2019-10-08
Genitori di Renzi condannati per false fatturazioni. Ma i processi non sono finiti
Hanno inventato prestazioni per 195.200 euro: pena di 1 anno e 9 mesi ciascuno. Restano indagati anche per bancarotta e, nel caso del babbo, traffico di influenze.Il leader del Carroccio Matteo Salvini: «Mia madre e mio padre sono incensurati e si dedicano ai nipotini». In difesa dell'ex segretario dem parla soltanto Ettore Rosato: «Aspettiamo la sentenza definitiva».Lo speciale contiene due articoli Nei giorni scorsi Matteo Renzi aveva messo le mani avanti: «Abituiamoci ad aspettare le sentenze della Cassazione». Forse lo stuolo di avvocati che da mesi seguono le numerose inchieste che coinvolgono i suoi genitori gli aveva preconizzato che il primo processo che sarebbe arrivato a sentenza, quello per l'emissione di due presunte false fatture da 195.200 euro, non avrebbe avuto l'esito sperato. E ieri, lunedì 7 ottobre, l'infausto vaticinio si è trasformato in realtà. Aruspice il giudice monocratico Fabio Gugliotta, che poco prima delle 16.30 di ieri, dopo circa 100 minuti di camera di consiglio ha annunciato la condanna: 1 anno e 9 mesi a testa di reclusione per Tiziano Renzi e Laura Bovoli, oltre al pagamento delle spese processuali, a cui ha aggiunto come pene accessorie l'interdizione per un anno dai pubblici uffici e per sei mesi dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, il divieto per un anno di trattare con le pubbliche amministrazioni, oltre all'interdizione (perpetua) dall'ufficio di componente di commissione tributaria e (di un anno) dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria. Il loro coimputato Luigi Dagostino, ex titolare della Tramor Srl che pagò le fatture, è stato invece condannato, oltre che alle pene accessorie, a due anni per utilizzo a fini fiscali delle false fatture e per truffa a danni della stessa Tramor, che su sua indicazione, dopo essere passata al gruppo Kering, pagò le parcelle ai Renzi. L'imprenditore dovrà risarcire i danni subiti dalla parte civile (lo stesso gruppo Kering) che il giudice ha liquidato in 190.000 euro oltre agli interessi legali e alle spese processuali (3.100 euro). Entro 90 giorni verranno redatte le motivazioni della sentenza, che in forma di estratto dovrà essere pubblicata sul sito del ministero della Giustizia per quindici giorni. Ai due genitori il giudice ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena. Ma, purtroppo per loro, sono in corso molti altri processi ed eventuali condanne anche in questi potranno poi cumularsi tra di loro, ponendo a rischio l'ombrello della condizionale. I due genitori infatti sono indagati a Firenze per il concorso nella bancarotta di tre cooperative (Marmodiv, Delivery Italia service ed Europe service) e false fatturazioni, la mamma è già alla sbarra a Cuneo con la stessa accusa per il crac della Direkta srl; a questi procedimenti bisogna aggiungere i due fascicoli per traffico di influenze illecite che coinvolgono Tiziano a Firenze e a Roma, dove il 14 ottobre ci sarà un'udienza in cui il babbo rischia l'imputazione coatta per i suoi rapporti scivolosi con l'imprenditore Alfredo Romeo, imputato nella cosiddetta inchiesta Consip. Va detto che la prima tappa di questa via crucis giudiziaria poteva essere più dolorosa per la coppia, infatti la pm Christine von Borries non ha voluto accanirsi e ha chiesto la pena base (il reato di false fatturazione può essere punito con pene che vanno da 1 anno e sei mesi a 6 anni di reclusione) con l'aggiunta di tre mesi per la continuazione (fattispecie che può portare anche alla triplicazione della pena). Una richiesta che il giudice ha accolto alla lettera. Alla fine i due genitori sono stati condannati perché dopo un approfondito processo è risultato chiaro che le due fatture erano state pagate per prestazioni effettivamente inesistenti. La prima, emessa dalla Party Srl e datata 15 giugno 2015, dell'importo di 24.400 euro, Iva compresa, non era in effetti supportata da nessuna lettera di incarico o progetto e l'oggetto era un generico studio di fattibilità «per un'area destinata al food». La fattura 202 della Eventi 6, datata 30 giugno 2015, era invece supportata da tre paginette di uno studio per «una struttura ricettiva e food con i relativi incoming asiatici e la logistica da e per i vari trasporti pubblici (Ferrovie-aeroporti ecc.)» e da cinque planimetrie che durante le indagini sono risultate essere state realizzate da uno studio di architettura di Milano (su incarico di Dagostino) e successivamente leggermente modificate dalla Eventi 6. Evidentemente il «progettino», come è stato definito dallo stesso imprenditore pugliese in un'intercettazione ambientale, non è stato considerato dal giudice neanche una piccola prestazione sovrafatturata o pagata in modo non congruo. Lo stesso Dagostino, durante le spontanee dichiarazioni di luglio, ammise: «Dico la verità, quando ho ricevuto le fatture sono rimasto abbastanza perplesso per l'importo. Però loro in quel momento erano i genitori del presidente del Consiglio… non ho ritenuto di contestare le fatture perché ho subito un po' la sudditanza psicologica». Da ieri la pm von Borries, giallista per hobby, può appuntarsi una medaglia al petto: quella di aver portato a casa la prima condanna in un processo penale contro Tiziano Renzi e Laura Bovoli. In gergo sportivo il suo si definirebbe un percorso netto: infatti il giudice ha accolto quasi alla lettera le sue richieste, arrivate al termine di una requisitoria lunga più di un'ora e condotta con tono pacato, ma fermo. Certo l'impresa della von Borries non è stata semplice, visto lo spiegamento di legali degli imputati, nomi di prestigio come quelli di Alessandro Traversi, uno dei principi del foro e miniera di dotte citazioni, del sempre arguto ed efficace Federico Bagattini, del pugnace ed eloquente Lorenzo Pellegrini e di due tributaristi di vaglia come i professori Marco Miccinesi e Francesco Pistolesi. Una specie di dream team che purtroppo per i Renzi non è riuscito a evitare l'inevitabile. Troppo farlocche le fatture che l'imprenditore Luigi Dagostino aveva pagato e fatto pagare tra il 17 giugno e il 21 luglio 2015 alla Party Srl e alla Eventi 6. L'ultimo romanzo pubblicato dalla pm trionfatrice si intitola A noi donne basta uno sguardo, ma di certo un po' di intuito l'abbiamo avuto anche noi, che quando la vicenda non interessava a nessuno (ieri l'aula, invece, brulicava di cronisti e telecamere) raccontammo gli albori dell'inchiesta e l'iscrizione sul registro degli indagati dei due genitori. Nel gennaio di quest'anno aggiungemmo un tassello e collegammo il pagamento da 24.400 euro all'incontro ottenuto da Dagostino, grazie ai buoni uffici di babbo Tiziano, al cospetto di Luca Lotti a Palazzo Chigi per un magistrato pugliese, Antonio Savasta, poi arrestato per corruzione in atti giudiziari. Un'intuizione felice, visto che qualche settimana dopo la Procura di Firenze ha aperto un fascicolo ai danni di Dagostino e Renzi senior per traffico di influenze illecite e ieri la pm von Borries ha ricordato nella sua requisitoria quella visita nel palazzo del governo, quasi a indicare il vero oggetto del pagamento: l'attività di lobbista del babbo dell'ex premier. L'avvocato Traversi, difensore di Dagostino, ha sottolineato «l'assoluta inconferenza di questi riferimenti (Palazzo Chigi, Lotti, Savasta) che saranno oggetto di eventuali altri procedimenti», ma che in quello per false fatturazioni sono destinati «a creare confusione e niente più». Nessuno degli argomenti degli avvocati, però, deve aver fatto breccia nel cuore del giudice. Anche se il collegio difensivo dei Renzi ieri ha visto il bicchiere mezzo pieno e ha sottolineato con un comunicato come la sentenza dimostri che «non c'è mai stata alcuna evasione»: «Il giudice concede la sospensione condizionale e irroga una pena mite solo se l'imputato ha provveduto a risarcire i danni erariali (…) risarcimento che in questo caso non è avvenuto proprio perché mancava ogni profilo di danno tributario». I difensori hanno annunciato che ricorreranno in appello. Per loro i prossimi mesi saranno pieni di lavoro. Giacomo Amadori<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/genitori-di-renzi-condannati-per-false-fatturazioni-ma-i-processi-non-sono-finiti-2640876702.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="salvini-punge-felice-che-i-miei-siano-dei-tranquilli-pensionati" data-post-id="2640876702" data-published-at="1757845668" data-use-pagination="False"> Salvini punge: «Felice che i miei siano dei tranquilli pensionati» Un'ondata di garantismo ha avvolto la politica, un sentimento di muto rispetto ha accolto la notizia della condanna dei genitori di Matteo Renzi. Il fair play è il nuovo stile dominante, è come se tutti avessero abbandonato il clima da stadio per indossare grisaglia e pochette alla Giuseppi. Il governo che vuole mandare in carcere gli evasori partecipa in silenzio al dolore di uno dei suoi azionisti di riferimento. Non una parola si alza dalla maggioranza a commentare i guai giudiziari della famiglia Renzi, in un imbarazzo collettivo, nel terrore che il minimo alito di vento possa scuoterne i fragili equilibri. Soltanto Ettore Rosato, uno dei democratici trasferitosi a Italia viva, tra i più stretti collaboratori dell'ex premier, azzarda una difesa: «Massimo rispetto per la giustizia, come sempre. Rispettiamo i giudici e aspettiamo le sentenze definitive, quelle della Cassazione», dice il vicepresidente della Camera. Secondo il quale, dunque, si dovrebbe parlare dello scandalo solamente fra qualche annetto. Sulle reti sociali è tutto l'opposto. Da Twitter a Facebook è partito il tam tam di chi si chiede che cosa sarebbe successo se una condanna avesse per caso colpito i genitori di qualche altro politico di primo piano. La domanda è legittima, anche se priva di una risposta inconfutabile. In qualche modo se ne fa interprete Matteo Salvini. Il leader leghista ieri era a Narni, nel cuore dell'Umbria, per l'ennesimo tour pre elettorale. I giornalisti lo circondano sotto il palco del comizio, l'interrogativo è d'obbligo. Salvini la tocca piano: «Non commento le condanne altrui, sono contento che i miei genitori siano pensionati tranquilli, si dedichino ai nipoti e siano incensurati». Pacifici, isolati, incensurati. L'allusione è indiretta ma chiara. Fosse toccato a lui, sarebbe scoppiato il finimondo. Ma Salvini preferisce non infierire con Renzi: «Non faccio battaglia politica sulle condanne dei parenti», aggiunge. Pochi minuti prima, quando le agenzie di stampa avevano cominciato a diffondere la notizia della condanna di Firenze, l'ex ministro dell'Interno si era limitato a rilanciare su Twitter lo scarno flash di poche parole senza aggiungere alcun commento. Anche sulla sponda leghista, dunque, sembra prevalere un clima completamente diverso da quando le colpe di altri genitori venivano fatte ricadere pesantemente sulle spalle dei figli. O delle figlie, come nel caso di Maria Elena Boschi, finita sulla graticola per il crac di Banca Etruria di cui il padre era tra gli amministratori. Ne sa qualcosa anche l'ex ministro Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per un Rolex regalato al figlio da indagati che poi sarebbero usciti immacolati dalle inchieste. Allora fu soprattutto il M5s ad accanirsi sulla ministra dell'epoca. Ma il movimento non era ancora imborghesito dal potere. D'altra parte, i grillini sanno bene che cosa vuol dire avere un genitore alle prese con la giustizia: chiedere conferma a Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Antonio Di Maio pagò per anni gli operai in nero, fu costretto lui stesso ad ammetterlo e a riparare per chiudere le polemiche. Idem per Di Battista senior, nella cui azienda si lavorava in nero per evitare che colasse definitivamente a picco, travolta dai debiti. Beppe Grillo invece ha un figlio indagato in Sardegna per una vicenda di violenze su una ragazza, su cui è calato il silenzio. Restano però anche oggi i familiari di serie A e quelli delle categorie inferiori. Una quindicina di giorni fa uno dei figli di Umberto Bossi si è allontanato dal ristorante senza pagare con la scusa di andare a prelevare al bancomat. Il titolare del locale l'ha denunciato. Fossimo un Paese moderno come lo vogliono Conte e Renzi, il ristoratore avrebbe dovuto accettare il pagamento con il bancomat, e non lasciare che il povero Riccardo Bossi se la svignasse verso lo sportello automatico. Fatto sta che per qualche giorno l'Italia si è fermata davanti allo scandalo di cotanto figlio che ha fatto il furbetto per 60 euro. Per due fatture false targate Renzi, invece, il silenzio è d'obbligo, oltre che d'oro. Stefano Filippi