2021-11-03
Giorgetti e il pizzino a Salvini per portare la Lega nel Ppe e fare Draghi iperpresidente
Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Il ministro sollecita il leader ad avere più coraggio centrista. La replica: «Mi occupo di pensioni e tasse». Il premier sul Colle con maggiori funzioni allarma dem e M5s.«Lui è un campione di incassi nei film western, io gli ho proposto di essere un attore non protagonista di un film drammatico candidato agli Oscar». Giancarlo Giorgetti passeggia dentro i generi cinematografici come un Vincenzo Mollìca di Varese per spiegare a Matteo Salvini la necessità di portare a termine la svolta europeista della Lega. E aggiunge: «È difficile mettere nello stesso film Bud Spencer e Meryl Streep, non so che cosa abbia deciso. Questa scelta non è ancora avvenuta perché, secondo me, non ha ancora interpretato la parte fino in fondo». Traduzione per scrivàni e lettori: è un'incompiuta, bisogna accelerare.La singolare metafora è contenuta nell'ultimo libro di Bruno Vespa - Perché Mussolini rovinò l'Italia (e perché Draghi la sta risanando), Mondadori Rai Libri - che a forza di anticipazioni sta uscendo una pagina alla volta. Premesso che anche i fratelli Lumière hanno avuto diversità di vedute, Giorgetti sollecita il leader ad avere più coraggio. «Se vuole istituzionalizzarsi in modo definitivo, Salvini deve fare una scelta precisa. Capisco la gratitudine verso Marine Le Pen, che dieci anni fa lo accolse nel suo gruppo. Ma l'alleanza con Afd non ha ragione di esistere». Lo snodo chiave è il saloon del Ppe, dove il ministro vuole portare la Lega anche grazie ai buoni uffici di Silvio Berlusconi, ma il numero uno è riluttante a entrare. L'ingresso fra i popolari costituirebbe per la Lega la legittimazione centrista che Giorgetti auspica. «È un'ipotesi che regge se la Cdu non si sposta a sinistra. Io non ho bisogno di un nuovo posto. Io voglio portare la Lega in un altro posto». Di fatto è il suo no al varo di un gruppo allargato a destra dove far confluire Identità e democrazia, che confermerebbe la permanenza del partito dentro l'area sovranista, con Le Pen e soprattutto gli impresentabili di Alternative für Deutschland.Una posizione sbagliata secondo il ministro dello Sviluppo economico, che mentre sollecita Salvini a Bruxelles lo tranquillizza sulla linea politica a Roma. «Non ci sono due linee. Al massimo sensibilità diverse. Amando le metafore calcistiche, direi che in una squadra c'è chi è chiamato a fare gol e chi è chiamato a difendere. Noi continueremo a lavorare così finché il treno del governo viaggia veloce, altrimenti rischiamo noi di finire su un binario morto. Il problema non è Giorgetti, che una sua credibilità internazionale se l'era creata da tempo. Il problema è se Salvini vuole sposare una nuova linea o starne fuori». Da Pistoia, a margine dell'incontro con il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, il numero uno leghista risponde così: «Io mi sto occupando di salvare le pensioni e tagliare le tasse. Del resto mi occupo dopo. Stiamo lavorando per un grande gruppo che metta insieme il centrodestra in Europa. Non è nessun vecchio gruppo».Il periodo è complicato, la dialettica pubblica delle due anime del partito sorprende e infastidisce gli elettori. I motivi sono quelli che caratterizzano la stagione draghiana: l'alleanza con Forza Italia ha zone di penombra dovute alle spinte verso sinistra dell'ala socialdemocratica e Giorgia Meloni all'opposizione erode consensi. Così la pressione sale e il dibattito sulle strategie della Lega si tiene «en plein air»; una scelta che rappresenta una novità per un partito granitico, verticista, dove fratture e incomprensioni si ricomponevano in via Bellerio o comunque lontano dal traffico mediatico. Secondo Giorgetti, un buon motivo per non preoccuparsi degli exploit nei sondaggi di Fratelli d'Italia è di nuovo il cinema: «I western stanno passando di moda. Secondo me sono finiti con Balla coi lupi. Adesso in America sono molto rivalutati gli indiani nativi». Piena sintonia invece sul destino di Mario Draghi, che sia Salvini sia Giorgetti vorrebbero al Quirinale. Conversando con Vespa nel libro, il ministro argomenta così: «Già nell'autunno del 2020 le dissi che la soluzione sarebbe stata confermare Sergio Mattarella ancora un anno. Se questo non è possibile va bene Draghi. Potrebbe guidare il convoglio anche dal Colle, sarebbe un semipresidenzialismo de facto, in cui il capo dello Stato allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole». E alla sottolineatura che lo aveva già fatto Giorgio Napolitano, lui conferma: «L'ha fatto dinanzi a un mondo politico spaesato. Draghi baderebbe all'economia».Quest'ultimo scenario ha suscitato reazioni gastriche allarmate nel campo largo della sinistra. Il pentastellato Mario Perantoni: «O è una battuta o è eversione». Carlo Calenda, che in un western potrebbe suonare il piano con la bombetta in testa: «I sistemi istituzionali non cambiano a seconda di chi ricopre una carica. Draghi deve continuare a guidare il paese». Il piddino Andrea Marcucci: «Mi sembra surreale che un ministro dia un'interpretazione tutta sua della Costituzione». Il solito B-movie. A loro andava benissimo il semipresidenzialismo di Napolitano, mai detta una sillaba contro. Il motivo è semplice, in linea con le tradizioni della casa: era occulto.
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