2022-01-09
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: netiquette dei messaggi
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Ormai sembra diventato un disco rotto che appassiona milioni di italiani. La Nazionale di calcio perde o fa una figuraccia e per una settimana, solitamente quella in cui il campionato è fermo, non si parla d’altro, cercando di scovare l’origine del problema. Poi tutto torna a tacere e senza capire che il fallimento della Nazionale non è la causa, ma l’effetto che finisce per nascondere problemi molto più profondi e strutturali che da anni affliggono il calcio italiano.
Dalle categorie dilettantistiche fino al professionismo, passando per settori giovanili depotenziati, stadi inadeguati, norme contraddittorie e campionati sistematicamente falsati, il sistema mostra crepe che non si possono più ignorare. Michele Criscitiello, direttore di Sportitalia e presidente di un club di Serie D, la Folgore Caratese, vive questo mondo ogni giorno da una doppia prospettiva: quella del giornalista che osserva e racconta, e quella del dirigente che affronta sul campo costi, regole e paradossi.
Direttore, da anni ripeti che la crisi della Nazionale è solo la punta dell’iceberg.
«La Nazionale è l’ultimo dei problemi, non il primo. È quella che ha più vetrina, quindi quando non vai al Mondiale sembra che improvvisamente il calcio italiano sia un disastro. Ma il calcio italiano è un disastro anche quando ai Mondiali ci vai, o anche quando vinci un Europeo come è successo con Mancini».
Quali sono i problemi veri, quelli che non fanno notizia ma affossano tutto il sistema?
«Non c’è una conoscenza dei problemi che ci sono nel calcio giovanile, nel calcio dilettantistico, nel calcio periferico, dove non ci sono le strutture e nel fatto che non si riesce a cambiare mezza normativa perché, come spesso dice Gravina, ci sono dei cavilli burocratici. Ma non sono problemi nostri, devono essere problemi suoi che quando accetta il primo, il secondo e il terzo mandato deve essere in grado di poter cambiare. Altrimenti stiamo pensando solo ed esclusivamente alla poltrona».
Dopo il Mondiale del 2014 Abete si è dimesso. Nel 2018 Tavecchio idem. Nel 2022 Gravina è rimasto al suo posto. Ora rischiamo di non qualificarci per la terza volta di fila e ha dichiarato che anche senza Mondiale non si dimetterebbe. C’è un problema di responsabilità nel calcio italiano?
«Assolutamente sì, perché Gravina arriva a fare il presidente federale dopo una certa gavetta a livello di politica sportiva e si tiene stretto questa poltrona. Non avrebbe mai immaginato fallimenti del genere, dopo l’Europeo. Però mentre Tavecchio e Abete hanno dimostrato una dignità sportiva, lui no. Lui pensa solo al suo ego e alla sua posizione».
Quindi il punto è il ruolo stesso del presidente federale?
«Il presidente federale non è il Lotito o il Cairo di turno. Rappresenta la nazione. Se la Nazionale fallisce, si deve dimettere. Non può decidere lui, “mi dimetto o non mi dimetto” in base alla sua dignità sportiva. Secondo me nello statuto futuro va scritta una regola chiara: se fallisci due grandi obiettivi - Europeo o Mondiale - sei fuori. Il fatto che Gravina resti è solo uno dei tanti cortocircuiti del sistema. È stato eletto dalle componenti che non vogliono scardinare il sistema, quindi tutto resta com’è».
Mancano alternative concrete?
«Sì, perché non ci sono candidati credibili in vista di un ricambio. Si stava presentando Del Piero ma ha rinunciato, potrebbe farlo Maldini ma è antipatico a molti, Albertini stava crescendo ma è troppo legato all’Aic, Tommasi troppo vicino ai calciatori e poi si è messo in politica. Oggi una vera alternativa è difficile da individuare. Potrebbe esserci Marani, però visto i problemi che ci sono nella Lega Pro, non cambio Gravina con Marani, con tutto il rispetto».
Perché?
«È stato un grande giornalista, ha sempre seguito la Serie A, la Champions League, i grandi livelli, ma ora fa il presidente della Lega Pro e prima non aveva mai visto una partita di Serie C. E per fare il presidente di Serie C devi conoscere i problemi dei presidenti di quei club».
Per esempio?
«Sotto al calcio dei grandi c’è un mondo che non funziona. Parliamo dei giovani. Ci impongono l’utilizzo, ma allora noi li utilizziamo perché sono forti o perché sono giovani? La risposta è perché sono giovani. Siamo obbligati a farli giocare, ma l’anno dopo che diventano senior e non under non giocano più a calcio. E quindi cosa mi stai portando? Niente».
La riforma Zola è stata un flop?
«Lo dico da due anni che è un flop. Se tu mi metti il 400% di incasso sul minutaggio di un giovane del tuo vivaio, ma scarso, che qualità dai? Se io ho il giovane forte, non mi devi obbligare a metterlo. Sono interessi miei che lo valorizzo e poi lo vendo e l’indotto gira. E poi c’è un’altra anomalia».
Quale?
«Se un presidente di Serie A vuole acquistare un giocatore italiano deve mettere una fideiussione a garanzia. Se lo prende straniero no. Ma è ovvio che io da presidente penso ai miei interessi e mi vado a prendere quello che non mi costa la fideiussione. Poi ci lamentiamo che il Como gioca con tutti gli stranieri, ma fanno bene. C’è una legge che lo vieta? C’è un vantaggio sotto alcuni punti di vista che ti incentiva a far giocare gli italiani? No. Corvino vince la Primavera a Lecce con tutti stranieri. Il problema è Corvino? No. Il problema è il sistema del calcio italiano».
Queste anomalie, alla fine, pesano anche sui conti dei club?
«Non è normale che tutti i presidenti di Serie C e di Serie B perdano soldi. Tutta la Serie A perde soldi, se non quelli che fanno le plusvalenze e che vanno in Europa».
Entrando più nel dettaglio?
«Sessanta società non possono reggere il professionismo. La Serie D a nove gironi con 160 società sono troppe. Bastano sei gironi di Serie D e due di C, con una tassazione massima del 23%. Punto. Perché io non posso permettermi di pagare tutti quei soldi per giocatori che poi devono avere anche il minimo federale. E poi vediamo le società fallire».
Per ultima il Rimini.
«L’anno scorso Turris, Taranto, Lucchese, quest’anno il Rimini. La Triestina adesso sta ancora a meno due dopo che era partita da meno 20».
Così si falsano i campionati?
«Tutti gli anni sono falsati. Perché è normale un sistema dove il Brescia presenta un’iscrizione farlocca e non fa ripescare il Caldiero che aveva investito quasi 2 milioni sulla struttura?».
Cos’è successo al Caldiero?
«È la fotografia di come non funzioni il calcio italiano. Dalla Serie D inaspettatamente va in Serie C. Non ha lo stadio, va a giocare sul campo della Virtus Verona. Nel frattempo fa i lavori, spende 1.800.000 euro per sistemare il suo stadio. A febbraio comincia a giocare a casa propria, a maggio è retrocesso, poteva essere ripescato, non l’hanno ripescato. Hanno speso per due mesi di partite in casa 1.800.000 euro. Adesso è di nuovo in Serie D a tre punti dai play-out».
Perché, nonostante questi problemi siano evidenti da anni, non si riesce mai a fare una riforma vera?
«Perché non c’è voglia di migliorarsi. Non c’è il coraggio di fare un cambiamento vero, anche a costo di essere contestati per due o tre anni. E invece si va avanti per inerzia, perché tanto va bene a tutti e stiamo solo facendo finta di non vedere che il calcio italiano, strutturalmente, non sta più in piedi».
Quante volte hai provato a invitare Gravina in trasmissione?
«Privatamente, anche tramite agganci privati, due o tre volte. Pubblicamente tutte le settimane».
Perché pensi voglia evitare questo confronto?
«Non so. Ma lui se venisse ne uscirebbe anche bene. Abbiamo fatto un pranzo insieme e lui le spiega bene le cose perché è una persona intelligente. Però la teoria è una cosa, i fatti sono un’altra».
Il 2 gennaio parte il mercato invernale. Che ti aspetti?
«Non mi aspetto chissà cosa. Se il Milan riesce a sistemare qualcosa in avanti con la punta, ci sta, però per il resto non vedo grandi rivoluzioni o grandi investimenti».
A Firenze che cosa sta succedendo?
«Purtroppo hanno avuto la tragedia di Joe Barone che ha lasciato il vuoto sia nella dirigenza che nella proprietà, perché fondamentalmente era l’uomo di Commisso. Quella figura non è stata sostituita, o meglio è stata sostituita malissimo, e la società è completamente allo sbando. Al di là dei giocatori, c’è proprio la gestione che manca».
Quest’anno più che gli allenatori stanno pagando i ds. Perché?
«Innanzitutto perché i presidenti sono sempre più protagonisti. Poi anche perché i direttori sono più deboli rispetto al passato. Prima la figura del ds sostituiva quella del presidente, ora è il contrario. Ci sono tanti direttori che molte volte accettano questo pur di lavorare, ma non sono autentici ds».
Elkann dovrebbe vendere la Juventus?
«Il calcio lo puoi fare solo se hai una passione matta e se sei pazzo. Elkann mi sembra che non ce l’abbia, l’ha dimostrato negli anni. Lo fa per economia e finanza, però la Juve deve avere un futuro proprietario diverso, perché la famiglia Agnelli basava tutto sulla volontà, sulla voglia e sulla passione di Gianni e Umberto. L’unico appassionato di calcio della famiglia è Andrea, ma se lo considerano non idoneo per gestire le casse della Juventus, allora vendi e basta».
È partita la Coppa d’Africa in Marocco, vostra esclusiva per il secondo anno. Che risultati avete avuto e cosa vi aspettate?
«La prima è stata un grandissimo successo, forse anche inaspettato. Secondo me lì c’è da fare uno studio sociale, più che sportivo televisivo. Non pensavo una roba del genere, abbiamo fatto dei numeri da calcio in chiaro di Serie A. Quest’anno firmerei per avere gli stessi ascolti della prima edizione».
È un calcio che piace sempre di più al pubblico?
«È un calcio sempre più fisico e imprevedibile. Poi ci mettono la passione. Malu Mpasinkatu mi racconta che per gli africani è più importante del Mondiale. E poi gli stadi. Parliamo tanto degli stadi che fanno schifo, diciamo il Terzo Mondo, ma il Terzo Mondo non sono loro, siamo noi. Nel 2023 in Costa d’Avorio era tutto bellissimo. Ora in Marocco, da quello che sto vedendo, gli stadi sono perfetti. Noi non riusciamo a organizzare un Europeo e nemmeno una finale di Champions».
Scene da un patrimonio. La banda di presunti terroristi che, dall’Italia, avrebbe foraggiato a suon di milioni la jihad islamica di Hamas, maneggiava denaro, ma, soprattutto, investiva nel mattone. Una scelta che dimostra quanto fosse mal riposta la fiducia di chi affidava a questi signori gli oboli per Gaza.
Gli specialisti dell’Antiterrorismo, in queste ore, stanno cercando di capire con quali soldi uno degli arrestati nell’operazione Domino della Procura di Genova abbia acquistato, negli ultimi mesi, decine di immobili. Il sospetto è che siano stati utilizzati i fondi degli aiuti per Gaza.
Il che dimostrerebbe che questi denari non erano destinati a una rapida consegna nelle mani dei bisognosi, ma a tutt’altri fini.
Nell’ordinanza di arresto per nove persone, il gip Silvia Carpanini dedica un approfondimento a uno dei soggetti finiti in manette, Adel Ibrahim Salameh Abu Rawwa, accusato di concorso esterno in associazione terroristica, avendo dato «un rilevante contributo all’organizzazione». Ufficialmente l’uomo risulta dipendente dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese (presieduta dal coindagato Mohammad Hannoun), di cui era il «referente per la raccolta delle donazioni nelle regioni del Nordest»: «Dal monitoraggio del Sistema informativo valutario, è emerso che l’indagato è stato oggetto di segnalazione da parte della Uif, in merito all’acquisto all’asta, in un lasso temporale ristretto, di oltre 40 immobili senza peraltro accedere ad alcuna linea di finanziamento», scrive la Carpanini. Un vero e proprio immobiliarista che sulla carta era, però, un semplice impiegato dell’Abspp.
In realtà, consultando l’archivio del catasto, si scopre che Rawwa risulta intestatario, a seguito di decreti di trasferimento immobiliari (successivi a fallimenti) emessi dall’autorità giudiziaria, di 90 immobili complessivi: 55 in provincia di Modena (decreto del tribunale di Modena, 24 maggio 2021) e 35 in provincia di Reggio Emilia (decreto del tribunale di Reggio Emilia, 21 dicembre 2023). Si tratta di 48 fabbricati divisi tra appartamenti di varie categorie (da quelle di tipo civile a quelle di tipo economico), un ufficio, 14 autorimesse, otto tra magazzini, cantine e depositi, cinque fabbricati da ultimare (e quindi non classificati) e 14 terreni agricoli. Il patrimonio a mosaico è concentrato in piccoli e medi comuni emiliani.
L’indagine, portata avanti dalla Digos e dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Genova, oltre che dal Nucleo speciale di polizia valutaria, ha approfondito il ruolo di Rawwa.
Nell’ordinanza viene descritto come l’uomo chiave della raccolta fondi, la cerniera tra Italia e Gaza. Con un peso specifico che emerge dai numeri. Quelli che Hannoun, senza retorica, gli riconosce: «Tu da solo in otto mesi (hai raccolto, ndr) quello che non si è mai raccolto in tre o quattro anni». La risposta di Rawwa è secca: «Sì, è vero, senza contare quelli del Pos e altre cose, sono arrivato a quasi 1 milione e 900.000 euro». Denaro che non resta fermo. E Rawwa non è solo il collettore. È anche lo spallone, l’uomo delle valigie e degli zaini. Le intercettazioni lo collocano più volte nelle sedi dell’associazione. O in giro per le consegne. In un’occasione affida a un complice «la somma di 250.000 euro in contanti» al casello autostradale di Lodi («Non li posso tenere tutti da me», è la giustificazione). Oltre ai contanti aveva raccolto altri 56.000 euro tramite Pos e 22.000 euro in bonifici, «per un totale di 340.000 euro», ricostruiscono gli inquirenti. In un’intercettazione spiega la suddivisione dei soldi: «Ogni pacchetto contiene 5 e sono 30, quindi 150.000». Durante le indagini gli investigatori lo hanno pizzicato mentre porta «uno zaino contenente 180.000 euro» proprio ad Hannoun. Sempre al telefono Rawwa rivendica: «Noi siamo l’unica associazione in Italia che raccoglie fondi per Gaza». Ed è in contatto diretto con Osama Alisawi, ex ministro dei Trasporti di Hamas e cofondatore della Abspp. Rawwa spiega anche che per far passare dall’Egitto una carovana di 28 camion, l’associazione di Hannoun ha dovuto distribuire «86.000 euro di mazzette» ai soldati del Cairo: 2.500 per mezzo, più 400 euro per ogni militare di scorta. E quando la «beneficenza» rischia di diventare un problema, Rawwa lo intuisce. Durante una conversazione invita l’interlocutore a «non parlare di queste cose».
Poi detta la linea: «Noi siamo per gli aiuti umanitari». Subito dopo ammette la pressione: «I nostri telefoni al milione per cento sono intercettati». Quando i conti correnti vengono chiusi, Rawwa trova la soluzione. La strategia è semplice: una nuova associazione «con persone che non devono essere già registrate con la vecchia e che non abbiano nulla a che fare con le manifestazioni (e quindi con le posizioni prese pubblicamente a favore della resistenza palestinese), ma che si occupino esclusivamente di volontariato».
Le foto arricchiscono il quadro indiziario. Nel materiale acquisito compaiono immagini di un anniversario di Hamas, con striscioni delle Brigate al Qassam, e Rawwa è lì, presente. In una delle annotazioni si segnala anche il suo like a un post del già citato Alisawi che esprime soddisfazione per l’eccidio del 7 ottobre.
Nella caccia ai denari di Hamas è entrata anche una storia curiosa, quella di un vaglia postale bloccato dagli investigatori. Nel corso delle indagini finanziarie, è stato scoperto che le maggiori risorse erano state depositate sui conti di Poste italiane Spa, compreso 1 milione di euro dell’associazione Cupola d'oro.
Quando gli indagati hanno mangiato la foglia e hanno capito di essere sotto inchiesta hanno provato a spostare quel denaro da Poste ad altri istituti bancari, utilizzando il vaglia. Ma le banche, allertate dalle forze di polizia, non hanno accettato il versamento. Per questo i soggetti arrestati si sono rivolti all’autorità giudiziaria e hanno ottenuto un decreto ingiuntivo emesso da tribunale di Milano a favore della stessa Cupola d’oro. La parola fine al contenzioso l’ha messa il gip di Genova, con le manette.
Nell’inchiesta, al momento, si contano circa 25 indagati, compresi i famigliari di Hannoun, la moglie e i due figli, che sarebbero stati consapevoli della destinazione reale dei fondi. Gli eredi si sarebbero anche prestati al trasporto di denaro. Tra le persone coinvolte anche la giornalista e orientalista torinese Angela Lano, a cui è contestato il concorso in associazione con finalità terroristica. A casa sua, sarebbero state trovate bandiere con i simboli di Hamas. Nelle carte è citato, anche se non risulta indagato, pure Mohamed Shahin, l’imam di Torino, destinato all’espulsione e poi salvato dalla Corte d’appello. Era in contatto con Mahmoud El Shobky, referente piemontese della raccolta fondi, indagato, ma non arrestato. In una telefonata del 26 luglio 2025, un altro arrestato, Yaser Elasaly, lo rassicura: «El Shobky non sa niente, sa che prendiamo la amana (beneficenza, ndr) e la consegniamo agli sfollati e ai bisognosi».
Shanin, invece, probabilmente sapeva la verità.
Vi avverto: questo podcast è fatto in due puntate perché la persona di cui parliamo ha avuto una vita veramente avventurosa. Le sue incredibili abilità la resero una pilota più brava delle sue celebri colleghe come Amy Johnson o Ameia Earhart ma dietro la sua bellezza si nascondevano spietatezza e determinazione.
Più passano le ore, anzi i giorni, e più diventa imbarazzante il silenzio degli amici di Mohammad Hannoun. Ma come? Fino all’altro ieri erano sempre pronti a sposarne la causa, facendosi fotografare al suo fianco, ben lieti di abbracciarne la lotta per la Palestina libera, invocando una soluzione per Gaza e una condanna per genocidio nei confronti di Israele. E ora che l’architetto giordano è finito in manette, con l’accusa di aver finanziato i terroristi di Hamas e di essere a capo di un’associazione che agiva da collettore di fondi per il movimento armato dei fondamentalisti islamici, i compagni di piazza e piazzate che fanno? Si voltano dall’altra parte, facendo finta di niente, anzi di non conoscerlo?
Da molti anni l’attività del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era oggetto di indagini della magistratura, alcune delle quali erano note. E da molto tempo era oggetto di inchieste giornalistiche, per le sue dichiarazioni estreme e per le sue discutibili frequentazioni. Già ieri ricordavo gli articoli apparsi su questo giornale a firma del nostro Giacomo Amadori. E Fausto Biloslavo l’altro ieri mi ricordava almeno una decina di servizi pubblicati su Panorama da quando ne sono direttore. Insomma, si sapeva o per lo meno di sospettava, che Hannoun avesse forti collegamenti con Hamas. E ci si immaginava che alcune delle associazioni di beneficenza da lui fondate per sostenere la causa palestinese non servissero a finanziare le famiglie in difficoltà, la costruzione di scuole, ospedali, acquedotti, come sarebbe stato giusto che fosse e come avrebbe dovuto essere se le promesse di Hannoun e dei suoi compagni fossero state veritiere. In realtà, da tempo si riteneva che quel denaro venisse usato per cause ben meno nobili, ovvero per armare i terroristi e pagare le famiglie dei miliziani finiti in carcere o al cimitero dopo gli attentati contro gli israeliani. In altre parole, quei fondi erano fondi investiti non per ragioni umanitarie, ma destinati a scopi bellici, compresa la strage del 7 ottobre 2023.
Di fronte a tutto ciò, al fiume di quattrini passato nelle mani di Hannoun e della holding immobiliare di Hamas (solo in Italia sarebbero una novantina gli edifici comprati allo scopo di impiegare la liquidità prima di consegnarla ai miliziani di Hamas), ci saremmo aspettati una presa di distanza e almeno qualche mea culpa da parte di chi, in questi anni, ha sposato la causa del «profugo» giordano-palestinese senza andare troppo per il sottile.
Invece, approfittando delle vacanze di Natale, da Laura Boldrini a Nicola Fratoianni, da Francesca Albanese ad Alessandro Di Battista paiono tutti in silenzio stampa. Desaparecidos. Tanto erano loquaci fino all’altro ieri, tanto sono silenziosi ora, forse annichiliti per aver abbondato con il panettone o intorpiditi per aver ecceduto nei brindisi. Alzare i calici a volte annebbia la mente, ma forse nel caso di Hannoun la mente dei compagni che con lui amavano scattarsi selfie era già annebbiata.
Anzi, su certi argomenti probabilmente lo è sempre stata. Al punto che oggi, di fronte agli arresti, non sanno che dire e preferiscono nascondersi, sperando che la Befana insieme alle feste si porti via anche la memoria degli italiani. Ma dimenticarsi di chi ha scambiato dei finanziatori di terroristi per nuovi rivoluzionari è difficile, se non impossibile.

