2024-08-01
Quei giudizi di Falcone sul «grande accusatore»
Giuseppe Pignatone (Imagoeconomica)
Domanda delle cento pistole: ai vertici di alcuni dei più importanti uffici giudiziari del Paese abbiamo avuto un magistrato che, invece di perseguire i mafiosi, insabbiava le indagini che li riguardavano? Il quesito è più che legittimo, in quanto ieri mattina Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria e in seguito di quella di Roma, per trent’anni procuratore a Palermo e oggi presidente del tribunale del Vaticano, è stato ascoltato dai pm di Caltanissetta con l’accusa di aver occultato informazioni sui rapporti tra la mafia e il sistema degli appalti, inchiesta su cui Paolo Borsellino iniziò a lavorare nel 1992, dopo la morte di Giovanni Falcone.So che quando si parla di inchieste che riguardano le associazioni a delinquere e in particolare le cosche e i suoi referenti, occorre andare con i piedi di piombo, perché un avviso di garanzia in Sicilia non si nega a nessuno, nemmeno a quelli che indagano sui criminali. Il generale Mario Mori, ex capo del Reparto operativo dei carabinieri e in seguito direttore del Sisde, ossia dei servizi segreti, per anni è stato appeso alle accuse della Procura di Palermo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia. Non è la prima volta che inquirenti e giudicanti sono al centro delle indagini. Tuttavia, a finire nel mirino dei magistrati nisseni è un pezzo grosso, forse il più grosso che si sia mai visto in un’inchiesta per mafia, anche se adesso Pignatone è in pensione. Per capirlo è sufficiente dare un’occhiata al suo curriculum, che lo vede tra i pm antimafia sul finire degli anni Settanta fino ai primi anni Duemila.È al fianco di Gian Carlo Caselli quando questi, dopo la morte di Giovanni Falcone, venne nominato capo della Procura di Palermo ed è lui a indagare il presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, che poi sarà condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento di Cosa nostra. Ma la sua notorietà e il suo peso politico (sì, anche i pm hanno un peso politico: qualche volta più rilevante di quello dei veri politici) aumentano quando Pignatone lascia la Sicilia, destinazione Reggio Calabria, dove qualche criminale distratto dimentica un bazooka proprio davanti agli uffici del nuovo procuratore capo.Una intimidazione cui seguono alcune importanti inchieste e, all’inizio del 2012, la nomina alla guida dell’ufficio giudiziario più importante d’Italia. Dalla Procura di Roma passano le inchieste più scottanti, quelle che sfiorano la politica (ricordate il padre di Matteo Renzi?) e la pubblica amministrazione (famosa quella denominata Mafia capitale che poi, secondo la Cassazione, con la mafia non c’entrava nulla) ed è occupando quella poltrona che poi, nel 2019, Pignatone è andato in pensione.Fine di una carriera in prima fila? Neanche per sogno. E infatti rieccolo presidente del tribunale della Città del Vaticano, impegnato in un difficile procedimento, quello che vedeva sotto accusa il cardinale Giovanni Angelo Becciu e che poi porterà alla condanna dell’alto prelato a cinque anni e sei mesi di carcere, con una sfilza di reati che fanno tremare i polsi.Però ora il grande accusatore è finito accusato. L’uomo che negli ultimi vent’anni ha rappresentato più di altri suoi colleghi la lotta alla criminalità organizzata, è indagato per aver coperto i traffici della mafia e, con lui, sono nel mirino pure un ex pm di Palermo e un generale della Guardia di finanza. E se non fosse morto, l’avviso di garanzia sarebbe stato recapitato anche all’ex procuratore capo del capoluogo siciliano, Pietro Giammanco. Certo, tutti sono uguali davanti alla legge e, dunque, anche un magistrato, per di più uno dei più importanti d’Italia, può finire sul banco degli accusati. Ma Pignatone non è un pubblico ministero qualsiasi: si può pensare che abbia insabbiato le indagini su Cosa nostra e gli appalti, ma in tal caso forse bisogna riscrivere la storia di vent’anni di mafia, passando al setaccio il comportamento di un certo numero di intoccabili.Rispolverando anche i giudizi riportati dalla sorella di Giovanni Falcone e contenuti nel diario dello stesso magistrato assassinato dalla mafia a Capaci. Secondo Maria Falcone, il fratello se n’era andato da Palermo perché Giammanco, cioè il capo di cui Pignatone era uno dei principali collaboratori, non lo faceva lavorare. E con lo stesso futuro numero uno di Roma ebbe più di una scintilla. A lungo tutto ciò è stato ignorato e ora, dopo anni di incenso e una carriera fulminante, si torna a indagare, riesumando vicende che risalgono ai primi anni Novanta.