2020-02-07
Giuseppi fa lo gnorri sul pasticcio del ministro candidato alle elezioni
Andrea Pirri/NurPhoto via Getty Images
Il premier in Senato sceglie di non affrontare il conflitto d'interessi di Roberto Gualtieri. Anche se il capo del Mef corre alle suppletive mentre decide 400 nomine. I 900.000 euro alla Casa delle donne, nel suo collegio, sono un caso.Nell'Aula del Senato, l'Azzeccagarbugli con pochette risponde leggendo in modo irridente norme che tutti già conoscono, e fa finta di non capire il punto politico sollevato dall'opposizione. Question time di ieri a Palazzo Madama. Ignazio La Russa illustra l'interrogazione predisposta insieme al suo collega Adolfo Urso (Fdi) sulla candidatura di Roberto Gualtieri, ministro dell'Economia, alle elezioni suppletive per la Camera nel collegio di Roma centro. Gli interroganti pongono due questioni: per un verso, il fatto che il ministro sia largamente presente in tv (opportunità di tutta evidenza non concessa ai suoi avversari nel collegio), e per altro verso il tema di fondo della candidabilità di un ministro in carica. La Russa ammette che le norme vigenti non evocano questo caso specifico, ma fa notare che la circostanza di un ministro candidato a una suppletiva è una novità assoluta, a maggior ragione mentre sta ponendo mano a 400 nomine pesantissime. Per queste ragioni, l'esponente di Fdi chiede o le dimissioni di Gualtieri o almeno che il presidente del Consiglio assuma l'interim dell'Economia nel periodo della campagna elettorale. E Giuseppe Conte come risponde? Dapprima con un'ovvietà, ricordando che le elezioni suppletive a Roma centro sono state rese necessarie dalla nomina a Bruxelles di Paolo Gentiloni, deputato del collegio. E poi infliggendo agli interroganti una pedissequa lettura dell'art. 7 del Dpr 361 del 1957, quello che elenca le ipotesi di ineleggibilità a deputato (le elenca «tassativamente», precisa subito l'avvocato Conte). I casi sono ben noti: consigliere regionale, presidente di giunta provinciale, sindaco di Comune sopra i 20.000 abitanti, capo o vicecapo della polizia, ispettore generale di pubblica sicurezza, capo di gabinetto di un ministro, rappresentante del governo presso le regioni o le province autonome.Letto l'elenco, Conte sogghigna e conclude: «Appare evidente che non è contemplata in queste ipotesi la carica di ministro». E ancora: «Peraltro, in passato, ministri e presidenti del Consiglio si sono sempre presentati alle elezioni» (ma Conte finge di non sapere che stavolta sono elezioni suppletive, ndr). Finale avvocatesco: «Sulla base di una giurisprudenza costante, le norme che prevedono cause ostative non sono suscettibili di interpretazione estensiva o analogica».L'ultimo minuto dell'intervento del presidente del Consiglio è dedicato a rispondere (cioè a non rispondere) anche all'altro punto dell'interrogazione, quello relativo alla par condicio. Anche qui notazioni burocratiche: «La par condicio è garantita dalla legge 28 del 2000, che affida all'Agcom e ai Corecom regionali il compito di assicurare il rispetto dei principi di pluralismo, obiettività e correttezza dell'informazione. In questo caso, il monitoraggio è svolto dal Corecom del Lazio. In merito alla programmazione televisiva, sarà cura dell'Agcom, nella sua costante e doverosa attività di verifica, valutare il corretto bilanciamento dei tempi, distinguendo tra la posizione di ministro e quella di candidato». Sferzante la replica di La Russa. Prima bordata: «Quando le risposte sono già predisposte, c'è il rischio di non ascoltare. So bene che i ministri possono candidarsi a fine legislatura, quando svolgono solo una funzione di ordinaria amministrazione. Ma qui è una suppletiva». E poi la risposta più efficace: «Lei ha elencato una serie di figure che hanno meno potere di un ministro. Sa a chi è vietato di candidarsi? Al capo di gabinetto di Gualtieri. Il suo capo di gabinetto non si può candidare. Lui invece sì, e può fare 400 nomine… E siccome formalmente ciò è possibile, lei non sente l'opportunità di sostituirlo o di farlo dimettere. Ecco perché noi siamo pienamente insoddisfatti». Intanto, mentre questo accadeva al Senato, proprio un episodio in corso a Montecitorio mostrava plasticamente il rischio concreto di conflitto d'interessi tra la posizione di ministro e quella di candidato nel primo collegio di Roma. Un emendamento al Milleproroghe (firmato dai relatori Vittoria Baldino, del M5s, e Fabio Melilli, del Pd) aveva infatti proposto di assegnare 900.000 euro nel 2020 per finanziare la Casa delle donne di Roma (che sta in quel collegio, peraltro), presieduta da Maura Cossutta, figlia di Armando, e a sua volta già deputata prima di Rifondazione comunista e poi dei Comunisti italiani. Si tratta di «un ulteriore contributo», si legge nel testo della proposta, che ha l'obiettivo di consentire «la prosecuzione delle attività» dell'associazione, con coperture in arrivo dal fondo per le esigenze indifferibili del Tesoro.Con decisione coraggiosa, le presidenze delle Commissioni riunite Bilancio (il leghista Claudio Borghi) e Affari costituzionali (il grillino Giuseppe Brescia) hanno dichiarato l'emendamento inammissibile. Esultanza di Giorgia Meloni, per tutto il giorno ricoperta di insulti sui social network da sinistra e femministe. Reazione isterica della maggioranza: preannuncio di ricorso del Pd, e incredibilmente sulle barricate pure i renziani. «La dichiarazione di inammissibilità dell'emendamento sulla Casa delle donne è una decisione grave», ha detto Marco Di Maio, capogruppo di Italia viva in Commissione. «Contraddice tante dichiarazioni sulla necessità delle politiche di genere che però al momento di passare all'atto pratico vengono tradite». Come se fosse necessario spendere quasi 1 milione di euro dei contribuenti: dettaglio sui cui il renziano sorvola. Al di là dell'ipotesi di riammissione, la Cossutta ha comunque auspicato che l'emendamento caduto venga riformulato sotto forma di subemendamento. Su entrambi i fronti, la caccia al denaro dei contribuenti è proseguita anche ieri notte, e continuerà oggi.