
Il rischio idrogeologico venne ignorato platealmente per decenni, finché arrivò la strage dell'esondazione del torrente Bisagno. Anche il cavalcavia dell'A10 faceva paura a tutti. Però, ancora una volta, prima di ottenere rimedi «Zena» ha perso vite umane.Chiunque sia di Genova, passando su quel ponte che scavalcava con un balzo mirabolante il Polcevera, aveva come l'istinto di premere sull'acceleratore. Senza un motivo preciso, senza neppure pensare ai problemi di struttura e manutenzione che oggi riempiono le pagine dei giornali, era soprattutto una reazione inconscia. Qualcosa che entrava gelido, appena sopra la bocca dello stomaco. Che ti spingeva a fare presto, che metteva in guardia. Come quando ti trovi, con il fiato in affanno, sul bordo di un precipizio e devi fare un passo indietro. Aveva più a che fare con il mondo delle sensazioni che non con quello della ragione. Saranno forse stati i tremori delle ruote sui longheroni tra una campata e l'altra, simili a brividi. Vibrazioni sinistre che salivano fino al volante e, attraverso le braccia, andavano a pungolare quell'angolo di cervello dove si nasconde la paura. Una paura atavica, quella che ci fa temere il fuoco, le frane, i fulmini, il mare in tempesta e, guardando la pioggia che cade sui tetti d'ardesia grigia, l'acqua e il fango che scendono dai monti travolgendo case e vite. Qui a Zena si convive con la minaccia dell'alluvione, si sono dovuti abituare alla spada di Damocle i genovesi. Si scava, si allargano gli alvei, si ripuliscono le rive intasate da palazzi della speculazione edilizia e rifiuti. Eppure ogni volta che si aprono le cateratte del cielo, quegli innocui torrenti che si chiamano Bisagno, Leira, Fereggiano, Chiaravagna si trasformano in onde di melma che trascinano a mare tutto quello che incontrano. Sembra una condanna per questa città, quella dei disastri annunciati. Una città con un corpo fragile, stretta tra montagne troppo alte e un mare troppo profondo. Con l'acqua che corre giù dai monti che schiacciano Genova contro il suo mare scuro, quello che anche di notte non si ferma mai. Con le strade che non c'è abbastanza spazio per costruirle.Ci si passava in continuazione su quel ponte ed ogni volta era la stessa storia. Ci passavamo in tanti perché prima di essere un'autostrada, quel tratto è la tangenziale dei pendolari che collega il centro della città ai popolosi quartieri di Ponente: Cornigliano delle acciaierie Ilva ormai spente, Sestri dei cantieri navali decimati dalla disoccupazione, Pegli con il simulacro sbiadito delle sue spiagge un tempo affollate di bagnanti e delle sue ville. Su quel ponte che porta a Ponente però quasi mai si riusciva ad accelerare, nonostante l'istinto: c'era sempre qualche cantiere, una strettoia, operai che bucavano l'asfalto al ritmo del martello pneumatico. Una soletta da rifare, le barriere da sostituire, il calcestruzzo da consolidare.Si restava fermi in coda e sul viso degli altri automobilisti, che spiavi attraverso il finestrino, leggevi la stessa tua espressione. Non era la semplice noia per il tempo perso incolonnati, non il mugugno che qui è quasi un vezzo. Era la stessa tua impazienza di togliersi da quello stato di sospensione e di instabilità, che nessuna rassicurazione ingegneristica può cancellare. Era piuttosto una sorta di senso di colpa, quasi si attendesse una punizione per aver osato sfidare la forza di gravità. Che qualcosa su quel ponte, salutato come miracolo della tecnica dal boom economico, non funzionasse lo sentivamo noi genovesi. Magari non lo sapevamo, eppure una pulsione lo suggeriva. Perché quando spiavi nelle altre auto, o negli occhi del passeggero che ti sedeva accanto, nessuno sorrideva. E adesso che vediamo scorrere in televisione le immagini dei due miseri tronconi del prodigio sospeso, di quel vuoto in mezzo che ha inghiottito le auto spensierate del Ferragosto, la sensazione si è trasformata in certezza. Una certezza amara e non urlata, come è uso da queste parti. Bisognava vederle ieri le facce un po' così della gente di Genova, che come dice Paolo Conte sarà anche un po' selvatica, ma quei visi erano soprattutto terrei. Gli occhi persi sulle macerie che invadono l'alveo del Polcevera, sulle carcasse delle auto contorte con i loro segreti, sulle fabbriche diroccate di Campi che fortunatamente erano chiuse per le vacanze, su un salvagente rosa che spuntava tra i detriti. Non c'entrava nulla con quello scenario apocalittico, per questo impressionava. Tutti si chiedevano di chi fosse e che fine avesse fatto il proprietario. Ma nessuno ne parlava.Qui la gente parla poco anche quando va tutto bene. Ma davanti al dinosauro morente del ponte, sono svanite anche le ultime parole. Quelle poche che restavano. Inghiottite dai pensieri, affondate nella disperazione di mezza estate. Neppure i mugugni si sentivano, che da queste parti sono una sorta di sport nazionale. Si potrebbe fare polemica, e forse sarebbe anche giusto. Perché di fatalità non si può proprio parlare. Nella progettazione, nella diagnostica, nella manutenzione qualcosa, qualcosa di grave, è mancato. Sono stati lanciati tanti allarmi in passato, anche da professori d'ingegneria, sul fatto che quella struttura era da rifare. Che era inutile continuare con gli infiniti lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza.Si potrebbe ricordare che dal giorno della sua inaugurazione, nel 1967, sono cominciati i problemi. Sono stati aggiunti tiranti, sostituiti pezzi interi, costi elevatissimi che evidentemente non hanno mai risolto il peccato originale. Quel tremore sinistro, che saliva come un brivido lungo la schiena, non è mai sparito. Si potrebbero attaccare i tecnici della società Autostrade, i passati ministri dei Trasporti, i loro gabinetti, i sindaci che non hanno mai dato peso alle paure dei genovesi. Ci si potrebbe unire al ministro Matteo Salvini che vuole i nomi dei responsabili. Tutto vero, tutto giusto ma alla fine sono soltanto particolari rispetto al silenzio irreale che regnava ieri a Genova. Si sentiva una sola parola tra la gente sgomenta, che poco prima di mezzogiorno aveva dimenticato il richiamo delle spiagge, della tintarella, dei tormentoni e delle avventure estive. Una parola che non è una parolaccia e che qui a Genova vuol dire tutto: belin. Ieri suonava come un grido di dolore.
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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