Già vicepresidente della Corte costituzionale
L’Associazione nazionale magistrati ha costituito un proprio comitato e ha già iniziato la sua campagna referendaria per il No alla riforma della giustizia. Dobbiamo scandalizzarcene? In fondo, l’Anm è una libera associazione sindacale, e le spettano i diritti di partecipazione politica che valgono per qualunque altra associazione. Tutto bene e tutto normale, dunque? No, le cose sono un poco più complicate. Mettiamo in fila i problemi. È vero che l’associazione nazionale dei magistrati raggruppa dipendenti pubblici che godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Ma i magistrati non sono proprio cittadini qualunque: e, come ha stabilito varie volte la Corte costituzionale, alcuni limiti all’esercizio dei loro diritti, specie quelli di partecipazione politica, sono giustificati dai principi costituzionali che caratterizzano le loro delicate funzioni: in primis indipendenza e imparzialità, ricordando soprattutto, in riferimento a quest’ultima, quanto conti, per non offuscare la fiducia di cui deve godere la magistratura nella società, il valore della stessa apparenza d’imparzialità. Chiediamoci, allora: quale immagine di imparzialità avranno, alla fine, questi magistrati dopo l’attiva partecipazione a una durissima campagna referendaria?
Detto per inciso: foglia di fico davvero risibile è la proclamata esclusione dal comitato di chiunque sia «compromesso» con forze politiche. Come se questo lifting di facciata abbia significato, al cospetto del macroscopico dato politico costituito dalla stessa discesa del comitato in una campagna che sarà tra le più aspre e politicizzate della storia repubblicana…
Inoltre, dal modo in cui si atteggia e presenta le proprie iniziative, il comitato per il No dell’Anm finisce per sembrare una organizzazione che «rappresenta» la totalità della magistratura italiana. Una magistratura schierata compattamente contro una revisione costituzionale adottata dal potere legittimo, quello di revisione previsto all’art. 138 della nostra Costituzione. Tutto viene infatti presentato come se l’ordine giudiziario, oggetto delle proposte di modifica di una parte significativa della Costituzione, voglia farsi soggetto politico che ostacola e si oppone a quelle modifiche. Se è lecito spingere il paradosso agli estremi, è come se a fronte di una proposta di modifica che tenda a limitare il bicameralismo perfetto, il Senato o la Camera (non alcuni partiti, ma proprio gli organi costituzionali della rappresentanza politica!) costituissero un comitato per opporsi alla limitazione dei propri poteri…
Da tutto questo, come minimo, deriva all’osservatore una sensazione di disagio, la percezione che qualcosa di profondamente sbagliato è all’opera. Ci vorrebbero, ma ne ho finora sentiti davvero pochi, magistrati che facessero sentire una voce dissonante, non tanto sul «no» alla riforma, ma proprio su questa creazione di un comitato dell’Anm, che finisce per essere assimilato all’intero ordine giudiziario. Anche se mi rendo conto dell’ulteriore paradosso: magistrati che fanno della sacrosanta discrezione la cifra del proprio lavoro, come potrebbero sentirsi a proprio agio nel dover assumere pubblicamente posizioni di rottura con i propri colleghi? Oppure ci vorrebbe, in un mondo ideale e a stigma di questo ingresso dell’Anm in campagna referendaria, una presa di posizione del Csm: ma chi seriamente può pensare che ciò accada? Sappiamo bene, purtroppo, che la componente togata del Csm è, quasi del tutto (e in quel «quasi» si annida una timida speranza), la trasposizione dell’Anm in ambito istituzionale, e sappiamo anche che proprio questa è una delle ragioni che depongono a favore della riforma…
La sensazione di disagio si aggrava alla luce di alcuni eventi ai quali abbiamo assistito nelle ultime settimane: palazzi di giustizia di varie città utilizzati come vere e proprie sedi di iniziative dirette a presentare ai cittadini il comitato per il No e i suoi argomenti, con il coinvolgimento di compagnie variegate di celebrities (cantanti, attori, scrittori: e però, queste adunate elettorali di ricchi e famosi non portano quasi mai bene…). Il culmine di questi eventi è stato l’utilizzo dell’aula magna della Corte di cassazione: qui il valore simbolico dell’iniziativa è stato spinto all’estremo e la questione si fa seria assai.
I Palazzi di giustizia sono di tutti noi, non dell’Anm, e nemmeno dei soli magistrati. Sono il luogo in cui si amministra la giustizia, imparzialmente e per tutti. Per quanto le nostre società ostentino disprezzo per simbologie a torto considerate superate, non esistono luoghi di più alto e solenne valore, almeno nel campo della giustizia. E se la magistratura li utilizza per finalità di parte possono accadere due cose, di significato opposto, ma entrambe negative: da una parte, il messaggio divulgato da quelle sedi può acquistare, proprio perché da lì proviene, un indebito plusvalore di legittimità e verità, che in realtà inganna; ma, dall’altra, il messaggio finisce per coinvolgere nel gorgo della polemica e della parzialità gli stessi luoghi in cui si amministra la giustizia.
Il peggio arriva quando il comitato per il No pone la propria posizione sotto l’egida della «Costituzione sotto attacco». E vediamo così, come per la verità tante altre volte abbiamo dovuto vedere in passato, magistrati in toga solenne che manifestano ad onor di telecamera brandendo a guisa d’arma una copia della carta fondamentale. Il messaggio è potente, ma, al contrario di quel che essi pensano, davvero fuorviante: perché respinge chi la pensa diversamente ai margini del consesso civile, negando legittimità non solo alle loro posizioni, ma alla loro stessa esistenza. È come se si dicesse: in quanto «fuori» dalla Costituzione, siete indegni e le vostre opinioni non meritano ascolto.
Nessuno di noi conosce ovviamente l’esito del referendum. Io temo però che, per l’ordine giudiziario ostaggio di queste linee di comportamento dell’Anm, le cose finiranno male, qualunque esito ci sarà. Perché facendosi così palesemente soggetto politico di parte, la magistratura rischia di gettare alle ortiche quel che le resta della fiducia dei cittadini.
Vicepresidente emerito della Corte costituzionale
Madre «intenzionale» e famiglia «monoparentale». Sono questi due straordinari concetti «ossimorici», cioè internamente contraddittori, a emergere, non certo per la prima volta, da due sentenze depositate ieri dalla Corte costituzionale. Questa volta, tuttavia, essi si presentano con nettezza all’attenzione, chiamando in causa la Costituzione e le sensibilità diffuse nella nostra società.
La prima sentenza, tutto sommato attesa, stabilisce che il figlio nato in Italia da una donna (madre «biologica») che ha fatto ricorso all’estero alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) deve avere il vero e proprio stato di figlio anche della cosiddetta madre «intenzionale», cioè della donna che, in coppia con la prima, ha espresso il proprio consenso alle tecniche medesime e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale.
La sentenza, attenzione, non modifica la disciplina italiana di accesso alle tecniche di Pma e non incide sui divieti che la circondano (la donna single e le coppie omosessuali non possono accedervi). E, nonostante i tentativi (che non mancheranno) di interpretazione estensiva, nemmeno riconosce ufficialmente un «diritto alla genitorialità» delle coppie omosessuali, così come non tocca il tema della maternità surrogata (che riguarda le sole coppie omosessuali maschili). La sentenza riconosce piuttosto l’interesse del figlio, nato in Italia da una Pma praticata legalmente in uno Stato estero, a essere titolare di diritti da far valere nei confronti di entrambe le donne che abbiano deciso di ricorrere, appunto all’estero, a questa tecnica.
A «giustificare» questa soluzione, come sempre nella giurisprudenza su questi temi, è dunque il «miglior interesse del minore». Questi bambini ci sono, dice la Corte, e hanno diritto di avere entrambi i genitori. Ed entrambi questi genitori devono assumere tutti i doveri che la Costituzione ai genitori assegna: mantenerli, istruirli educarli eccetera (anche se, quando è stata scritta, la Costituzione presupponeva che genitori fossero un uomo e una donna…). Ora, la posizione dei bambini è un argomento forte e nessuno lo nega: ma è molto facile capire che, per questa via, sono le pretese degli adulti a trovare un sostanziale riconoscimento, e si tratta solo di capire quale sarà il prossimo solenne passo giurisprudenziale in quella direzione.
Al di là di ciò, e di ogni altro commento possibile su una sentenza così delicata, merita qualche parola il primo dei due concetti «ossimorici» cui si accennava all’inizio: la madre «intenzionale».
Osservo che si tratta di uno dei tanti concetti che le élite giudiziarie e intellettuali internazionali hanno da tempo imposto al linguaggio giuridico e sociale. Prevengo l’obiezione: so bene, ed è l’esperienza di tutti noi, che gli affetti umani non conoscono i confini del sangue. Da che mondo è mondo, si può voler bene a un non parente come se fosse un nostro genitore. Tuttavia, «essere come una madre» o «essere come un padre» è appunto un «come se», un regalo del cuore, che non cancella le differenze imposte dalla natura e dal senso di realtà. Il linguaggio utilizzato dalle sentenze quale quella ora in esame, invece, cancella del tutto queste differenze: si può essere vera e propria madre non sulla base della natura e della biologia, ma sulla base della mera «intenzione».
È ancora lecito, senza incorrere nelle abituali scomuniche della cultura liberal e woke, esprimere sommessi dubbi su tutto ciò? La tensione tra cultura e natura può essere spinta fino a queste conseguenze, coinvolgendo anche il diritto, che non può essere in contraddizione con la natura? Soprattutto, è mai possibile che questi profondi cambiamenti non solo della nostra vita sociale e di relazione, ma della nostra stessa consapevolezza antropologica, avvengano - in nome della Costituzione, che però aveva una ben diversa idea dei genitori e, come si dirà, della famiglia - sulla base di sentenze emesse da quelle élite giudiziarie interne e internazionali, cui la rappresentanza politica è condannata ad assistere da spettatrice? E come mai nessuno dice che, forse, sarebbe un best interest del minore anche avere informazioni sulla figura del padre, cioè del grande assente in tutto questo contesto?
La seconda sentenza, di tenore un poco diverso dalla prima, stabilisce che la scelta legislativa italiana di non permettere alla donna single di accedere alla Pma non è incostituzionale. Dice esplicitamente, e ciò è un bene, che questa scelta trova tuttora una giustificazione nel principio di precauzione a tutela dei futuri nati: è infatti nel loro interesse che la legge non consente un progetto genitoriale che escluda, almeno ab origine, la presenza di un padre (il padre! almeno, qui, questa figura compare sulla scena). Poi, però, si dice anche che non sussistono ostacoli costituzionali a che la legge eventualmente estenda l’accesso alla Pma anche a nuclei familiari «diversi» da quelli attualmente indicati, e in particolare alla «famiglia monoparentale».
Insomma: la Costituzione non lo impone, ma la legge potrà farlo, se vorrà. Bene, ma è proprio così? Già in un’altra recente occasione (sentenza 33 del 2025) la Corte costituzionale ha usato questo concetto di «famiglia monoparentale», riconoscendo anche al single la facoltà di accedere all’adozione internazionale, sulla base dell’assunto che tale single componga, appunto, una «famiglia monoparentale», in seno alla quale il minore troverà un’accoglienza stabile e armoniosa.
Anche qui, ben sappiamo che la vita e il cuore hanno le loro ragioni e che gli affetti non hanno targa. Ma la nostra Costituzione ha invece concetti precisi: una famiglia nasce da una coppia di persone che si uniscono in matrimonio (articolo 29) e generano figli. Non piace più questa idea? Si cambi la Costituzione! Ma l’idea di una famiglia monoparentale è proprio una contraddizione, almeno dal punto di vista della Costituzione, cui non si può far dire tutto ciò che piace alle nostre élite giudiziarie.
Dov’erano i campioni della libertà quando il woke massacrava il free speech nelle università?
L’Università di Harvard nelle scorse settimane ha respinto alcune richieste presentate alle più importanti università Usa dall’amministrazione guidata da Donald Trump. In sintesi, era stato chiesto all’ateneo di eliminare i programmi Diversity equity inclusion (Dei), di modificare i criteri di assunzione e di condurre investigazioni su programmi sospettati di promuovere l’antisemitismo, pena la sospensione dei fondi federali destinati alla ricerca. Il rifiuto opposto da Harvard ha ingenerato nuove tensioni, e nuove minacce di ritorsione per tutte le università che non si conformeranno alle direttive dell’esecutivo: non solo il congelamento dei fondi, ma altresì il blocco dell’ingresso di studenti internazionali e la cancellazione delle esenzioni fiscali.
La presa di posizione di Harvard ha trovato ampio sostegno. Pur dichiarandosi disponibili a una riforma «costruttiva», centinaia di atenei statunitensi hanno denunciato pubblicamente l’uso ricattatorio dei finanziamenti alla ricerca, suscitando l’apprezzamento di numerosi intellettuali, sia americani che internazionali, che vedono in questa opposizione un gesto coraggioso di resistenza contro un’ingerenza governativa giudicata indebita e incostituzionale. Come ha sottolineato il presidente di Harvard Alan Garber, «nessun governo - a prescindere dal colore politico - dovrebbe decidere cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere o assumere, e quali ambiti di studio e ricerca possono finanziare».
Sul piano ideale, simili dichiarazioni sono largamente condivisibili. La libertà di pensiero, ricerca e insegnamento è un fondamento delle democrazie liberali e, più in generale, del pensiero occidentale fin dall’Atene classica. Tuttavia, è lecito chiedersi dove fossero tutti i coraggiosi difensori della libertà accademica nei decenni in cui una cupa cultura woke ha trasformato i campus delle più prestigiose università americane nel regno del conformismo e dell’intolleranza.
Per valutare correttamente le politiche universitarie trumpiane, bisogna in effetti conoscere i fenomeni rispetto ai quali esse provano, con una certa brutalità, a reagire. E un buon esempio, per iniziare, è costituito dalla cd. Critical race theory (Crt), sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta come critica sistemica alle istituzioni. La Crt sostiene che il razzismo endemico nella società americana non sia solo frutto di pregiudizi individuali, ma un costrutto sociale interiorizzato nelle strutture politiche e giuridiche. Uno dei suoi fondatori afferma che la Crt deve mettere in discussione gli stessi fondamenti dell’ordinamento liberale, sottoponendo a critica la teoria dell’eguaglianza, il ragionamento giuridico, il razionalismo illuminista, financo i principi del costituzionalismo moderno-contemporaneo. È questa teoria ad aver offerto legittimazione intellettuale a woke culture e cancel culture, che mirano a trasformazioni radicali della società anche attraverso la rimozione di simboli, pratiche o contenuti accademici ritenuti «perturbanti».
Proprio Harvard è un luogo emblematico di tale deriva. Pur vantando una reputazione scientifica d’eccellenza, questa università si è posizionata per due anni consecutivi all’ultimo posto nel ranking sulla libertà di espressione elaborato dalla Foundation for individual rights and expression (Fire). Nel rapporto 2025, il clima di free speech nel campus viene definito «abysmal» (disastroso). «Non ho potuto esprimere la mia opinione sulle politiche di genere», ha dichiarato uno studente rimasto anonimo. «Fin dalle prime lezioni, il docente ha chiarito che ogni punto di vista tradizionale è da considerarsi intrinsecamente discriminatorio». Di fronte al sarcasmo con cui venivano descritte le posizioni pro life sull’aborto, un altro studente ha affermato: «ho imparato che ci si aspetta che io accetti gli insulti senza reagire, perché non oso contraddire chi deciderà poi i miei voti».
Non siamo di fronte ad episodi isolati: secondo il report citato, il 53% degli studenti si autocensura regolarmente, il 70% ritiene accettabile impedire a un oratore di parlare urlandogli contro in aula, e il 23% giustifica persino l’uso della forza fisica a tal fine.
Un esempio significativo risale al 2022, quando il dipartimento di lingua inglese di Harvard ha annullato un seminario sul Romanticismo britannico a causa dell’identità della relatrice, Devin Buckley, femminista e fondatrice del Women’s liberation front (Wolf), nota per le sue critiche al radicalismo transgender. «Non posso chiedere fondi per qualcuno che sostiene certe posizioni», ha dichiarato la direttrice del dipartimento, «invitarla significherebbe creare un ambiente ostile per le persone trans». La replica della Buckley è stata altrettanto netta: «Non ho mai scritto nulla di offensivo verso le persone trans. Le mie opinioni sul femminismo non hanno nulla a che vedere con il Romanticismo. Ma è difficile capire se chi cancella femministe come me non voglia o non sia in grado di comprendere le critiche all’ideologia gender. Il sospetto è che molti non credano davvero che un uomo possa diventare donna, ma tacciano per salvare la propria carriera».
Non si tratta di un’eccezione. Nel settembre 2022, Dorian Abbot, professore di geofisica all’Università di Chicago, è stato invitato dal Massachusetts institute of technology (Mit) a tenere la prestigiosa conferenza annuale «John Carlson». Tuttavia, dopo la diffusione di un suo articolo su Newsweek, in cui criticava i programmi Dei (Diversity, equity, inclusion) e proponeva una politica basata su merito, equità e uguaglianza (Mfe), l’invito è stato revocato a seguito di forti pressioni da parte di studenti e docenti. «L’obiettivo era zittirmi e scoraggiare chiunque condivida idee simili», ha dichiarato Abbot, «essere esclusi dalla scienza per le proprie opinioni è inaccettabile». Il Mit ha motivato la cancellazione con l’impossibilità di «organizzare un evento efficace» in un clima così polarizzato. Dopo l’incidente, Abbot ha visto crollare collaborazioni scientifiche e progetti di finanziamento. Ma ha anche ricevuto ampio sostegno: il professor Robert George lo ha invitato a tenere la stessa conferenza a Princeton, seguita da oltre 3.000 persone. «Oggi puoi dire ciò che pensi solo se hai un incarico stabile nel posto giusto», ha commentato Abbot. «Chi non ce l’ha, viene messo a tacere».
Contenuti di insegnamento considerati «divisivi» diventano addirittura causa di licenziamento. È quanto avvenuto a Erika Lopez Prater, professoressa d’arte alla Hamline University del Minnesota, rimossa dall’insegnamento per aver mostrato in aula una immagine di Maometto tratta da un codice persiano risalente al XIV secolo. Conformemente a quanto stabilito dai regolamenti dell’università, e consapevole dei problemi connessi alla sensibilità religiosa degli alunni musulmani, la professoressa aveva correttamente indicato nel syllabus del corso la necessità di mostrare immagini di figure sacre, tra cui appunto quella del profeta Maometto o del Buddha, per ragioni strettamente artistiche. Inoltre, prima di proiettare in aula l’immagine, l’insegnante aveva ulteriormente messo in guardia gli studenti, spiegando loro l’importanza dell’opera, ma invitando altresì coloro che avrebbero potuto sentirsi a disagio a lasciare l’aula. Nonostante tali precauzioni, uno studente musulmano rimasto in classe ha denunciato l’accaduto alle autorità universitarie. Queste hanno conseguentemente deciso di non rinnovare il contratto all’insegnante perché, come dichiarato dal presidente dell’università, «è importante che i nostri studenti musulmani, così come tutti gli altri, si sentano sicuri, supportati e rispettati dentro e fuori le nostre aule».
Ma la lista è lunga. Secondo Fire, sono oltre un migliaio i casi documentati di censure o discriminazioni verso studenti e docenti con opinioni dissenzienti. Sophia Nelson, docente alla Christopher Newport University, in Virginia, è stata travolta da una campagna social dopo aver criticato sull’allora Twitter la scelta della DC Comics di rendere bisessuale il figlio di Superman: «Non capisco perché sia necessario. E se i genitori cristiani non volessero che i loro figli leggessero storie con personaggi bisessuali?». Il tweet è stato denunciato come omofobo, con proteste, petizioni (oltre 500 firme) e il rifiuto dell’università di organizzare un confronto pubblico richiesto dalla professoressa «per salvaguardare la sua incolumità», e l’ulteriore rifiuto del giornale del college di pubblicare la sua lettera di spiegazioni, giudicata «troppo lunga ed articolata». «È giusto che un’opinione personale, espressa in un tweet, venga usata per creare un ambiente ostile sul lavoro?», si è chiesta Nelson.
Un certo radicalismo woke, del resto, è stato denunciato anche da atei razionalisti del calibro di Richard Dawkins. Insieme ai professori Jerry Coyne e Steven Pinker, Dawkins si è dimesso dalla Freedom from religion foundation (Ffrf), accusando l’organizzazione di aver censurato un articolo scientifico intitolato Biology is not Bigotry. Secondo i tre accademici, una certa modalità di difendere i diritti transgender si è trasformata in «un’ideologia con dogmi, blasfemia ed eretici degni di una quasi-religione».
Elisa Parrett, 38 anni, docente di inglese in ruolo al Lake Washington institute of technology, aveva sollevato preoccupazioni sulla direzione presa dall’università in tema di diversità e inclusione. In particolare, aveva criticato la scelta di organizzare un training antirazzista suddividendo i partecipanti in caucus distinti tra bianchi e non bianchi. Durante l’incontro «Courageous conversations», il 19 giugno 2021, Parrett ha così letto un breve intervento critico prendendo posizione contro la retorica «antirazzista» e l’intolleranza verso opinioni dissenzienti: «Non accetto dicotomie false tra oppressi e oppressori, tra bianchi e neri, tra progressisti e reazionari. Parole come «razzista» o «privilegiato» sono troppo spesso usate per zittire chi la pensa diversamente».
Il suo tono era stato deciso, ma era rimasto del tutto civile. Eppure, la sua dichiarazione ha causato reazioni sconcertanti tra i presenti. Alcuni colleghi hanno definito l’intervento «scioccante» o «traumatizzante». Cinque giorni dopo, Parrett ha ricevuto una e-mail dalla vice-preside Suzanne Ames con accuse gravi: il suo comportamento avrebbe provocato danni sostanziali a centinaia di colleghi e studenti.
È così iniziata un’indagine interna costosa e sproporzionata, con assunzione di investigatori esterni, oltre 100 pagine di testimonianze e molte migliaia di dollari spesi intorno a un discorso di appena quattro minuti. Parrett è stata sospesa, le è stato negato l’accesso ai sistemi universitari e il suo nome è stato pubblicamente denunciato in una ulteriore e-mail inviata dalla presidente di LWTech a tutto l’istituto.
Parrett, nel frattempo, è diventata un simbolo delle tensioni politiche nei campus americani. Inizialmente ignorata, la sua vicenda ha attirato l’attenzione di organizzazioni per la libertà accademica come Fire. La sua vicenda è emblematica del fatto che il dissenso può essere interpretato come «danno», anche quando resta nei confini del dibattito civile. Nei contesti accademici dominati dalla radical left, insomma, opinioni moderate o semplicemente eterodosse sono state sempre più spesso etichettate come offensive o dannose. Ne è derivata la tendenza a estendere il concetto di «danno psicologico» anche a idee pienamente legittime, con il rischio, tutt’altro che remoto, di confondere il dissenso con l’aggressione. Il filo conduttore è l’uso sempre più diffuso di accuse morali - come «trauma», «violenza simbolica», «microaggressione» o «perturbazione psicologica» - per silenziare posizioni scomode, anche quando espresse in modo civile e argomentato.
Nelle scienze sociali più esposte all’influenza ideologica, si assiste a un ulteriore fenomeno: la selezione e pubblicazione di ricerche non per il loro merito metodologico o contributo scientifico, ma per la loro aderenza a determinate tesi precostituite. Due studiosi, James Lindsay e Peter Boghossian, ne forniscono esempi scioccanti attraverso il loro progetto denominato Grievance studies. Preoccupati per la crescente egemonia di una visione ideologica all’interno del mondo accademico - in particolare per l’applicazione sempre più dogmatica della nozione di «discriminazione sistemica» - Lindsay, Boghossian, insieme a Helen Pluckrose, hanno deciso di mettere alla prova il sistema. Come spiegano in uno studio del 2018, la loro ipotesi di partenza era che molte riviste accademiche accettassero tesi infondate, purché allineate a una narrativa ideologica dominante, fondata sull’idea che elementi centrali dell’esperienza sociale - come l’etnia, il genere o il sesso - siano esclusivamente costruzioni sociali.
Tra il 2017 e il 2019, i tre autori hanno così redatto e inviato a riviste (i cui contenuti sono revisionati da studiosi che restano non conosciuti agli autori) una serie di articoli volutamente assurdi, metodologicamente scorretti o persino parodici. I risultati sono stati sorprendenti: sette articoli sono stati accettati e pubblicati. Tra questi, uno studio che ipotizzava una connessione tra i comportamenti dei cani nei parchi pubblici di Portland e la «cultura dello stupro» dei loro padroni; un articolo che denunciava le palestre e la cultura del fitness come ambienti oppressivi nei confronti delle persone obese; infine, un saggio che riprendeva per due terzi contenuti tratti dal Mein Kampf di Adolf Hitler.
L’intento era evidente: dimostrare come in alcuni settori delle scienze sociali la spinta ideologica abbia sconfitto il vaglio critico, fino al punto in cui non si è più capaci di distinguere tra rigore scientifico e propaganda. Una provocazione intellettuale, certo, ma efficace nel rivelare una vulnerabilità profonda del sistema accademico contemporaneo.
Questa breve rassegna, che potrebbe continuare a lungo, dovrebbe almeno aiutarci a comprendere le scelte dell’amministrazione di Trump in materia accademica. Si badi bene: a «comprendere», non già a «giustificare». Gli executive orders che intimano alle università di rinunciare a certi contenuti di insegnamento, sotto minaccia di tagli ai finanziamenti federali, sono inaccettabili e probabilmente incostituzionali, e non dubitiamo che la Corte Suprema, se interessata, lo affermerà a chiare lettere. Pensiamo inoltre che ai danni inflitti in questi decenni alla libertà accademica, al libero scambio delle idee e delle diverse opinioni, si debba rimediare non già sostituendo queste forme di censura con divieti di segno opposto. Siamo, cioè, convinti che il rimedio non consista mai nel limitare le idee: nel freemarket place of ideas, più idee circolano meglio è. Anche di fronte a ideologie ottuse o pericolose, rispondere con minacce e censure non solo rappresenta un errore sul piano costituzionale, ma si rivela spesso inefficace e, paradossalmente, controproducente per chi, legittimamente, si batte contro quelle stesse ideologie. Ma, proprio per questo insieme di ragioni, non crediamo alla sincerità di chi, solo ora, scopre improvvisamente che nelle università americane la freedom of speech è sotto attacco.
* Ordinario di Diritto
costituzionale all’Università
degli Studi di Milano,
ex vicepresidente della Consulta
** Ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università
degli Studi di Milano





