2020-01-23
Giggino arginava la deriva a sinistra. Ora i grillini si travestiranno da Pd
Il passo di lato del capo politico, da sempre scettico sull'alleanza giallorossa, lascia il campo libero alle correnti progressiste e alla normalizzazione filo Ue voluta da Beppe Grillo. E intanto Dibba scalpita.Va bene che «i peggiori nemici sono all'interno», come ammette Luigi Di Maio mentre compie il famoso passo indietro al Tempio di Adriano, ma non scherzano neppure quelle menti sadiche che gli stavano allestendo il patibolo agli Stati generali tra il 13 e il 15 marzo, per le Idi di marzo. E invece l'ex capo politico del Movimento non aspetterà un mese per vestire i panni di Cesare, con sul groppone l'ennesima, probabile sconfitta locale alle regionali di domenica. Ma sarà il capo di una nuova corrente non dichiarata, un «correntone» per nulla disposto ad appiattirsi sul Pd. Una milizia ancora forte di un rapporto solido con Beppe Grillo, pronta a giocarsi la partita anche contro Davide Casaleggio, «reo» di aver in sostanza scaricato Di Maio, e disposta a tutto per arginare anche la variabile Alessandro Di Battista, il leader riluttante che molto parlò ma mai si mise alla prova dei voti. «Il mio rapporto con Beppe è ottimo, è sempre stato ottimo e sempre lo sarà. Tutto il resto è malignità», ripete nelle ultime ore Di Maio a chi gli chiede come vada veramente con il comico genovese, padrino dell'accordo di governo giallorosso insieme a Romano Prodi, a sua volta speranzoso di ottenere il Quirinale con i voti grillini. Se si parla con i senatori più vicini a Grillo, si ottengono conferme a raffica e un'interpretazione anche controcorrente sulla piaga di quei 31 deputati che hanno mollato M5s da inizio legislatura: Grillo non li mette in conto a Luigino, ma anzi, li reputa dei traditori; il che confermerebbe la buona e onesta guardia del ministro degli Esteri contro maneggi e maneggioni. E però un dato oggettivo, politico, resta innegabile: la linea che il ritorno di Grillo ha imposto al Movimento è europeista e molto «di sistema» e il passo indietro (o di lato, secondo i gusti) di Di Maio porta con sé il rischio di un ulteriore scivolamento di M5s a sinistra. Fare il Pd ma un po' meglio dei piddini, con meno favori alle banche e ai concessionari come Atlantia. È questo il pericolo che si apre nei prossimi mesi. Perché si sa che a Di Maio questo governo proprio non andava giù. Ma la mossa di ieri dell'ex candidato premier costringe in parte a uscire allo scoperto anche uno che non lo farebbe mai nella vita come Davide Casaleggio. Il figlio di Gianroberto da un lato non può fingere di non avere avuto un ruolo nella scelta di Di Maio, dall'altro deve difendere la sua creatura Rousseau dalla volontà delle truppe in Parlamento di avere un partito vero, e non più in outsourcing alla Casaleggio & Associati. Se i risultati di domenica in Emilia Romagna e in Calabria saranno deludenti, anche Casaleggio sarà in qualche modo chiamato a risponderne e il giochino di dare tutta la colpa al giovane statista di Pomigliano d'Arco non sarà più tanto sostenibile. Anche l'organizzazione locale presentata ieri da Di Maio, con i cosiddetti «facilitatori» regionali eletti a mezzo Rousseau, in realtà è l'opposto di quello che sembra. Ovvero, non è figlia del metodo Casaleggio, che qui ha messo a disposizione solo l'infrastruttura di voto, ma della volontà di Grillo e Di Maio di dare un'ossatura più solida al Movimento, dopo aver preso schiaffi in tutte le elezioni locali degli ultimi due anni. E del resto sarebbe davvero ingeneroso addossare tutta la colpa delle crepe del palazzo non agli architetti, ma all'amministratore di condominio Di Maio. A riprova di una situazione comunque non troppo compromessa per il giovane ex leader c'è il fatto che, senza bisogno di forzare in alcun modo lo statuto, da qui agli Stati generali la macchina sarà tra le mani di un reggente suo fedelissimo come Vito Crimi, a sua volta di assoluta fiducia anche di Beppe Grillo. Mentre lo sbarco a Roma di Chiara Appendino, sindaco di Torino scelta personalmente da Casaleggio padre, potrebbe essere meno certo della vigilia. Il problema è che a sette anni di distanza dall'exploit delle politiche del 2013, M5s stenta ancora a formare una classe dirigente credibile, e in compenso sono spuntate le correnti. Quella di Di Maio guarda più a destra; quella di Roberto Fico, Nicola Morra e di vari ministri, come Adriano Bonafede guarda a sinistra; quella di Alessandro Di Battista, sulla carta il più barricadero di tutti e attualmente in tournée in Iran, in realtà guarda più che altro a Di Battista medesimo. Il vero terremoto, e su questo è stato chiaro anche Di Maio con i vertici del Movimento, sarebbe un voto sulla piattaforma Rousseau dal quale uscisse il nome di Dibba come nuovo leader. Sarebbe una campana a morto per il governo di Giuseppe Conte e sarebbe probabilmente anche in grado di scatenare una robusta scissione interna, con esiti assolutamente imprevedibili. Forse è anche per questo motivo che, dopo il colpo di genio linguistico dei «facilitatori» (segretari generali suonava antico) ci si dovrà preparare, nelle prossime settimane, a sentir parlare di comitati, colonnelli e reggenti vari.
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