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Lo ha detto il vicepremier e ministro degli Esteri a margine del consiglio Affari esteri in corso a Bruxelles.
Lo ha detto il vicepremier e ministro degli Esteri a margine del consiglio Affari esteri in corso a Bruxelles.
Per l’opinione collettiva le Ong sono organizzazioni che si spendono per nobili cause, dagli aiuti ai migranti al cambiamento climatico ma dietro queste crociate umanitarie e sociali, si nasconde una macchina da guerra finanziaria, che non ha eguali.
I numeri di questi colossi sono sul portale Open cooperazione, piattaforma che raccoglie da dieci anni i movimenti finanziari di oltre 250 tra le più importanti organizzazioni del settore. Dalle tabelle emerge che l’anno scorso le Ong italiane hanno consolidato il trend di crescita con un incremento di tre punti percentuali e che negli ultimi dieci anni il valore delle entrate è più che raddoppiato.
Le sole organizzazioni della società civile, mobilitano una quantità di risorse economiche e umane paragonabili a importanti filiere produttive del nostro Paese con l’unica differenza che hanno aumentato il business in modo progressivo e continuativo. Hanno un valore economico di oltre 1,4 miliardi di euro, equivalente a settori come quello dei vini spumanti, del gelato italiano o dei mobili e arredo di design. Le Ong italiane sono attive in 129 Paesi del mondo con quasi 6.000 progetti implementati (più 4% rispetto al 2023) di cui il 48% in Africa, in località indicate dal Piano Mattei. Mozambico, Etiopia, Kenya e Uganda sono al primo posto tra i Paesi dove si sono concentrate la maggior parte delle iniziative (793 progetti).
Le attività interessano anche contesti di conflitto: 114 per gli ucraini, 176 a sostegno della popolazione della Palestina, 146 in Libano.
Ma è in Italia che le Ong concentrano le iniziative: oltre 1.000 quelle realizzate nel 2024 da 92 organizzazioni e una crescita del 40% negli ultimi cinque anni in particolare sui temi della povertà educativa, dell’assistenza ai rifugiati e delle nuove povertà.
Nella classifica sulla base dei bilanci, si collocano tra le prime dieci, Save the Children, Fondazione Avsi, Intersos, Medici Senza Frontiere, Coopi, Emergency, Comitato Italiano per l’Unicef, WeWorld, Medici con l’Africa e ActionAid.
Stiamo parlando di big finanziari, tant’è che più dell’80% delle entrate economiche del settore è realizzato dalle prime 20 organizzazioni italiane, una percentuale in costante crescita come rivelato da Open Cooperazione.
Ma come si finanziano? Per il 58% con fondi pubblici e per il 42% da fondi privati. I fondi pubblici alle Ong arrivano dai cosiddetti finanziatori istituzionali, il 37% dall’Agenzia italiana per la cooperazione Aics e dal Maeci, un altro 33% dall’Unione europea (Ue+Echo), poco più del 15% dagli enti territoriali attraverso la cooperazione decentrata e il restante 14% da agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali.
Per quanto riguarda i fondi privati (sono oltre 2 milioni i donatori), mentre restano sostanzialmente stabili quelli erogati dalla filantropia privata e bancaria (32%), aumentano le entrate da donazioni o partnership con le aziende dal 35 al 41%. Il canale fiscale del 5×1000 contribuisce per il 21% e le chiese per il 7% circa.
Le organizzazioni con bilancio certificato sono il 69% mentre il 31% non lo hanno.
Dalla piattaforma risulta che gli operatori della cooperazione guadagnano in Italia da un massimo di 145.000 euro lordi annui a 10.000 euro mentre per l’estero la retribuzione più alta è di 89.496 euro lordi.
Le Ong puntano molto sulla diversificazione delle fonti di finanziamento, assegnando un ruolo sempre più rilevante alle partnership con le imprese. Questo apre a nuove sinergie tra settore non profit e privato, con potenziali benefici sistemici.
Aumentano anche le risorse umane impiegate nel settore, in Italia e all’estero con quasi 29.000 operatori e operatrici (53% uomini e 47% donne). Un patrimonio di persone che è cresciuto del 7% rispetto al 2023 e che negli ultimi dieci anni si è più che duplicato. A questi dipendenti si aggiunge l’attività dei volontari attivi (52.196) e di quelli in servizio civile (1.762). Nel 2024 sono aumentati rispettivamente del 5% del 35% rispetto all’anno precedente.
La situazione però sta cambiando. «Notiamo un significativo definanziamento delle risorse assegnate all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, che rappresenta il principale strumento di cui il sistema italia si è dotato con la legge 125 per tradurre in opera le politiche di cooperazione», afferma Sandro De Luca, presidente di Link2007. Il contesto internazionale, condizionato dalle misure attuate dall’amministrazione americana nei primi mesi del 2025 con il disimpegno da diversi fondi multilaterali e la chiusura di Usaid, è mutato e c’è il rischio di un cambio di passo anche in Italia. Elias Gerovasi, curatore del progetto Open Cooperazione, spiega che «negli ultimi 12 mesi diversi Paesi donatori hanno ridotto in modo significativo i loro stanziamenti per la cooperazione internazionale e l’aiuto umanitario sull’onda di priorità politiche nazionali che spostano l’attenzione su sicurezza, difesa dei confini e gestione della migrazione a discapito dell’aiuto allo sviluppo». De Luca fa notare che dalla legge di Bilancio emerge «il sostanziale mantenimento del livello complessivo dei fondi per la cooperazione allo sviluppo, in controtendenza rispetto ai tagli adottati da molti donatori internazionali». E sottolinea che gli impegni negli ultimi anni sono aumentati in modo significativo con l’ampliamento dei paesi prioritari per la cooperazione italiana (da 18 a 31) e l’investimento strategico legato al Piano Mattei.
Lo ha detto l'eurodeputata di Fratelli d'Italia e vicepresidente del Parlamento europeo Antonella Sberna in occasione dell'evento «Mattei Plan for African and Global Gateway» sul Piano Mattei come motore di sviluppo per il futuro.
Lo ha detto il presidente della Fondazione Social Economic Development Aroldo Curzi Mattei, a margine dell'evento «Mattei Plan for Africa and Global Gateway», sul Piano Mattei e le sue finalità.
È l’inviato americano per l’Africa. E, in questa veste, è stato tra i principali negoziatori dello storico accordo tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda, raggiunto lo scorso giugno. Visto il crescente interesse della Casa Bianca per le questioni africane, Massad Boulos sta vedendo aumentare la propria influenza nell’attuale amministrazione americana. Consuocero di Donald Trump, è stato da lui nominato senior advisor a gennaio, mentre ad aprile ha ricevuto le deleghe per l’Africa dal Dipartimento di Stato. In questi mesi, ha effettuato vari viaggi: dalla Libia all’Egitto, passando per la Tunisia. La Verità ha avuto l’opportunità di intervistarlo in esclusiva, per capire quali sono le strategie che il presidente americano ha in mente per il continente africano.
Massad Boulos, lei è stato recentemente in Libia. Come vede la situazione politica del Paese?
«Guidati dai principi della politica estera “America First” del presidente Trump, ci concentriamo sull’approfondimento dei legami con le nazioni africane per sostenere la loro prosperità nel lungo termine. La mia visita a Tripoli e Bengasi si è concentrata sul progresso della cooperazione commerciale tra Stati Uniti e Libia, che promette di portare maggiore prosperità sia al popolo americano che a quello libico. In entrambe le mie tappe ho sentito costantemente il desiderio dei libici di una maggiore partnership con gli Stati Uniti. Siamo stati lieti di vedere che, il 4 agosto, la National oil corporation abbia firmato un protocollo d’intesa con ExxonMobil per facilitare l’esplorazione di ulteriori riserve di gas».
Prosegua pure.
«Il popolo libico gode di un Paese con enormi risorse naturali e vogliamo che ne tragga il massimo beneficio e che si impegni in partnership reciprocamente vantaggiose con gli Stati Uniti. Ciò che i libici mi dicono costantemente di volere sono le stesse cose che vogliamo noi: una Libia forte, sovrana e unita, in grado di gestire la propria sicurezza e di avere partnership produttive con il resto del mondo. La chiave per il raggiungimento di questi obiettivi sarà trovare modi pacifici per far progredire il processo politico della Libia e aumentare la cooperazione tra Est e Ovest con l’obiettivo di rafforzare l’unità del Paese».
Il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha puntato molto sul Piano Mattei. Come vede questa iniziativa in un’ottica di partnership tra Roma e Washington in Africa?
«Gli Stati Uniti e l’Italia condividono l’impegno a sprigionare l’immenso potenziale delle economie africane e a promuovere la crescita a lungo termine attraverso l’incremento del commercio e degli investimenti. Insieme, stiamo collaborando a iniziative come il Corridoio di Lobito, che creerà un futuro più prospero per americani, italiani e per i nostri partner africani. Accogliamo con favore l’approccio economico pragmatico del presidente del Consiglio Meloni all’impegno in Africa, inclusa l’enfasi dell’Italia nel trattare le nazioni africane come partner alla pari nella costruzione di opportunità condivise e prosperità reciproca».
Come contrasteranno gli Stati Uniti il terrorismo proveniente dall’Africa?
«Gli Stati Uniti sono risoluti nel loro impegno a combattere il terrorismo e a proteggere la loro sicurezza. In Somalia, siamo particolarmente concentrati sulla minaccia rappresentata dall’Isis somalo, inclusa la sua capacità di reclutamento a livello internazionale e di convogliare finanziamenti verso una rete più ampia. I recenti attacchi aerei di Africom contro gli agenti dell’Isis somalo sottolineano la nostra partnership con il governo della Somalia e il nostro impegno a eliminare le minacce terroristiche. Continueremo a collaborare strettamente con le forze somale e dell’Unione Africana nella lotta contro al-Shabaab e l’Isis».
Temete attacchi sul suolo statunitense?
«I confini porosi della Libia e il vuoto di governance sono terreno fertile affinché ne approfittino attori che cercano di minare gli interessi politici, economici e di sicurezza degli Stati Uniti. Durante la mia visita, ho incoraggiato i leader libici ad adottare misure pacifiche per aumentare l’integrazione delle forze di sicurezza libiche e aumentare la capacità del Paese di affrontare le proprie sfide alla sicurezza. Un apparato politico e di sicurezza unificato sarebbe in grado di proteggere i confini, espellere forze armate e mercenari stranieri e contrastare il terrorismo. Questo obiettivo è realizzabile con un impegno mirato da parte degli Stati Uniti, anche spingendo partner internazionali come l’Egitto a investire nella sicurezza del loro vicino. Limitare la diffusione di gruppi terroristici e attività illecite lungo i confini ridurrà al minimo la possibilità che queste minacce raggiungano i confini statunitensi».
Ritiene possibile un’estensione degli Accordi di Abramo ai Paesi africani?
«Sotto la guida del presidente Trump, nel settembre 2020, i leader di Bahrein, Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno firmato gli Accordi di Abramo. Pochi mesi dopo, a dicembre, Israele e Marocco hanno firmato un accordo di normalizzazione che ha ristabilito piene relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Anche il Sudan ha aderito agli Accordi di Abramo nel gennaio 2021. Gli Accordi di Abramo rappresentano un’importante opportunità per promuovere una maggiore stabilità e cooperazione nella regione. La loro estensione ad altri Paesi africani potrebbe contribuire a incoraggiare il tipo di dialogo necessario per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti e promuovere opportunità di business e commercio. Anche i Paesi che hanno legami diplomatici esistenti con Israele o che hanno dimostrato interesse per la costruzione della pace potrebbero diventare potenziali candidati all’inclusione. Naturalmente, il raggiungimento di tale estensione richiederà un coinvolgimento diplomatico costante e un impegno verso obiettivi condivisi».

