2021-02-26
Giorgetti e Farmindustria puntano sull’autarchia. «Polo italiano per i sieri»
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Vertice al Mise con le ditte e l’Aifa. Il ministro: «Garantiremo i fondi». Candidati gli stabilimenti di Lazio, Toscana e Veneto. Ma per partire servono da 4 a 6 mesiL’Italia sale sul treno dei vaccini. La decisione è presa, invece di attendere passivamente le dosi in arrivo con il contagocce (leit motiv della stagione Giuseppe Conte-Domenico Arcuri), il governo ha messo in moto la macchina per produrre in casa il siero anti Covid. Ieri al ministero dello Sviluppo economico, il titolare Giancarlo Giorgetti ha guidato una riunione operativa con il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi e il numero uno dell’Aifa, Giorgio Palù. C’era anche il commissario Arcuri, si spera come soprammobile per non azzerare immediatamente l’accelerazione.Nell’incontro si è discusso della possibilità di realizzare i vaccini antivirus nei siti italiani ritenuti idonei. Il summit ha offerto spunti positivi e, come conferma il ministro Giorgetti, «il governo ha ribadito la massima disponibilità sia in termini di strumenti normativi che di mezzi finanziari all’industria farmaceutica italiana per predisporre ogni tipo di strumento al fine di produrre un vaccino contro il Covid. Naturalmente non è una cosa semplice questo processo di riconversione. Abbiamo chiesto a tutti il massimo impegno e la massima serietà e determinazione per cercare di risolvere il problema». La prossima riunione è fissata per mercoledì tre marzo e il passo decisivo, sarà individuare le componenti produttive compatibili e dare una tempistica congrua.Fin dalle consultazioni con i partiti, Draghi aveva trasmesso l’idea di produrre vaccini in Italia. Dal primo giorno il premier ha creduto nella possibilità di far scendere in campo l’industria farmaceutica nazionale che - pur ridotta a spezzatino dopo la svendita seguita al sogno di Raul Gardini trasformatosi in incubo giudiziario - è ricca di eccellenze scientifiche e tecnologiche, know how strategico per aziende americane e tedesche all’avanguardia mondiale. Partendo da questo assunto, Draghi ha coinvolto le istituzioni europee perché inseriscano l’Italia nella produzione su licenza. Un’idea accolta positivamente da Thierry Breton, capo della task force Ue per aumentare le capacità di produzioni vaccinali nella seconda fase, quella estiva. Poi il premier ha chiamato Angela Merkel per sollecitare un asse italotedesco; Roma e Berlino sono al top della produzione farmaceutica continentale, un comparto da trenta miliardi di euro.Al grido di «facciamolo in casa», il progetto sta prendendo forma nel segno di quella sovranità vaccinale che non dispiace a una parte dell’esecutivo, soprattutto a Matteo Salvini. Anche Farmindustria è convinta della bontà della strategia e il presidente Scaccabarozzi - chiamato in causa per spiegare come si produce un vaccino e quali sono i siti più all’avanguardia - non ne fa mistero: «Stiamo facendo una ricognizione tra le aziende associate per vedere chi ha le macchine adatte per partecipare eventualmente alla produzione. In Italia ci sono molti stabilimenti in grado di compiere un’impresa del genere».I siti da trincea immediata sono in Veneto, a Siena (quello della Glaxosmithkline) e ad Anagni (Frosinone). Nella città che ha dato i natali a quattro papi, lo stabilimento della multinazionale Sanofi già opera per l’Europa e l’azienda biotech Catalent ha la responsabilità dell’infialamento di 400 milioni di dosi del vaccino inglese Astrazeneca. Ha anche ottenuto una commessa simile per il siero Johnson & Johnson. Sono pronti anche la fondazione Toscana Life Sciences e lo Stabilimento chimico Farmaceutico militare (Scfm) di Firenze, ma sono decine le eccellenze italiane pronte a collaborare per la riuscita del programma.Fin da ora il problema principale è il tempo. Sia perché allestire una catena produttiva comprensiva di bioreattori non è come costruire un modellino di aeroplano, sia perché la riconversione prevede importanti finanziamenti. «La produzione di un vaccino non è come realizzare altri farmaci», spiega Scaccabarozzi. «È un prodotto vivo, non di sintesi, va trattato in maniera particolare. Il vaccino deve avere una bioreazione dentro una macchina che si chiama bioreattore. Non si schiaccia un bottone ed esce la fiala, da quando si inizia la produzione passano 4-6 mesi». Ma non è pessimista perché sa che le aziende citate sono già pronte: «Le farmaceutiche che non fanno vaccini avrebbero bisogno di tempo, ma ce ne sono altre già specializzate che stanno valutando l’adattabilità dei loro impianti».Proprio sul timing si innesca la prima polemica. A suscitarla è Piero Di Lorenzo, patron di Irbm, la società di Pomezia partner di Astrazeneca. Per lui il vaccino prodotto in Italia è un sogno che rischia di rimanere tale: «Non so se ci sono aziende che hanno tutto ciò che serve. Quando Astrazeneca ha detto: si faccia avanti chi può produrre in grandi quantitativi, nessuno in Italia si è fatto avanti. Non bisogna farsi illusioni su tempi da soluzione lampo». Il Pharma italiano si rimette in moto, e questo è un bene perché non c’è niente di peggio della passività stile Roberto Speranza. L’operazione sarà completa quando sarà stato validato Reithera, il vaccino nazionale in via di sviluppo nel quale ha da poco investito 81 milioni pure Invitalia. Anche Di Lorenzo (molto vicino a Matteo Renzi e Beppe Grillo) aveva sperato nell’ingresso in Irbm di un partner pubblico, ma né Cassa depositi e prestiti, né la Banca europea di investimenti, né l’Istituto superiore di Sanità hanno accettato. Certe rinunce destano amarezza.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)