2025-02-17
Giuliana Cordero Cabrini: «Pannella mi disse: ti candido solo se divorzi da tuo marito»
Parla la storica attivista, che lasciò il Partito radicale nel 1978: «Era simile a una setta, Marco agiva da demiurgo. E io, cattolica, mi ritrovavo poco nelle posizioni sull’aborto».Giuliana, qual è il suo cognome? Cordero o Cabrini?«Cordero. Il secondo appartiene al mio ex marito, l’insegnante e sindacalista Ferdinando Cabrini, ma durante l’intero periodo della mia azione come attivista nonviolenta ho utilizzato il cognome Cabrini ed è con questo che tuttora sono più nota». Come arrivò alla militanza politica?«Nel 1965 mi sono laureata e ho cominciato a insegnare Latino e Greco a Torino, la città in cui sono nata nel 1942. In seguito, dopo un periodo in maternità per la nascita, nel 1969, del mio unico figlio, Michele, sono stata chiamata al liceo “Carlo Alberto” di Novara, dove sono rimasta per un anno e mezzo. Subito, però, sono entrata in urto con il preside, che era un conservatore nel senso peggiore della parola mentre io ero piena di idee e di progetti per gli studenti. Con i miei alunni riuscii a stabilire un rapporto fecondo, basato sul dialogo, al punto di dare alle stampe, nel 1972, un libro dal titolo Alla mia prof con rabbia, in cui avevo raccolto parte della corrispondenza scambiata con i ragazzi della mia classe (che ovviamente comparivano in forma anonima)». Libro che non passò inosservato.«Dal momento che vi si toccava anche il tema della sessualità giovanile, destò un certo scandalo, non solo localmente, pure a livello nazionale. Io inoltre mi rifiutai di firmare il verbale degli scrutini di fine anno perché il preside voleva bocciare una ragazza e io ero contraria. Arrivammo ai ferri corti e così, l’anno scolastico successivo, lui mi sottopose a tre ispezioni ministeriali e, peggio ancora, mi fece incriminare per interessi privati in atti di ufficio (a causa dell’uscita del libro), per omissioni di atti d’ufficio (per non aver firmato il verbale) e per turpiloquio, in quanto gli studenti avevano usato nelle loro lettere un linguaggio informale, affine al parlato. Sono stata assolta in primo grado, mentre in appello venni prosciolta non con la formula piena ma per mancanza di prove certe. Ecco, l’idea di abbracciare la politica è nata in me dopo questi fatti».Non ha mai abbandonato l’insegnamento, però.«No, ho continuato a insegnare fino alla pensione, prima a Pinerolo e poi al liceo “Massimo d’Azeglio” di Torino. Tuttavia l’esperienza di Novara, assieme a ciò che accadde a Pordenone, presso il cui liceo classico ero stata trasferita, mi fece riflettere su una cosa: se a me, che avevo un padre magistrato e provenivo da una famiglia bene di Torino, la giustizia stava facendo vivere una situazione da incubo come quella, chissà cosa può passare chi finisce nelle sue maglie non avendo alle spalle nessun tipo di “protezione”. Perciò, con il mio ex marito Ferdinando Cabrini, che come ho già detto era un sindacalista, precisamente della Cisl, decisi di contattare il Partito radicale».Cosa successe a Pordenone? «Il preside non voleva farmi mettere piede nella scuola e allora io organizzai delle lezioni in strada. Il direttore de L’Espresso, Livio Zanetti, che già aveva seguito le mie vicissitudini, mandò un giornalista e un fotografo per documentare la mia protesta, tanto più che in quegli stessi giorni erano in corso degli scioperi da parte dei dipendenti dell’azienda Zanussi, e così la vicenda ebbe una grande eco in tutta Italia».Torniamo al Partito radicale.«Dapprima partecipai alle riunioni del Movimento Antimilitarista Italiano. Alle riunioni e pure alle manifestazioni, prendendomi la mia razione di manganellate. Quindi aderii al Partito radicale, di cui nel frattempo mio marito era divenuto il segretario regionale piemontese. In questo modo mi sono avvicinata alla causa omosessuale - specialmente grazie ad Angelo Pezzana, che era sia un militante radicale sia il promotore del “Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano”, meglio noto come Fuori! - e soprattutto fondai la “Lega nonviolenta per i diritti dei detenuti”. Cominciai così a recarmi regolarmente nelle case circondariali e a incontrare i carcerati, stabilendo con alcuni di loro dei bei rapporti umani. Per difenderne le ragioni mi sottoponevo anche a degli scioperi della fame».Di che durata?«Digiuni di tre o quattro giorni, ma l’acqua la bevevo. Però mi sono rovinata la salute. Verso i sessant’anni ho cominciato a soffrire di fibrillazioni cardiache e il medico mi ha detto che a causarle, probabilmente, sono stati proprio quei digiuni giovanili».Questi incontri le hanno mai procurato dei problemi?«Qualche volta è successo, ma più che di problemi parlerei di situazioni delicate. Ad Augusta un detenuto con cui mi scrivevo sequestrò un agente carcerario minacciandolo con un coltello. Io raggiunsi la Sicilia a bordo di un elicottero della polizia e lo convinsi a consegnarmi l’arma. Poco dopo fu sequestrato un altro agente a San Gimignano e in quel caso mi spaventai davvero, perché il detenuto non mi consentì di entrare nel locale in cui si trovava assieme al poliziotto e mi puntò contro una pistola».Quando lasciò il Partito radicale?«Se ricordo bene era il 1978. A parte che, essendo sempre stata fondamentalmente cattolica, mi ritrovavo poco nelle posizioni del partito sull’aborto, mio marito litigò aspramente con Pezzana e soprattutto con Marco Pannella, e questo creò le premesse per il mio abbandono. Pannella mi sottopose infatti a una sorta di ricatto: mi avrebbe fatto candidare alla Camera se avessi divorziato da Ferdinando. Io mi guardai bene dall’accettare». Capitò soltanto a lei una cosa del genere?«Lo escludo. Era il modus operandi di Pannella, che rendeva il Partito radicale qualcosa di non così diverso da una setta. Lui, il demiurgo, voleva entrare nelle vite dei militanti e decidere anche del loro privato sulla base delle sue personali simpatie o antipatie».Nel libro L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, firmato dalla giornalista Simona Zecchi, le si attribuisce un ruolo nell’avere messo in contatto Pasolini con il terrorista nero Giovanni Ventura, il quale, mentre era detenuto nel carcere di Bari, intrattenne con lo scrittore, a partire da marzo del 1975 e fino a ottobre dello stesso anno, un rapporto epistolare.«È falso. Ventura poté iniziare a scrivere missive a Pasolini grazie all’intermediazione di un editore, Antonio Pellicani. Io Pasolini non l’ho mai conosciuto. Dal momento che lo stimavo, una volta gli mandai una lettera, ma non mi rispose e dunque con lui non ho mai avuto alcun rapporto». Esiste una missiva, a lei inviata il 10 ottobre del 1975, in cui Pellicani le scrive: «Giovanni è stato ovviamente informato dello spirito e dei possibili sviluppi dell’iniziativa, ma ormai mi pare che il rapporto non abbia più bisogno di mediatori». Il riferimento è al rapporto con Pasolini?«No, il riferimento è al Consiglio d’Europa, presso il quale io, come segretaria della “Lega nonviolenta per i diritti dei detenuti” e richiamandomi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, perorai, per mezzo di un ricorso, la causa di Ventura. Ma ormai, appunto, il rapporto fra Ventura e il Consiglio poteva prescindere da me».Perché, secondo lei, Ventura volle contattare Pasolini e dibattere con lui degli stessi temi di cui l’intellettuale si occupava in quel periodo sul Corriere della Sera e altrove?«Ventura cercava in ogni modo di far interessare al suo caso quante più personalità possibile, allo scopo di essere scarcerato. Mica provò a coinvolgere soltanto Pasolini: scrisse, sempre supportato da Pellicani, anche a diversi giornalisti e perfino a qualche politico. Ed è tramite Pellicani, del resto, che arrivò anche a me».Da una comunicazione scritta di Ventura al Nucleo Antiterrorismo di Bari, che gliel’aveva richiesta per chiarimenti, si evince che lei, in data 2 novembre 1975, inviò al terrorista un telegramma in cui si accennava alla morte di Pasolini, avvenuta proprio in quel giorno. Nella comunicazione suddetta, Ventura scrive a un certo punto: «La coincidenza della straziante fine di Pasolini non poteva essere avvertita, né dalla cara amica che inviò il telegramma né da me, come “la morte di quel culattone là”, ma come una diretta lesione, una diminuzione personale». «Mandai quel telegramma a Ventura perché il 2 novembre era il giorno del suo compleanno. Dopodiché, in ragione della concomitanza con l’assassinio di Pasolini, che mi aveva profondamente scosso, devo avere fatto cenno al delitto nel telegramma (che io sinceramente neppure ricordavo di avere inviato), tanto più che sapevo dei rapporti epistolari tra Pasolini e Ventura. Quanto alla frase oltraggiosa, è semplicemente assurdo pensare, come qualcuno ha fatto, che io, sostenitrice del Fuori! e da sempre refrattaria alle scurrilità, possa avere usato un’espressione del genere nei confronti del poeta ucciso. La spiegazione più probabile è che la frase fosse stata pronunciata da qualcuno del Nucleo Antiterrorismo durante un colloquio con Ventura e che lui, nel fornire i chiarimenti riguardo al telegramma, l’abbia ripresa proprio per contestarla, come effettivamente fa».Oggi segue la politica?«Sì, certo, ma credo che l’invadenza della magistratura, cominciata nel 1992 con Mani pulite e mai più interrottasi, abbia fatto sì che in Italia lo spirito autentico del fare politica si sia perso. In politica il confronto, anche aspro, deve essere dialettico, non giudiziario. Io non posso certo definirmi una “meloniana”, ma mi sembra che il recente caso legato all’espulsione da parte del governo del criminale libico Almasri rappresenti l’ultima conferma, in ordine di tempo, di quanto ho appena denunciato».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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