2022-09-11
Gli amabili resti della quercia ci insegnano che il parco non deve essere un cimitero
Di uno degli alberi più imponenti dei giardini di Porta Venezia a Milano è rimasto lo scheletro. Circa dieci anni fa si è spento ma nessuno sembra essersene accorto.Anni fa uscì un romanzo che si intitolava Amabili resti, in lingua originale The lovely bones, le amorevoli ossa, le amate ossa. L’ha scritto l’autrice americana Alice Sebold, forse uno dei romanzi moderni più consapevolmente o inconsapevolmente plagiati. Correva l’anno 2002 anche se il romanzo è ambientato nel 1973, l’anno in cui sono venuta al mondo. Cosa accadeva nel 2002 e cosa accadeva nel 1973? Nel 2002 l’Argentina va in default, gli scontri nel Gujarat tra indù e musulmani causano oltre 700 vittime, un tizio fa schiantare il suo aereo contro il grattacielo Pirelli, il comunista Lula viene eletto presidente in Brasile. Nel 1973 invece un commando palestinese assalta l’aeroporto di Fiumicino causando 30 vittime, c’è la guerra del Kippur in Israele, in Cile avviene il golpe militare voluto da Augusto Pinochet e muore Salvador Allende, mentre nonostante gli accordi e i proclami prosegue la lunga guerra in Vietnam. Curiosamente hanno avuto più conseguenze nella vita mia e nella vita della mia generazione gli avvenimenti accaduti quando siamo venuti al mondo che non quelli di quando c’eravamo già. Cose che evidentemente accadono ai vivi.In Amabili resti lo spirito di una ragazzina uccisa da un maniaco racconta come è morta, chi l’ha assassinata, le indagini della polizia, come si evolvono i rapporti tra i suoi genitori e altro ancora. Vediamo tutto dall’aldilà. Sarebbe interessante capire se anche altre forme di vita hanno un’anima capace di poter elaborare una «visione» quando la loro fine terrestre è giunta. C’è un albero che vado a trovare ogni tanto, nei giardini di Porta Venezia, quelli che qualcuno si ostina a chiamare giardini Indro Montanelli (il giornalista) e dove giace un tronco di quercia. Era uno degli alberi più amati e fotografati di Milano, ricordo ancora quando aveva lunghi rami, io ero una bambina e i miei ci portavano qui la domenica per passeggiare. Magari ci accompagnavano a vedere lo spettacolo del pomeriggio al Planetario, o ci vedevamo una mostra al Museo di storia naturale. Ho ricordi molti belli di quel tempo, i nostri genitori erano ancora insieme, noi due bambini spensierati e venire qui a vedere gli animali e il museo, e gli alberi nel parco ci sembrava qualcosa di importante, di significativo. Forse lo pensano tutti i bambini.Allo zoo c’erano ancora gli animali veri, e vivi. La vasca che ora è vuota ospitava delle foche, e c’era anche un’orsa bianca. Mio fratello dice che erano in gabbia, ma io me la ricordo anche in acqua, ma forse non è vero. Poi c’è stata un’elefantessa, Bombay, e anche un leone maschio, con tanto di criniera. Gli zoo civici erano molto popolari nelle città italiane, ce n’erano a Roma, a Torino, a Genova, sarebbero stati chiusi negli anni seguenti ma per noi erano al tempo stesso un richiamo e qualcosa che ci spaventava, che ci lasciava tristi. Chiunque avrebbe capito che questi erano animali tristi, depressi. Un leone deve stare nella savana, non in una gabbia nel centro di Milano. E un elefante deve stare con i suoi simili in India, e non qui. E un’orsa bianca deve stare sul ghiaccio, non in una vasca su un pezzo di cemento bianco. A noi bambini però piaceva andare a trovarli, era come avvicinare un mondo che conoscevamo soltanto nei libri illustrati e nei documentari in televisione. A un bambino gli alberi piacciono ma non fanno lo stesso effetto che fanno gli animali. Tranne che per questa quercia, per quanto mi riguarda. Al tempo aveva ancora diversi lunghi rami e potevi andare a sederti alla sua base. Devo avere una fotografia di me e mio fratello, lì sotto, saranno stati i primi anni Ottanta, all’incirca. Poi l’albero ha iniziato ad ammalarsi e mentre io crescevo, diventavo donna e iniziavo a lavorare, questo albero prima ha perso le sue lunghe braccia, quindi hanno iniziato a sostenerlo con dei pali in legno. E alla fine, una decina di anni fa, si è spento. I bambini ci andavano ancora a giocare ma i piedi avevano creato come un buco alla sua base e la malattia che la stava divorando dall’interno è esplosa. Ora è lì, abbattuta, sradicata, rovesciata, circondata da una palizzata che la rende ancora più sola. Non so se abbiano fatto bene a lasciarla qui, davanti ai nostri occhi così assetati di morte e di drammi. Non c’è motivo di pensarlo ma se avessi potuto, se fosse stata una mia decisione, credo che l’avrei fatta portare via, avrei consegnato i suoi legni spenti al fuoco, per farla sfumare in un fumetto e consegnare la sua anima, se esiste, al Paradiso degli alberi. Se invece non esiste poco male, almeno non sarebbe stata qui a decomporsi, un giorno dopo l’altro.Era una quercia rossa, Quercus rubra, origine americana. Le avevano importate i botanici e ce ne sono alcune nei giardini cittadini, oltre che quella famosa e storica alla Reggia Reale di Monza. Quella è ancora in piedi, appartiene agli alberi monumentali protetti dallo Stato. Qui ai giardini di Porta Venezia ci sono altri alberi protetti: due platani, un bagolaro, un cipresso della palude vicino al ponticello. Tornare qui a salutare quel che resta della quercia è anche un modo per ricordare me stessa, quella bambina che ero, i sogni che nutrivo e che la vita ha stravolto, non poco. Mi ricordo la spensieratezza, i giochi innocenti che facevamo, il bene puro che provavo per i miei genitori insieme e per mio fratello, e che loro dimostravano nei miei riguardi. Quella grande quercia non rappresentava soltanto sé stessa, rappresentava un mondo che oramai non esiste più. La gente che si fermava sotto di lei e si metteva in posa, quante coppie e amici e familiari ho visto farlo. Anche scolaresche e gruppi di amici in visita. Nel prato antistante ogni tanto ci sono dei ragazzi che giocano al calcio o delle ragazze che tirano di pallavolo. In primavera spesso, nel pomeriggio, ci sono gli studenti che vengono qui a leggere i libri sdraiati sui teli sopra l’erba. Quando vengo c’è quasi sempre un momento, una manciata di minuti, nel quale mi aspetto di vederla così com’era, alta vasta, orgogliosa. Poi arrivo e capisco che non è più così.
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