2024-11-24
I governi si uniscano per frenare le toghe Ue
Lussemburgo, la Corte di Giustizia Ue (Getty Images)
Anche le sentenze della Corte del Lussemburgo devono avere dei «contro-limiti», che vengono meno per la debolezza degli Stati. Ma il controllo dei confini è di competenza di questi ultimi, che non possono cedere la loro sovranità a organismi giurisdizionali.Di Nicolò Zanon, Vicepresidente emerito della Corte costituzionaleDeve essere ancora possibile, pur nell’infuriare delle polemiche, stabilire qualche punto fermo sulle tante questioni sollevate dall’immigrazione illegale di massa, e sui contrasti che, in materia, vedono politica e magistratura su fronti contrapposti. Il primo punto è che il controllo dei confini e la decisione sulle regole che consentono l’ingresso legale nel territorio nazionale sono attributi essenziali della sovranità dello Stato: e per quanto la nostra stessa Costituzione contempli limitazioni alla sovranità statale, conseguenti all’adesione dell’Italia a organizzazioni sovranazionali, vi è un limite oltre il quale quelle limitazioni non possono andare. Per usare un linguaggio evocativo, vi sono, cioè, «contro-limiti» alle limitazioni di sovranità: la politica non può essere privata del diritto di decidere. In questo delicatissimo ambito, insomma, la limitazione di sovranità non può equivalere alla sua eliminazione, o alla sua definitiva cessione a organi non politici ma giurisdizionali, interni o sovranazionali che siano. Fino a un tempo non lontano, la nostra Corte costituzionale chiariva che la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero sul territorio nazionale doveva essere collegata alla valutazione di svariati interessi pubblici quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione. E sottolineava come questa valutazione spettasse in via primaria al legislatore, cioè alla politica. Diceva la Corte che la politica possiede, in materia, un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultassero manifestamente irragionevoli. Ecco il secondo punto che va tenuto fermo: questa equilibrata giurisprudenza deve tuttora essere la stella polare di riferimento. Ma in questa temperie la domanda è: che fine fa, questa giurisprudenza, di fronte alle recenti prese di posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea? La questione si pone, come si sa, dopo la sentenza di quest’ultima Corte del 4 ottobre scorso. La scelta più dirompente compiuta dai giudici del Lussemburgo consiste nell’attribuzione ai giudici nazionali del potere di controllare - e di rovesciare! - le scelte della politica nazionale quanto alla designazione dei Paesi di provenienza degli immigrati illegali come Paesi cosiddetti «sicuri», cioè luoghi dove, in base al diritto dell’Unione europea, non vi siano generalmente e costantemente persecuzioni. Un potere che può essere esercitato a prescindere dalla circostanza che l’elenco dei Paesi sicuri sia contenuto in un decreto ministeriale oppure, come è stato di recente deciso, in un decreto-legge. Come pure si sa, questo conferimento di potere è stato festosamente accolto e immediatamente utilizzato da una parte della magistratura italiana, che non ha peraltro mai nascosto la sua ostilità culturale e ideologica alle politiche della maggioranza parlamentare in tema di immigrazione. Ora, la definizione del Paese di provenienza come sicuro ha conseguenze importanti, perché consente l’esame delle richieste di protezione internazionale secondo procedure accelerate, non praticabili nel caso opposto. Secondo la Corte di giustizia, questo potere di controllo dei giudici nazionali sulla lista dei Paesi sicuri discenderebbe dal loro dovere, previsto dalla direttiva europea, di svolgere verifiche istruttorie approfondite, relative a tutti gli aspetti di fatto e diritto alla base della procedura, compresa, appunto, la designazione come sicuro del Paese di provenienza. Dice la Corte di giustizia che questo potere di controllo non è che una conseguenza di quanto afferma l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: ogni persona ha diritto a un «ricorso effettivo» davanti a un giudice nazionale. E questo articolo 47 ha effetto diretto, prevale cioè su ogni norma eventualmente incompatibile di diritto interno, in base al principio del primato del diritto europeo su quello nazionale Qui vi sono molte cose da osservare. È indiscutibile che l’articolo 47 della Carta europea abbia effetto diretto, ma fino a quali conseguenze? Vero che la verifica istruttoria del giudice sulla situazione del migrante deve essere approfondita in fatto e in diritto. Ma siamo sicuri che il diritto a vedere il proprio ricorso esaminato approfonditamente comporti il potere del giudice di disapplicare alcune scelte di fondo che condizionano l’ammissibilità della richiesta di protezione? Si può fortemente dubitare che il giudice sia davvero nella migliore condizione per valutare se il Paese da cui il migrante proviene possa esser definito sicuro o meno. Sono più plausibilmente gli organi politico-diplomatici dello Stato a dover vagliare le informazioni e le fonti di conoscenza su questo aspetto, perché si tratta di elementi che richiedono una capacità di valutazione politica, non meramente giuridica. Se invece questa valutazione diventa per definizione compito del giudice, viene messa in discussione la stessa pensabilità di una politica dell’immigrazione illegale, perché ogni decisione sarebbe assunta sempre e solo caso per caso, appunto in sede giudiziaria.Alla fine, come si vede, il problema di fondo non sta tanto (o solo) nella pervicace volontà di parte della magistratura italiana di contrapporsi alle politiche della maggioranza parlamentare sul tema dell’immigrazione. Il vero problema sta nelle scelte della Corte di giustizia. Quest’ultima opera ormai scelte cruciali in perfetta solitudine, nel vuoto pneumatico lasciato da deboli istituzioni politiche. Le sue interpretazioni sul diritto dell’Unione, come si vede, hanno un peso decisivo, e talvolta vanno anche oltre quel che pare ragionevolmente accettabile.E allora ecco il terzo ed ultimo punto da tener fermo: è necessaria un’azione concertata dei governi europei che intendano responsabilmente governare il fenomeno migratorio, al fine essenziale di non lasciare ai soli giudici del Lussemburgo l’ultima parola sul destino delle Nazioni d’Europa.Nicolò Zanon
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)