operazione del Mossad in Iran il 31 luglio 2024, e quella di Saleh al-Arouri, vicecapo politico e fondatore delle Brigate al-Qassam, ucciso il 2 gennaio 2024 a Beirut, sono stati neutralizzati tutti i principali comandanti militari del movimento jihadista. L’ondata di eliminazioni mirate, solo per citarne alcune, è cominciata con Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza e ritenuto l’artefice dell’attacco del 7 ottobre 2023, colpito mortalmente il 16 ottobre 2024. A seguire, il suo vice Mohammed Deif è stato annientato da un drone a Khan Younis il 13 luglio dello stesso anno. Tra le vittime anche Muhammad Sinwar, 49 anni, fratello minore di Yahya, ucciso il 13 maggio 2025 insieme a Hakham Muhammad Issa al-Issa, altro alto esponente militare dell’ala armata del gruppo. Netanyahu, i membri del suo gabinetto e gli uomini delle agenzie di intelligence, hanno promesso pubblicamente fin dall’8 ottobre 2023 che Hamas «non sopravviverà». Dopo le numerose eliminazioni mirate condotte nella Striscia, l’attenzione ora si concentra su quei leader che operano da anni in esilio: una rete ramificata tra Qatar, Libano, Turchia, Iran, Malesia e persino Europa.Le operazioni di assassinio mirato condotte dal Mossad fuori dai confini israeliani non sono certo una novità. Già in passato l’intelligence dello Stato ebraico ha eliminato figure chiave di Hamas in località come Dubai, Kuala Lumpur o Damasco. Tuttavia, l’attuale contesto globale — segnato da una guerra in corso e da crescenti tensioni con Hezbollah, Iran e attori regionali — rende queste operazioni ancora più rischiose. Dal punto di vista operativo, Israele dispone delle capacità tecnologiche, delle reti di intelligence e della volontà politica per tentare l’eliminazione sistematica dei vertici di Hamas anche fuori dal Medio Oriente. Tuttavia ogni operazione in territorio straniero comporta rischi elevatissimi: escalation diplomatiche, danni collaterali, risposte armate e violazioni del diritto internazionale. Alcuni esperti ritengono che un’offensiva totale contro i leader all’estero possa portare a un collasso della leadership di Hamas e impedirne la riorganizzazione dopo la guerra a Gaza. Altri, invece, avvertono che tali azioni potrebbero solo radicalizzare ulteriormente il movimento e portare a un’espansione del conflitto in aree finora rimaste marginali. Nel mirino dei servizi israeliani sono finiti ora i leader politici di Hamas che conducono una vita da plurimilionari a Doha, in Qatar. Tra i nomi segnalati figurano Khaled Mashal, Osama Hamdan, Ghazi Hamad, Sami Abu Zuhri, Khalil al-Hayya, Taher al-Nunu, Mousa Abu Marzook, Fathi Hamad e Nizar Awadallah. Tuttavia, l’attenzione del Mossad non si limita all’Emirato del Golfo: anche la Turchia è entrata nella lista degli obiettivi. Negli ultimi anni, infatti, Ankara è diventata uno dei principali centri operativi e politici della leadership esterna del movimento. A seguito di pressioni diplomatiche da parte di Paesi occidentali, alcuni dirigenti sono stati costretti a lasciare il Qatar, trovando rifugio in territorio turco. Istanbul si è così trasformata nel nuovo centro nevralgico delle attività di Hamas all’estero. Secondo fonti di intelligence, almeno tre esponenti di alto livello vivrebbero stabilmente in Turchia, da dove continuano a gestire, finanziare e ispirare le operazioni del gruppo.Già incarcerato in Israele per attività legate al terrorismo, Zaher Jabarin è ritenuto una figura centrale nell’amministrazione delle finanze di Hamas, con un ruolo di primo piano nel sostegno economico alle cellule operative attive in Cisgiordania. È noto per aver orchestrato il trasferimento di fondi attraverso canali paralleli che collegano Libano, Iran, Siria e Turchia. Secondo quanto riportato dall’Intelligence and Terrorism Information Center di Gerusalemme, avrebbe inoltre partecipato direttamente alla pianificazione di attacchi armati e al reclutamento di giovani palestinesi da impiegare in operazioni contro obiettivi israeliani. Tra i leader di Hamas attualmente presenti in Turchia figura anche Suheil al-Hindi, ex membro dell’ufficio politico del movimento e in passato attivo nel sindacato degli insegnanti affiliato al gruppo islamista. Allontanato dalla Striscia di Gaza, si è stabilito a Istanbul, dove è diventato uno dei volti pubblici di Hamas in ambito religioso e comunitario, partecipando frequentemente a eventi nelle moschee locali. Il suo compito principale è legato alla propaganda, alla formazione ideologica e al coordinamento politico con soggetti internazionali. Un’altra figura storica che ha trovato rifugio in Turchia è Mahmoud al-Zahar, co-fondatore di Hamas ed ex ministro degli Esteri nel governo di Ismail Haniyeh formatosi dopo le elezioni del 2006. Al-Zahar, nonostante l’età avanzata (80 anni), conserva stretti legami con l’Iran e Hezbollah e continua a esercitare un’influenza significativa sulle scelte strategiche del movimento dalla sua residenza di Istanbul. Le sue interviste e dichiarazioni, spesso rilasciate da lì, vengono regolarmente rilanciate dai media arabi vicini a Hamas.La prospettiva di una «caccia globale» ai vertici di Hamas suggerisce che, anche qualora il conflitto armato a Gaza dovesse concludersi, la guerra tra Israele e Hamas continuerà a dispiegarsi su scala internazionale. Il futuro di questa strategia dipenderà non solo dalla volontà israeliana, ma anche dalle reazioni dei Paesi che oggi ospitano o tollerano la presenza dei leader del movimento. In questa nuova fase del conflitto, il fronte estero rischia di diventare il vero campo di battaglia - invisibile, frammentato, ma potenzialmente esplosivo. In ogni caso l’impressione è che nei prossimi anni avremo molto da scrivere. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-obiettivi-di-israele-2673167115.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-caccia-ai-membri-di-settembre-nero-che-cambio-la-storia-dellantiterrorismo" data-post-id="2673167115" data-published-at="1752514585" data-use-pagination="False"> La caccia ai membri di Settembre nero che cambiò la storia dell’antiterrorismo Dopo il massacro degli undici atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972, lo Stato di Israele rispose con un’operazione senza precedenti: «Collera di Dio», una campagna globale di eliminazioni mirate lanciata dal governo di Golda Meir e condotta dal Mossad contro i membri e i fiancheggiatori di Settembre Nero, il gruppo armato palestinese responsabile dell’attentato. Una guerra segreta durata anni, fatta di infiltrazioni, omicidi mirati, errori drammatici e dettagli poco noti, destinata a cambiare per sempre la storia dell’antiterrorismo. Il 5 settembre 1972, otto militanti palestinesi di Settembre Nero fecero irruzione nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera, prendendo in ostaggio undici membri della delegazione israeliana. Dopo ore di negoziati falliti e un disastroso blitz all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, tutti gli ostaggi vennero uccisi. L’evento scioccò l’opinione pubblica mondiale e spinse Israele ad abbandonare ogni remora: i responsabili dovevano essere uccisi. Ovunque si trovassero.Golda Meir incaricò il Mossad di condurre una campagna clandestina «per dare la caccia a ogni singolo responsabile del massacro». Nacque così una delle operazioni più controverse e spietate della guerra a bassa intensità tra Israele e i gruppi palestinesi. L’unità Kidon, reparto operativo del Mossad specializzato nelle eliminazioni mirate, ricevette una lista di obiettivi compilata grazie al lavoro di intelligence e alle informazioni dei servizi segreti alleati. La caccia partì da Roma, dove il 16 ottobre 1972 Wael Zwaiter, rappresentante dell’Olp in Italia, venne freddato nell’androne di casa con undici colpi di pistola, simbolicamente uno per ogni vittima di Monaco. Il 9 dicembre dello stesso anno, Mahmoud Hamshari, rappresentante palestinese in Francia, venne ucciso da una bomba piazzata sotto il telefono della sua abitazione parigina. A gennaio 1973, Hussein al-Bashir, membro dell’Olp a Cipro, saltò in aria in un hotel a Nicosia: gli agenti avevano nascosto l’esplosivo sotto il materasso. Questi omicidi non solo eliminarono figure legate al terrorismo palestinese, ma inviarono un chiaro messaggio: il Mossad poteva colpire ovunque. Uno degli episodi meno conosciuti – e più imbarazzanti – fu quello avvenuto a Lillehammer, in Norvegia, nel luglio 1973. Il Mossad scambiò un innocente cameriere marocchino, Ahmed Bouchiki, per Ali Hassan Salameh, considerato l’architetto del massacro di Monaco. Lo uccisero con diversi colpi di pistola davanti alla moglie incinta. L’errore costò caro: sei agenti vennero arrestati dai servizi norvegesi, compromettendo le attività del Mossad in Europa. L’incidente provocò una crisi diplomatica tra Oslo e Tel Aviv e portò alla temporanea sospensione dell’operazione. Oltre al caso Lillehammer, ci furono altri incidenti. A Beirut, una bomba esplose in anticipo, ferendo civili. Ma il vero Salameh – soprannominato «Il Principe Rosso»– rimase l’obiettivo principale del Mossad. Ali Hassan Salameh, figlio di un generale palestinese e figura carismatica all’interno di Fatah e dell’Olp, era il coordinatore degli Affari esterni, cioè delle operazioni segrete, e il legame diretto tra Settembre Nero e i servizi di sicurezza palestinesi. Per anni sfuggì alla cattura grazie alla protezione di Yasser Arafat e a una rete di intelligence libanese. Nel 1979, il Mossad riuscì a localizzarlo a Beirut Ovest. Una giovane agente sotto copertura, con falsa identità europea, monitorò i suoi movimenti per settimane. Il 22 gennaio, una bomba telecomandata piazzata su un’autobomba esplose al passaggio del convoglio. Salameh morì sul colpo, insieme a quattro membri della scorta. Era l’obiettivo finale della lunga campagna di vendetta anche se alcuni degli autori materiali e ideatori dell’attacco riuscirono a sfuggire alla vendetta del Mossad, vivendo per decenni nell’ombra. Tra loro Jamal al-Gashey, uno degli otto uomini che assaltarono il villaggio olimpico. Catturato dopo l’attacco, fu liberato poche settimane dopo nel controverso dirottamento di un aereo Lufthansa, che secondo molti fu orchestrato ad arte. Da allora svanito nel nulla, anche se un documentario del 1999 lo mostrava, a volto coperto, in una località non rivelata del Nord Africa. Mohammed Safady, altro membro del commando, è rimasto un mistero per anni. Ma nel 2022 è riemerso in un’intervista esclusiva della tv tedesca Ard, rivendicando con orgoglio la partecipazione al massacro e dichiarando «di non provare rimorsi». La sua attuale ubicazione resta ignota, anche se si ritiene viva tra Libano e Siria. A orchestrare logisticamente l’attacco fu invece Abu Daoud (Mohammed Oudeh), uno dei cervelli dell’operazione. Nonostante fosse noto e avesse ammesso pubblicamente il proprio ruolo, non fu mai eliminato dal Mossad. Visse tra Algeria, Siria e Giordania fino alla morte per cause naturali a Damasco, nel 2010. L’operazione «Collera di Dio» non fu soltanto una risposta alla strage di Monaco. Fu il primo esempio sistematico di dottrina dell’eliminazione mirata, adottata successivamente da altri Paesi – inclusi gli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Tuttavia, il prezzo fu alto: fallimenti operativi, tensioni diplomatiche e un dibattito etico ancora aperto. Come dirà un ex funzionario del Mossad anni dopo: «Non abbiamo fermato il terrorismo. Ma abbiamo fatto capire che nessuno può uccidere e sparire nell’ombra. Se colpisci Israele, prima o poi, ti troveremo». Così sarà anche per i leader di Hamas. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-obiettivi-di-israele-2673167115.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="lo-smantellamento-a-strati-di-hezbollah" data-post-id="2673167115" data-published-at="1752514585" data-use-pagination="False"> Lo smantellamento «a strati» di Hezbollah Il punto chiave della strategia israeliana è stato «lo smantellamento a strati del dispositivo operativo di Hezbollah» a partire dall’uccisione del leader, Hassan Nasrallah l’uomo più potente del Libano, eliminato venerdì 27 settembre 2024 all’età di 64 anni durante un’ondata di attacchi israeliani contro il principale bastione di Hezbollah a sud di Beirut. Le vittime tra le file dell’organizzazione sciita sono aumentate in modo esponenziale. Fonti libanesi parlano di almeno 400 miliziani uccisi in nove mesi, tra cui numerosi comandanti regionali e specialisti in missili guidati anticarro. La scelta di colpire le figure intermedie – responsabili della logistica, del controllo territorio e del collegamento con l’Iran – ha generato vuoti operativi e rallentato le capacità di risposta del gruppo. Un ruolo decisivo è stato giocato dal Mossad e dall’Unità 8200, i servizi di intelligence e guerra elettronica israeliani come visto nell’incredibile operazione del 17 settembre 2024 poco dopo le 15, quando un attacco coordinato ha fatto esplodere migliaia di cercapersone in dotazione ai miliziani di Hezbollah, colpendo simultaneamente Beirut, diverse aree del Libano e Damasco. Le immagini circolate sui social mostrano scene di vita quotidiana interrotte da deflagrazioni improvvise: persone al mercato colpite all’improvviso, insanguinate. I dispositivi, di ultima generazione e recentemente distribuiti ai combattenti sciiti filo-iraniani, sono esplosi all’unisono provocando panico e distruzione. Il bilancio parla di almeno 3.000 feriti — di cui 200 in gravi condizioni — e 16 morti: 7 a Damasco e 9 in Libano. Attraverso intercettazioni, tracciamenti satellitari e infiltrazioni digitali, sono riusciti a localizzare i movimenti di vari quadri di Hezbollah. Diversi droni kamikaze hanno centrato veicoli in movimento a distanza di sicurezza, evitando escalation con la Siria o con le truppe Unifil. Parallelamente, Tel Aviv ha lanciato un’offensiva psicologica. Attraverso messaggi criptati, cyber-attacchi e fughe di notizie controllate, ha fatto circolare informazioni interne di Hezbollah per minarne la coesione interna. In alcune aree, sono esplosi dissidi tra i comandanti locali e la leadership centrale di Hassan Nasrallah, accusata di esporre le comunità sciite a rappresaglie israeliane senza alcun ritorno strategico. Sul piano economico, l’escalation ha avuto un costo elevato per la società civile libanese. Interi villaggi sciiti nel sud sono stati evacuati o ridotti all’inoperabilità. Infrastrutture elettriche e vie di comunicazione sono state danneggiate, mentre il commercio transfrontaliero è crollato. Hezbollah, da tempo simbolo della «resistenza», è oggi sempre più isolato e indebolito. Il suo principale alleato, l’Iran, è sotto pressione per le sanzioni occidentali e gli attacchi israeliani ai convogli armati in Siria, che hanno compromesso le forniture militari, in particolare componenti per droni e missili. Il gruppo sciita libanese fatica a sostenere il suo sistema di welfare parallelo, una delle chiavi del suo consenso, mentre le sue milizie appaiono disorientate e meno efficaci. Sebbene Israele abbia ripristinato una certa capacità deterrente nel Levante, i vertici di Tel Aviv sono consapevoli che un colpo definitivo a Hezbollah non può essere solo militare. Il pericolo di una risposta indiretta da parte dell’Iran rimane. Tuttavia, al momento, Hezbollah che oggi ha come guida Naim Qassem non è più percepito come una forza invincibile.
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