2022-02-14
La Consulta decide il nostro futuro sull’eutanasia, la giustizia e la droga
Al vaglio i quesiti referendari. Bioliberismo? Potremo solo «sballarci» o «ucciderci».Lo speciale contiene due articoliSe per caso fossero state necessarie ragioni supplementari per augurarsi che i sei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dal Partito radicale possano (prima) essere ammessi dalla Corte costituzionale e (poi) sottoposti al voto degli italiani, è stato l’ultimo weekend a fornircele. Perfino per proporre al Parlamento un intervento da minimo sindacale (fermare le «porte girevoli» tra toghe e politica) è stata necessaria al governo una mediazione spossante. Insomma, anche solo per dare il via a un intervento limitato, marginale, direi quasi impercettibile rispetto ai problemi immensi del sistema giustizia, è servito uno sforzo enorme.In queste condizioni, qualcuno pensa che questo governo e questo Parlamento possano farsi carico di interventi profondi in materia di giustizia? Decisamente no. Dunque, a maggior ragione ha senso dare la parola agli italiani su alcuni punti decisivi, affinché sia la forza degli elettori a sciogliere alcuni nodi e a indicare la via. Calcisticamente parlando, ci siamo trovati davanti a un «attacco a due punte»: l’iniziativa del governo e i referendum. Poiché, com’era prevedibile, la prima appare debole, ha ancora più senso investire politicamente sui secondi. I sei quesiti, pur non potendo intervenire su norme costituzionali (per evidenti ragioni connesse ai limiti imposti ai referendum nel nostro sistema), hanno il merito di consentire agli elettori sei scelte di fondo. Sul Csm, il quesito elimina l’obbligo per il magistrato di raccogliere almeno 25 firme per candidarsi, e in altre parole evita che sia costretto ad avere il supporto di una corrente. Oggi una candidatura autonoma e indipendente è pressoché impedita: il quesito, invece, la incoraggia e la rende possibile. Sui Consigli giudiziari (organi ausiliari del Csm, e in fondo a loro volta dei «piccoli Csm»), si estende e si incoraggia la valutazione sui magistrati. Attualmente, la parte non togata dei Consigli non può esprimersi su capacità e attitudini del magistrato, ma solo sull’organizzazione degli uffici. Una vittoria del sì al quesito consentirebbe anche agli avvocati e ai professori universitari di contribuire al giudizio. Anche perché, rebus sic stantibus, è per lo meno curioso che il 99% dei magistrati ottenga un giudizio di eccellenza.Il terzo quesito va al cuore del problema e affronta il nodo della separazione delle carriere. Se passa il sì, quando si entra in magistratura occorre scegliere una volta per tutte se svolgere funzioni requirenti o giudicanti. Sarebbe una svolta epocale, distinguendo una volta per tutte il compito di sostenere l’accusa da quello di essere giudice terzo, dicendo stop ai magistrati che nella loro vita prima fanno il pm, poi il gip e così via.Il quarto quesito è per la responsabilità civile dei magistrati, già sancita dai cittadini nel referendum voluto da Enzo Tortora nel 1987, ma poi purtroppo vanificata nel 1988 dalla legge promossa dal guardasigilli dell’epoca, Giuliano Vassalli. Il referendum dell’87, stravinto con l’approvazione dell’80% dei votanti, aveva infatti introdotto la responsabilità civile diretta, mentre la legge Vassalli stabilì che si poteva soltanto far causa allo Stato, che poi si sarebbe eventualmente potuto rivalere sul magistrato, ma solo entro certi limiti. E davvero la ratio di quel tradimento della volontà popolare rimase incomprensibile: il magistrato è un funzionario dello Stato; i funzionari in generale devono rispondere dei propri atti; e allora non si comprende perché mai i magistrati, cioè funzionari che si occupano di amministrazione della giustizia, non debbano a loro volta essere direttamente responsabili.Il quinto referendum, che genererà non poche discussioni, incide sulla custodia cautelare. Attualmente, per far scattare una misura cautelare, serve il rischio concreto di inquinamento delle prove, oppure di pericolo di fuga, oppure di reiterazione del reato. Eccezion fatta per reati particolarmente violenti o di tipo associativo, il quesito fa saltare l’ipotesi della reiterazione. La logica dei promotori è che una misura cautelare dovrebbe essere un’extrema ratio, non una «regola», e che circa il 42% degli attuali detenuti si trova in carcere senza avere una condanna definitiva, e il 21% ha solo una condanna in primo grado.Il sesto e ultimo quesito riguarda la legge Severino, e punta a eliminare l’automaticità di decadenza, ineleggibilità e incandidabilità in caso di condanna, anche in primo grado. È ad esempio piuttosto grave che oggi un sindaco venga sospeso, pubblicamente umiliato nella sua vita politica e professionale, e poi magari risulti assolto anni dopo. Come si vede, si tratta di nodi decisivi, che ben difficilmente un governo e un Parlamento (meno che mai in uno scorcio finale di legislatura) potrebbero sciogliere. Meglio dunque sperare in tre cose: che la Corte costituzionale ammetta i quesiti; che il governo faccia coincidere il voto referendario (in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno) con la tornata di elezioni amministrative, attraverso un election day che abbatterebbe i costi e favorirebbe la partecipazione; e che poi l’eventuale decisione dei cittadini non venga a posteriori rovesciata in Parlamento.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/giustizia-la-chance-di-disarticolare-la-corporazione-togata-che-nessuno-osa-sfiorare-2656648299.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="se-vince-il-bioliberismo-lunico-diritto-che-resta-e-quello-di-farsi-e-disfarsi" data-post-id="2656648299" data-published-at="1644794151" data-use-pagination="False"> Se vince il «bioliberismo» l’unico diritto che resta è quello di farsi e disfarsi Domani la Corte costituzionale si pronuncerà anche su due grandi quesiti che incombono ormai come nubi da molti anni sulla nostra società: l’ammissibilità del referendum sull’eutanasia legale o meglio il suicidio assistito e la legalizzazione della cannabis. Due temi di diversa portata ma di uguale ispirazione radicale. Sul primo è intervenuto con sorprendente forza e tempismo papa Francesco sostenendo, coerentemente con la posizione della Chiesa e con la visione cristiana della vita, che va riconosciuto il diritto alla vita e non alla morte; è giusto frenare l’accanimento terapeutico e accompagnare alla morte, ma senza aiutare alcuna forma di suicidio. Che peso avrà l’intervento papale e il pronunciamento della Chiesa sulla decisione della Consulta? Domani lo sapremo e capiremo se il Papa viene preso in considerazione quando parla di accoglienza e di ambiente mentre viene ignorato se parla di diritto alla vita e alla nascita e non di diritto alla morte. Al di là dei motivi religiosi, come si possono considerare le questioni sollevate dai radicali sul piano legale, civile e umano? Nessuno può ergersi a giudicare la sofferenza, la fragilità, la paura altrui; e non giudicheremo mai le scelte personali, soggettive, in quelle condizioni estreme di vita. Non siamo giudici supremi ma siamo giocatori, e mortali, come coloro che decidono di togliersi la vita. Quel che invece si può e si deve contestare è la pretesa che la Legge, lo Stato, la Sanità, la Società debbano sancire il diritto alla libera morte e agevolarlo, dopo avere già negato con l’aborto il diritto alla vita del nascituro. E il fatto che queste norme siano in vigore da anni in alcuni Paesi del Nord Europa non è motivo d’incoraggiamento ad adeguarsi, semmai il contrario; peraltro la legalizzazione del suicidio assistito, la sua facilitazione, ha prodotto un incremento notevole di suicidi. di cosa si tratta davvero Non si devono del resto confondere i casi limite, solitamente sbandierati, di vite ormai terminali e poco più che vegetali, con quel che realmente si vuol far passare: il diritto a morire per ogni uomo sulla base della propria scelta sovrana (la vita è mia e me la gestisco io, morte inclusa); e il relativo diritto ad essere assistiti in caso si decida di sottrarsi alla vita, anche quando la vita non è ridotta in condizioni irreversibilmente terminali. Ripeto: non si discutono le scelte personali, anche estreme, magari aiutate da qualcuno; ma si contesta la richiesta di legalizzare il suicidio assistito, cioè la pretesa di «complicità» dello Stato, della legge, delle strutture ospedaliere per queste pratiche estreme. Quel che dovrebbe distinguere la sfera pubblica è la tutela della vita, e non il diritto alla morte. Lo stesso criterio a mio parere va applicato in tema di legalizzazione delle droghe cosiddette leggere. Non si tratta di giudicare coloro che fanno uso lieve di droghe leggere, non ci ergiamo a loro giudici; ma è inaccettabile che debba essere lo Stato, la Legge, il Diritto, a sancirne la piena liceità. Perché è molto controversa la definizione di droga leggera e controversi sono i suoi confini; non sono pratiche del tutto innocue e neutrali, e senza alcuna ricaduta sociale; è molto aperto il tema se la legalizzazione della cannabis agevoli poi il passaggio dalle droghe leggere a quelle più nocive; ed è comunque una forma di dipendenza e di abdicazione del proprio pieno controllo delle facoltà mentali che si può magari fare a proprio rischio ma senza l’approvazione della legge. E non smantella il racket clandestino della droga più di quanto non lo supporti, curandosi del primo grado di avviamento all’uso di sostanze stupefacenti che poi magari proseguirà nello spaccio. argini da non abbattere A livello personale e privato si può pure concepire, ma senza la pretesa di avere il sostegno pubblico, legale, statale. Liberi di decidere se usarlo, ma non chiedete il nullaosta legale per farlo. E se ci sono altre pratiche altrettanto nocive, come l’alcolismo, l’ipernutrizione e il fumo, è il caso di chiedersi come arginarle, e non il contrario, di estendere la liceità anche alla cannabis, e magari via via ad altre erbe o sostanze. Se si abbatte anche la barriera culturale e civile, morale e simbolica, prima che legale, passa l’idea che libertà sia farsi e disfarsi in assoluto, a proprio piacimento. A questa tendenza della nostra società ho dedicato un ampio capitolo nel mio ultimo libro, La Cappa, soffermandomi in particolare sul bio-liberismo che per molti versi si può leggere come un «libero-mortismo»: diritto al suicidio, all’aborto, all’uso della droga. Libera morte in libero Stato. gravi contraddizioni In quelle pagine ho sottolineato una contraddizione davvero stridente: la nostra società invoglia al bioliberismo assoluto nella sfera privata ma poi allarga sempre più il regime di sorveglianza sulla sfera pubblica, ora per motivi sanitari ora per motivi securitari, ora perché invade il campo libero delle opinioni, delle idee con prescrizioni e proscrizioni, codici di correttezza e censure applicate anche alla storia. Un controllo capillare, digitale, molecolare, a cui si unisce l’orizzonte coatto del politically correct e dei suoi santuari intoccabili. Sfogatevi nel privato, ma conformatevi nel pubblico: liberi di farsi e disfarsi, di coltivare l’erba voglio, ma poi coatti, vigilati e conformati nel nuovo sistema globalitario. Bioliberismo in un regime illibertario. Bel mostro, vi pare?
Jose Mourinho (Getty Images)